Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  aprile 19 Domenica calendario

L’ACROBATICA MISSIONE DELLA CONSULTA: INSEGNARE GIURISPRUDENZA, NON «GIURISPAURA»

Una volta ho quasi fatto a botte per la Corte costituzionale. Fu nell’ottobre del 2009. La Consulta aveva bocciato il lodo Alfano e Berlusconi andò su tutte le furie. Tra i suoi supporter l’allora ministro della Difesa La Russa si distinse per la veemenza dell’attacco alla Corte, basato sui soliti argomenti, giudici comunisti, inganno e tradimento, violazione della sovranità popolare, ecc. ecc. Alla sera, in un talk show, lo ripresi sostenendo che la Consulta è un organo costituzionale e che un ministro della Repubblica, che alla Costituzione ha giurato fedeltà, non poteva trascinarla così nel fango della lotta politica. La Russa non gradì e alla prima pausa pubblicitaria mi minacciò di ritorsioni fisiche. Il moderatore non lo moderò.
Leggendo il singolare diario (singolare nel senso letterale, nessuno l’ha mai fatto prima) con cui l’ex giudice costituzionale Sabino Cassese racconta mese per mese i suoi nove anni alla Consulta e i pensieri che gli hanno provocato (Dentro la Corte. Diario di un giudice costituzionale, il Mulino, pagine 320, e 22, in uscita il 23 aprile), ho trovato il fondamento di quel mio scaldarmi. Il fatto è che, come scrive un collega americano a Cassese per complimentarsi della sua nomina, « we are not final because we are infallible, but we are infal lible only because we are final». È la regola del gioco: una democrazia basata sulla divisione dei poteri e sul primato della legge, non potrebbe vivere ordinatamente senza un giudice finale delle leggi che ha l’ultima parola, e senza che tutti l’accettino come tale. D’altra parte l’autore ha sentito spesso usata contro la Corte «l’eco di una concezione rousseauiana del potere pubblico, per cui tutto il potere promana dal popolo e va quindi rispettata la volontà del Parlamento. Ma perché allora – obietta – si è voluta una Costituzione con forza superiore a quella della legge? Perché è stata istituita una Corte costituzionale?». Come se il popolo «non dovesse esercitare la sua sovranità nei modi e nei limiti stabiliti dalla Costituzione».
Semmai Cassese è preoccupato del contrario, da un eccesso di judicial modesty che vede nella Corte, una tendenza a dimenticare che «si insegna la giurisprudenza non la giurispaura». «Si sente spesso in Camera di consiglio la frase: non andiamo in contrasto con la volontà del legislatore, non forziamogli la mano... La formula corretta non è dove deve fermarsi la Corte, ma fino a dove si estende la Costituzione, che la Corte è chiamata a difendere». L’autore propende per un ruolo attivo, critica il rifugiarsi frequente nelle decisioni di inammissibilità, «alle quali si ricorre quando non si vuole decidere in un senso o nell’altro», preferisce giudici che davanti a un problema non si chiedano «come ne usciamo», perché pensano che il loro lavoro è decidere e non «uscirne».
Non è parco di critiche alla Corte Cassese. Anzi. Scrive che «è una prigione, un mondo incatenato alla tradizione e ai precedenti, anche dove non ce n’è bisogno». È tentato di dar ragione «a quelli che ritengono la Corte italiana una Villa Arzilla... appare in un angolo, gioca di rimessa, quando il pallone arriva è sempre troppo tardi».
La sua è una critica serrata che va nel profondo e che si avvale di una costante comparazione con il lavoro delle altre grandi Corti supreme, che Cassese conosce e frequenta come pochi. Ma è una critica che non disdegna di estendersi al fattore umano, ai vizi e ai vezzi dei colleghi, alla loro competenza, capacità di studio, impegno lavorativo, coraggio intellettuale. Memorabile una pagina del nono anno del diario in cui descrive per bozzetti, uno a uno, i suoi «compagni di viaggio». Mancano i nomi, ma è come se ci fossero. Severo è l’autore anche con certe prassi, come quella di eleggere presidente sempre il più anziano, quello al quale resta meno tempo nella Corte, così indebolendo gravemente la credibilità dell’organo e autorizzando il sospetto che, piuttosto che per difendere la collegialità, la vertiginosa rotazione (nove presidenti nei suoi nove anni) serva la vanità e gli emolumenti dei giudici. Non di Cassese, però, che chiese esplicitamente al collegio di non essere eletto quando fu il suo turno, con una lettera che pubblica nel libro.
Sono anni difficili quelli che Cassese racconta, anni in cui la Consulta ha dovuto decidere sulla legge elettorale, sui referendum, sulla procreazione assistita, sul caso Englaro, sul conflitto tra Napolitano e la Procura di Palermo, e contemporaneamente su una pletora di questioni minori, dai diritti e privilegi delle corporazioni pubbliche fino alla «certificazione dell’Azienda sanitaria per la movimentazione del bestiame».
Lo spirito, la cultura giuridica, la mole di informazioni che sulle decisioni della Corte questo libro fornisce al lettore danno ragione all’autore per non aver seguito l’esempio di Giuliano Vassalli, che nel 2006 scrisse: «Dei nove anni in cui fui giudice alla Corte non mi sembra sia il caso di scrivere». Cassese ha scritto e senza violare alcuna regola. Il suo libro fissa dunque un precedente. Per una Corte che non ha un archivio, le cui sedute sono segrete, che non prevede la pubblicità della dissenting opinion , in cui una formale incomunicabilità con la stampa convive con l’opacità delle veline, il libro di Cassese è una ventata di aria fresca da ispirare, e su cui meditare.