Sergio Romano, Corriere della Sera 18/4/2015, 18 aprile 2015
PER FERMARE E BATTERE L’ISIS OCCORRE UN RISORGIMENTO ISLAMICO
Si levano sempre più frequenti le voci a sostegno di un intervento militare contro l’Isis. Certo, lo si potrebbe definire umanitario, per fermare i massacri di centinaia se non migliaia di persone indifese. Ma che dire delle lezioni che l’Occidente dovrebbe trarre dagli interventi in Afghanistan e in Iraq, del loro esito? Quella del cosidetto Califfato è una guerra fratricida. La chiamata a una guerra santa contro gli Stati Uniti e l’Europa è un falso scopo ai fini di propaganda per la mobilitazione dell’opinione pubblica araba. Se oggi le popolazioni dei territori occupati dal Califfato non osano ribellarsi non deve sorprenderci; la decapitazione di chiunque si opponga è un formidabile deterrente. Ma la guerra dell’Isis è perdente, quando si considerino i processi di modernizzazione in corso da oltre 20 anni nella maggior parte dei Paesi a maggioranza musulmana, animati in prima fila da donne e giovani, che tuttavia non vogliono che conducano a una «occidentalizzazione». In realtà tra i musulmani con i quali ho lavorato con Ethnobarometer molti non amano definirli «modernizzazione» che ai loro occhi suggerisce o fa temere interventi esterni, mentre «modernità» non pone problemi. E non amano i regimi dei paesi arabi che collaborano con gli Stati Uniti. Per loro, come per l’Europa, è in gioco la loro identità. Esiste senza dubbio una «nazione» islamica, in senso lato, di religione e di cultura, ma questa è cosa diversa da uno «Stato». Infine non dimentichiamo che agli esordi il Califfato si era autobattezzato Isil, con la «L», che stava per Levante, che arriva a comprendere anche la Palestina, e questo nome sta ad indicare la volontà di riconquistare all’Islam i territori sottomessi prima dalle crociate e poi dalle politiche coloniali delle potenze europee. Un progetto antistorico destinato a fallire, è lecito sperare, anzi prevedere, come quello di una certa Europa, quella dei soprassalti di nazionalismo e islamofobia.
Alessandro Silj
Caro Silj,
E thnobarometer, che lei dirige sin dalla sua fondazione (1997), è un centro di studi sulle relazioni interetniche, le correnti migratorie, i processi d’integrazione e i diritti umani in Africa del Nord, Turchia e Medio Oriente, con una rete di osservatori che copre l’intera ragione. Le sue considerazioni, quindi, sono il risultato di indagini e studi molto utili per chiunque cerchi di comprendere le crisi del modo arabo-musulmano.
Credo che vi saranno circostanze in cui l’Isis, soprattutto quando riesce a impadronirsi di un territorio, dovrà essere combattuto con le armi. Ma commetteremmo un errore se pensassimo, come alcuni settori delle società occidentali, che la lotta contro l’Isis è soltanto un episodio dello «scontro di civiltà» fra l’Occidente, nelle sue diverse componenti, e l’Islam. Vi è una paradossale somiglianza, a questo proposito, fra gli strateghi dello Stato Islamico e i settori islamofobi delle società europee. Per allargare il loro consenso e mobilitare le masse, entrambi cercano di accreditarsi come espressione di un insanabile contrasto secolare. La realtà, caro Silj, è invece quella descritta nella sua lettera: una guerra civile fra la parte più retriva dell’Islam e quella che aspira alla modernità, anche se in forme e con istituzioni diverse da quelle europee e americane.
Il vero punto dolente di tutte le crisi medio-orientali degli ultimi decenni è l’impotenza o inettitudine di quasi tutti gli Stati medio-orientali a cui spettava il compito di accompagnare le società musulmane sulla via della modernità. Gli interventi militari degli Stati Uniti, quello in Libia del 2011, la guerra civile siriana e l’interminabile crisi palestinese hanno avuto l’effetto di destabilizzare ulteriormente la regione e di creare le condizioni in cui l’Isis avrebbe potuto rappresentare se stesso come l’ultima risorsa di società umiliate e frustrate. Occorre combattere l’Isis. Ma occorre anche essere consapevoli degli errori commessi ed evitare di ripeterli.