Alessandro Oppes, la Repubblica 19/4/2015, 19 aprile 2015
“ENZO MI HA CHIESTO SCUSA IO LO AMO DA TREDICI ANNI MA NON ACCETTA IL SUO MALE”
[Intervista a Stefania Ciasullo] –
ALBACETE.
Solo un sorriso e un gesto furtivo con la mano, prima di risalire a bordo della sua Fiat Freemont, questa volta guidata dal cognato arrivato da Torino. Finisce così, davanti alla porta d’ingresso del commissariato di polizia di Albacete, l’angosciante odissea spagnola di Enzo Costanza, l’impiegato torinese affetto da problemi psichici. Dopo una notte in stato di fermo, ieri è stato il giudice del tribunale provinciale a decretarne il rilascio al termine di un’udienza lampo. Per la giustizia spagnola, il caso è archiviato. «Sono un ottimo mammo. Voglio bene a mio figlio, non avrei fatto nulla per metterlo in pericolo», ha assicurato davanti al magistrato, che ha deciso di rimetterlo in libertà «perché l’eventuale reato è cominciato in Italia». L’ultima parola spetterà ora alla procura di Torino. «Mi ha chiesto scusa, si è reso conto di quello che ha fatto», mormora sollevata la moglie Stefania Ciasullo, mentre spinge il passeggino verde dove il piccolo dorme placidamente — ha riposato senza piangere quasi tutta la mattinata — sotto una coperta celeste pallido. Sia in tribunale che alla stazione di polizia, marito e moglie si sono parlati, limitando però al massimo il contatto diretto. Poche parole e nessuna scena di commozione per evitare il più possibile l’accavallarsi delle emozioni, per lo meno fino a quando non saranno a casa, a Orbassano, e potranno affrontare in modo più disteso la vicenda. Anche per questo, Stefania è ripartita col piccolo mentre il marito rientrerà con un altro volo.
Stefania, che tipo è Enzo?
«È una persona che è sempre stata molto intelligente, simpatica, generosa, di cuore. Proprio una brava persona: diversamente non ci saremmo sposati e non avremmo fatto un figlio. Non staremmo insieme se non lo amassi e non sapessi che è una persona buona. Eravamo giovanissimi quando ci siamo conosciuti, ci siamo fidanzati alla fine del 2002, sono quasi tredici anni. Purtroppo è capitato nella sua vita che ha avuto questo problema. L’abbiamo affrontato, ma lui non l’ha accettato fino in fondo. E quindi a un certo punto ha deciso di smettere di prendere le medicine».
Quando ha interrotto la cura, ha parlato con lui?
«Io ero ricovera in ospedale in una fase difficile della gravidanza. È stato anche quello, quando sono a casa è più facile affrontare questi problemi, tenere le cose sotto controllo. Questa situazione si è inserita invece in un contesto molto complesso».
La malattia risale a nove anni fa. È stata una cosa improvvisa?
«Sì, probabilmente legata a una situazione di stress estremo. Non ha retto i ritmi di lavoro e di studio, e lì è scattato qualcosa. Poi ha cominciato le cure e con le pastiglie ha potuto avere una vita sociale e lavorativa più che normale».
Fino a quando la situazione non è precipitata.
«Una volta rientrata a casa dopo il parto, insieme agli altri familiari abbiamo provato a convincerlo a riprendere le medicine. Abbiamo visto che lui era un po’ scosso. Un po’ infastidito dalla discussione, si è allontanato dicendo: “Vado a farmi una passeggiata per schiarirmi le idee”.
E quando è rientrato ci ha fatto sapere di essere stato in Francia. Questa cosa ci ha stupito un poco, ma non ha voluto dare una spiegazione».
Pochi giorni più tardi, la fuga. Come è andata?
«Eravamo appena andati dallo psichiatra, che aveva insistito sulla necessità di riprendere a curarsi. All’uscita io dovevo comprare un regalo per il bimbo di una nostra amica. Sono scesa un attimo dalla macchina e gli ho detto di non parcheggiare neppure, doveva essere questione di un minuto. Vado e torno. Quando sono uscita dal negozio non c’era più. Ho guardato intorno, e niente. Ho cominciato a chiamarlo al telefono e ho visto che riagganciava. Allora sono entrata un po’ nel panico. Ho chiamato mia suocera, perché dovevamo andare a pranzo da lei, ma non sapeva niente. Allora chiamo mio cognato e gli dico: guarda, non lo trovo più, è col bambino e non so dove sia andato. E a quel punto abbiamo deciso di chiamare la polizia».
Qual è stato il momento più difficile di queste giornate?
«Quando non avevamo nessuna notizia, quando non sapevamo dove fosse e se il bambino stesse bene. Il sospiro di sollievo lo abbiamo tirato quando, dalle notizie dei testimoni che lo hanno visto a Lione, abbiamo saputo che il piccolo stava bene, che era con lui, che gli aveva comprato i biberon, aveva fatto la spesa. Allora ci siamo tranquillizzati abbastanza perché ovviamente, non essendo in sé, non sapevamo cosa potesse fare. Come padre è sempre stato premuroso, in questi pochi giorni di vita del bimbo».
Pensa che questa crisi possa considerarsi superata?
«Vedremo cosa succederà ora, al nostro rientro in Italia. La questione è che quando lui smette di prendere le pastiglie, non riconosce più di avere un problema. È difficile convincerlo di nuovo. Sì, è vero che in passato c’erano stati già episodi simili, ma solo per periodi brevi, in situazioni particolari, quando magari aveva problemi di insonnia e pensava di dover interrompere per qualche giorno la cura. Questa volta però si è andati un po’ oltre. Ora comunque si torna a casa e speriamo di superare anche questa».
Alessandro Oppes, la Repubblica 19/4/2015