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 2015  aprile 18 Sabato calendario

ANTONELLO HA ANCORA VOGLIA DI CANTARE

L’antica difficoltà di riunire “Antonello e Venditti, l’amico e il compagno, il privato e il pubblico” è stata nuovamente superata. Per riuscire nell’impresa, a metà degli anni ’80, servì l’amore illogico di Ci vorrebbe un amico. Tre decenni dopo, a recuperare il Venditti migliore, quello che fonde razionalità, sentimento, consuntivi e ipotesi di futuro senza ipoteche certe, pensa Tortuga (Heinz Music / Sony Music, in uscita martedì 21 aprile, attualmente in pre-order su iTunes e Amazon).
Nove pezzi inediti: “E solo nove perché penso sia più onesto non vendere musica al chilo, come fossimo dal droghiere”. Una copertina su cui si staglia la figura del cantante: “I contributi sono così vari che oggi la definizione cantautore – giura lui – non ha più senso”. Un titolo che omaggiando il bar dirimpetto al suo Liceo romano, il Giulio Cesare, rimanda alle memorie da ventenne e ai tempi in cui un ragazzo grasso guardava il magro profilo di “un ’68 ancora lungo da venire e troppo breve da dimenticare”.
Un album che, una volta ascoltato, rivela i nascosti virtuosismi, e invita alla ripetizione. Per arrivare a Colle Romano – ciuffi di Lavanda ai bordi della strada, ulivi all’orizzonte, margherite a perdita d’occhio e la vecchia, disastrata Via Tiberina che silenziosa osserva dal basso – è necessario lasciare una città “spenta” di cui Venditti non riconosce più né lampi né padroni.
Un luogo in cui l’unica luce “è oltre Via della Conciliazione”. In uno Stato straniero governato da un signore di argentina estrazione e piglio sicuro che si chiama Bergoglio, non organizza “fughe di angeli dalla capitale”, ma nelle visione non ecumenica di Venditti è: “Un Papa con le palle”.
Oltre le curve del complesso residenziale che ospita il suo studio di registrazione e i cartelli che indicano cifre dei lotti ed esatta ubicazione del regno di Antonello invece, c’è la fatica numero diciannove di Venditti. Un disco “scritto di getto”.
Dedicato a uno straordinario pianista scomparso come Alessandro Centofanti che alla tastiera, correndo sulla stessa fascia sinistra di un omonimo terzino interista, impreziosì i lavori di Renato Zero, Lucio Dalla, Francesco De Gregori e di un’altra cinquantina di artisti. Un musicista che di Antonello, per 35 anni, fu collaboratore, amico e – dice lui mentre scorrono le commoventi melodie di “Tienimi dentro me” – soprattutto “fratello”. Con il pacchetto di sigarette sull’equalizzatore e il vizio compulsivo di chi accende, spegne e proprio non riesce a scendere sotto le ottanta, Venditti lascia spazio alle tracce non fumose delle sue canzoni e poi, solo in parte stimolato dalle domande, al flusso di coscienza.
All’equilibrismo di far convivere amore e creazione sotto lo stesso cielo. Talento e materia da incallito trapezista: “Per usare un eufemismo– ragiona per sottrazione –, non deve essere stato facile starmi accanto”. Alle disperazioni senza redenzione: “Ti sei bevuta un intero inverno barcollando al ritorno”. Alle metafore: “Una rosa sul polso, una croce sul petto” o anche “rassegnato come il sole dopo l’ennesimo temporale”.
Ai rimpianti sentimentali che preludono all’addio, alla pagina chiusa, alla porta sbattuta delle case che esattamente come all’epoca di Dimmelo tu cos’è non sono più sue: “Cosa avevi in mente/ tutta un’altra vita/ cosa avevi in testa/ una storia diversa da questa”. In fondo a tutto, dietro a tutto, come sempre c’è Venditti. La sua corsa. La sua rabbia filtrata attraverso l’esperienza. Buttarsi nel fiume come vagheggiava in Sora Rosa non è più un’opzione. Si rimane qui, si “campa la vita” e si lotta. Mettendo in scena il suo braccio di ferro con l’esistenza senza vincitori né vinti.
Il suo orchestrare un dialogo immaginario con se stesso e con le donne che lo hanno accompagnato: “E adesso che la vita si fa dura intorno a me/ ti dico è stato un grande colpo di fortuna avere te/ e più ripenso a quella parte della strada insieme a te/ più ti ringrazio delle cose che ho imparato/ e forse tu da me”.
I cuori che fioriscono e avvizziscono senza preavviso sono ancora al centro della sua poetica, ma se adombri una pacificazione figlia dell’età tra le due metà, una tregua momentanea tra maschio e femmina, un riconoscimento reciproco di limiti, egoismi ed errori tra uomini che “perdono orientamento e dignità” e “donne indocili” dettato magari dalla fatica, dalla stanchezza e dal deja-vù, Venditti dissente: “In realtà, tra le righe, c’è un profondo tormento e penso che il disco lo esprima fino in fondo”. Lo trovi ne L’ultimo giorno rubato: “Quanti giorni mi hai rubato/senza che me ne accorgessi/quanti ne hai restituiti/ dopo averli fatti a pezzi”.
E nelle pieghe di Tortuga, il pezzo che sigilla una trilogia iniziata con Compagno di scuola: “Il silenzio assoluto/la versione di greco/ che se sbagli una frase non c’è più rimedio/ i tuoi occhi perduti/ quattro banchi più indietro/ io mi sento un vigliacco mentre tu chiedi aiuto”.
Siamo soli “nella camera vuota” e nessuno può dirsi innocente. Non lo siamo comunque da ieri e l’unico antidoto alla sofferenza, suggerisce, è ripartire, ricominciare, lasciare le guerre, anche quelle “assassine” degli anni ’70 per provare a delineare una pace.
Una nuova partenza, una stazione da cui il treno, come in Fellini, possa fischiare forte e non diversamente da Il pifferaio di Hamelin, prima che la tragedia incombente trovi forma, illuda almeno di ritrovare la strada perché fatti non fummo a viver come bruti, ma neanche come topi. Un tempo sarebbero stati sufficienti “un pianoforte, una chitarra e molta fantasia”. Oggi le note non bastano più.
E Venditti, senza pretesi santonismi né formule certe, lo dice a voce alta. Non ha smesso di essere curioso. Di leggere. Di ballare in bilico tra le generazioni senza abito da sera. I Ray-Ban e il Panama sono nell’angolo, la vista funziona: “A conoscere l’Italia siamo rimasti noi artisti, gli autotrasportatori e alcuni esponenti della criminalità organizzata” disse.
Non è mutato nulla e anche se nel panorama della “tierra de scandalos e de scandalizados” fosse cambiata qualche virgola, punti fermi, contraddizioni e dolori sono rimasti identici.
Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 18/4/2015