Attilio Bolzoni, la Repubblica 19/4/2015 e Gay Talese, la Repubblica 19/4/2015, 19 aprile 2015
LA PAROLA MAFIA
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È la parola italiana più famosa al mondo. Più di pizza, più di spaghetti. Presente in tutti i dizionari e nelle enciclopedie di ogni Paese, di etimologia incerta — deriva da maha^ fat^, espressione araba che vuol dire immunità? Da un antico termine toscano che indicava ostentazione e boria? — fino al secondo dopoguerra si scriveva e si pronunciava con due «effe». All’anagrafe, e non è certo un caso, è vecchia quasi quanto lo Stato unitario. Ma di sicuro c’era già prima, anche se nessuno le aveva ancora dato un nome. Un fascicolo prefettizio non ha mai fatto la storia, però quello che il marchese Filippo Antonio Gualterio ha inviato al ministro dell’Interno del Regno Giovanni Lanza si è rivelato un segnatempo decisamente importante: indica la data esatta di quando la Mafia ha cominciato a chiamarsi Mafia. Centocinquanta anni fa. Documento con tanto di bollo e stemma con croce sabauda, viva il Re e viva l’Italia. Era il 25 aprile del 1865.
Nata nell’agro palermitano e negli assolati feudi della Sicilia centrale, questa parola che ha attraversato tante vicende politiche e criminali della nostra nazione non ha avuto sempre lo stesso significato. Ogni epoca ha avuto la sua mafia. Un secolo fa rappresentava qualcosa, dopo l’uccisione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino un’altra, un’altra ancora oggi. Ma è stato quel giorno, il 25 aprile, che la Maffia — che poi si trasformerà in Mafia — è entrata formalmente e sinistramente nel nostro vocabolario.
Le prime notizie sull’esistenza di certe canaglie, «oltre cento, di diverso rango, le quali erano riunite in fermo giuramento di non rivelare mai la circostanza delle loro operazioni a costo della vita», risalgono al 1828 e ne ha riferito uno sconosciuto magistrato di Agrigento descrivendo un’organizzazione criminale che aveva radici fra Cattolica, Cianciana e Santo Stefano di Quisquina. Dieci anni dopo, nel 1838, il procuratore della Gran Corte Criminale di Trapani Pietro Calà Ulloa denunciava che «vi ha in molti paesi delle unioni o fratellanze, specie di sette che si dicono partiti, senz’altro legame che quello della dipendenza di un capo che qui è un possidente, là un arciprete... sono tante specie di piccoli governi nel governo». Ma fu solo il prefetto di Palermo, il marchese Gualterio, in quella primavera del 1865 — Garibaldi era sbarcato a Marsala appena cinque anni prima — ad avvisare «di un grave e prolungato malinteso fra il Paese e l’Autorità», annunciando il pericolo che «la cosiddetta Maffia od associazione malandrinesca potesse crescere in audacia, e che, d’altra parte, il Governo si trovasse senza la debita autorità morale per chiedere il necessario appoggio alla numerosa classe di cittadini più influenti per senso di autorità». Tratteniamo il respiro per un momento e riflettiamoci: centocinquanta anni dopo è cambiato veramente qualcosa? Comunque sia e la si voglia vedere, da quel giorno in poi, in Italia, di mafia non si è più smesso di parlarne e straparlarne. Prima e dopo Caporetto, nell’era del Duce, nella Prima e nella Seconda Repubblica, a Caltanissetta e ad Aosta, a Portella della Ginestra e nella Milano «da bere», nella Corleone di Totò Riina e con Renato Schifani sullo scranno più alto del Senato. Passando naturalmente per l’immarcescibile Giulio Andreotti e il più “corsaro” Silvio Berlusconi.
Tutto è cominciato quel 25 aprile di un secolo e mezzo fa anche se, in verità, un paio di anni prima, per le strade e i teatrini popolari di Palermo era andata in scena una commedia dialettale in tre atti ( I mafiusi de la Vicaria), scritta da Giuseppe Rizzotto e Gaetano Mosca. L’opera, dove si citava sempre la parola «mafiosi» e mai «mafia», raccontava le gesta di un detenuto al quale si sottomettevano tutti gli altri rinchiusi nelle segrete della Vicaria, il famigerato carcere che per volere dei Borboni fu rimpiazzato nella metà dell’Ottocento dall’Ucciardone. Ma agli atti, negli archivi dello Stato italiano, è il rapporto Gualterio che resta il punto di riferimento storico: l’origine della mafia come mafia. Il suo resoconto al ministro dell’Interno e al capo del governo Alfonso La Marmora già individuava l’essenza di quell’organizzazione dove non c’erano solo «malfattori » ma anche «molti proprietari» che stavano al fianco «della malandrineria colla quale molti rapporti avevano avuto svariati partiti». Poi incideva sul documento quella fatidica parola: «La cosiddetta Maffia». Sempre scritta in maiuscolo.
L’analisi del marchese-prefetto, seppur inevitabilmente approssimativa, neanche un quarto di secolo dopo — siamo nel 1889 — era già stata dimenticata sotto una montagna di «ragionamenti» e di difese a oltranza della Sicilia e sull’onore dei siciliani. Il più autorevole sostenitore di questa corrente di pensiero, che negli anni a venire avrebbe influenzato intellettuali e soprattutto uomini politici molto interessati alla questione, fu il famoso studioso del folclore Giuseppe Pitrè (fondatore in Sicilia della «demologia» da lui battezzata demopsicologia, psicologia del popolo) che con una raffinata operazione mistificatoria riuscì a placare ansie identitarie e seppellire legami con il potere. Il Pitrè descriveva così la mafia che conosceva: «È la coscienza del proprio essere, l’esagerato concetto della forza individuale, l’unica sola arbitra di ogni contrasto, di ogni urto di interessi e di idee; donde l’insofferenza della superiorità e, peggio ancora, della prepotenza altrui».
Poi, per cinquant’anni, ciascuno ha scelto per sé o per i propri amici e soci l’interpretazione più conveniente e meno rischiosa dell’espressione, preferendo liquidare una volta per tutte la faccenda mafia come puro «stato d’animo dei siciliani». Sarebbe sufficiente ricordare un solo episodio di questo dibattito molto equivoco sulla mafia e sulla mafiosità, l’intervento a Palazzo Madama del ministro dell’In- terno Mario Scelba il 25 giugno 1949: «Onorevoli senatori, basta mettere il piede a Palermo, perché dopo pochi minuti si parli della mafia: e se ne parla in tutti i sensi, perché se passa una ragazza formosa un siciliano ci dirà che è una ragazza mafiosa, oppure se un ragazzo è precoce vi dirà che è mafioso. Si parla della mafia condita in tutte le salse ma, onorevoli senatori, mi pare che si esageri...».
Decennio dopo decennio la mafia ha preso varie forme o addirittura è scomparsa. Insieme al nome. Fra il 1970 e il 1975 — proprio quando il clan dei Corleonesi stava conquistando Cosa Nostra per farla diventare l’organizzazione criminale più potente del mondo occidentale — la parola è sparita dalle relazioni dei procuratori generali di Palermo all’inaugurazione degli anni giudiziari nel distretto. Sarà stata una coincidenza ma, ripensandoci oggi e meditando sul ruolo della magistratura di allora, la circostanza mette i brividi. Molto suggestiva è la ricostruzione che fa lo storico Francesco Renda, nella sua Storia della mafia , sul camaleontismo semantico del termine. Che cosa è la mafia? Quale definizione se n’è data nel tempo? Il professore Renda ricorda cosa hanno riportato in proposito, nell’arco di vent’anni, i più importanti dizionari italiani. Lettura consigliata, qui accanto.
C’è voluto Giovanni Falcone e il suo maxi processo — istruttoria iniziata nel 1984, dibattimento di primo grado concluso nel dicembre del 1987, sentenza definitiva della Cassazione il 30 gennaio del 1992 — per scoprire cos’era e cos’è veramente la mafia. Non una malattia «incarnata nei costumi dei siciliani ed ereditata con il sangue», ma «un’associazione criminale e segreta che con la violenza e l’intimidazione ha seminato e semina morte e terrore».
Sulle cause della sua longevità dubbi non ce ne sono. È sempre stata protetta dal potere. Anche dopo tanto tempo — ipocrisia tutta italiana — ogni volta che se ne parla ci sorprendiamo sempre, come se l’avessimo appena scoperta. Eppure già nel 1900, Napoleone Colajanni, cospiratore mazziniano, ex garibaldino, “agitatore” politico e poi ancora deputato repubblicano diventato famoso per avere smascherato il primo grande scandalo nazionale (quello della Banca Romana) scriveva Nel regno della Mafia, il suo libro più famoso: «Per combattere e distruggere il regno della Mafia è necessario, è indispensabile che il governo italiano cessi di essere il re della Mafia».
Naturalmente non tutti hanno condiviso e condividono ancora oggi le idee di Colajanni. Ma, ammettiamolo, quella parola continua a dare sempre fastidio. E a molti. Da presidente del Consiglio, nel 2009, Silvio Berlusconi non riuscì a trattenersi: «Se trovo chi ha scritto libri sulla mafia facendoci fare brutta figura nel mondo, giuro che li strozzo ». E sentite cosa dichiarava pubblicamente Roderico Pantaleoni, procuratore generale del Re presso la Corte di Appello di Palermo, all’inaugurazione dell’anno giudiziario 1902: «Se c’è tra voi chi creda ch’entrando a parlare della delinquenza io debba intrattenermi sulla Maffia, si disilluda o meglio si conforti. Se ne è parlato tanto, si è fatto tanto abuso di questo vocabolo che, francamente lo dico, non se ne può più sentire parlare senza provare un senso di nausea e di disgusto».
Attilio Bolzoni, la Repubblica 19/4/2015
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QUEL GRIDO DI UNA MADRE DISPERATA “MA FÌA! MA FÌA!” –
Per secoli la miseria e le epidemie della loro regione erano state ignorate dal governo siciliano, dal parlamento di Roma, dai dominatori stranieri di epoche precedenti, sicché essi avevano finito per prendere la legge tra le loro mani e adattarla ai loro interessi, come avevano visto che facevano gli aristocratici. Non credevano affatto che la legge fosse uguale per tutti: la legge era dettata dai conquistatori. In più di duemila anni di tumultuosa storia, l’isola era stata governata dalla legge dei greci, dalla legge dei romani, dalla legge degli arabi, dalla legge dei goti, da quella dei normanni, degli angioini, degli aragonesi: ogni nuova flotta di conquistatori portava nel paese una legge nuova; e ogni legge, da chiunque fosse portata, sembrava favorire il ricco contro il povero, il potente contro il debole. Nella storia della Sicilia esisteva un unico drammatico caso in cui l’immiserita ed esasperata popolazione dell’isola aveva saputo organizzare con successo una rivolta nazionale contro gli oppressori, che nel caso in questione erano i francesi. La causa dell’insurrezione si era prodotta il lunedì di Pasqua del 1282, quando un soldato francese aveva recato oltraggio a una giovane palermitana nel giorno delle sue nozze. Immediatamente una banda di siciliani era passata alla rappresaglia, massacrando la truppa straniera; e la notizia del fatto, propagandosi rapidamente per l’isola, aveva spinto alla sollevazione una città dopo l’altra, in una frenetica orgia di xenofobia, con bande di uomini che aggredivano e ammazzavano ogni francese in cui s’imbattevano. Migliaia di francesi erano stati uccisi in pochi giorni; e secondo alcuni storici locali da questo episodio traeva origine la mafia, prendendo nome dal grido angosciato della madre della ragazza, che aveva corso per le strade urlando ma fìa, ma fìa! (miafiglia ndr).
(Traduzione di Clemente Fusero) Da Onorailpadre©1-971 by Gay Talese All rights reserved including the rights of reproduction in whole or in part in any form ©2011 2-015 Rcs Libri S. p. A., Milano
Gay Talese, la Repubblica 19/4/2015