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 2015  aprile 18 Sabato calendario

COSA RESTA DEL MODELLO SINGAPORE

Pochi uomini politici sono stati fatti pubblicamente oggetto di tanti calorosi tributi quanto Lee Kuan Yew, l’ex primo ministro di Singapore scomparso giusto un mese fa, il 23 marzo. Un uomo che Henry Kissinger trattava alla stregua di un saggio, Vladimir Putin considerava un modello politico e Barack Obama descrisse come «un vero gigante della storia» deve pur aver avere qualche merito.
Un fatto è certo: Lee Kuan Yew esercitò un’influenza superiore alla sua effettiva autorità politica, che con suo cruccio dopo il 1965, quando Malesia e Singapore si separarono, non oltrepassò mai gli angusti confini della piccola città-Stato del Sud-Est asiatico. Lee esercitò la sua influenza più profonda nella Cina post-maoista, dove la fiorente iniziativa economica coesiste a fianco di un unico partito autoritario e leninista. Fu il pioniere del capitalismo dal pugno di ferro, e il suo Partito popolare d’azione ha governato di fatto come unico partito. Al pari di molti leader autoritari (come ad esempio Mussolini), Lee era stato socialista, ma il suo pensiero si ispirava tanto a ricordi nostalgici della disciplina imperiale britannica quanto a una interpretazione “interessata” del Confucianesimo, in cui l’obbedienza verso l’autorità veniva privilegiata a scapito del diritto al dissenso.
Non sorprende che Lee sia stato ammirato dagli autocrati di tutto il mondo che sognano di affiancare al proprio monopolio sul potere la creazione di ricchezza. La tranquilla efficienza, gli agi materiali e la fiorente economia di Singapore sembrano confermare l’opinione di chi ritiene che l’autoritarismo funzioni meglio della democrazia — per lo meno in alcune parti del mondo. Tuttavia, vi è qualcosa di straordinario nell’ammirazione di cui Lee fu oggetto. Il dittatore cileno Augusto Pinochet si guadagnò l’ammirazione di Margaret Thatcher ma oggi non è stimato quasi da nessuno. Perché Lee sì e Pinochet no? Per cominciare, Lee non salì al potere in seguito a un golpe militare, e i suoi oppositori non furono massacrati negli stadi da calcio. A Singapore i dissidenti venivano incarcerati e maltrattati, ma mai torturati a morte. Il governo di Lee preferiva mettere a tacere l’opposizione attraverso l’intimidazione e la rappresaglia economica: i coraggiosi che gli tenevano testa venivano ridotti in miseria tramite cause legali dai costi proibitivi.
La reputazione di Lee è anche legata alla cultura. L’ex primo ministro era bravissimo a indossare i panni del “saggio che viene dall’Oriente”, secondo un antico stereotipo occidentale. E pur avendo assorbito molto della civiltà occidentale, a cominciare dall’ammirazione per la gerarchia della Chiesa cattolica, “Harry” Lee (come veniva chiamato a Cambridge all’università) si sforzò di evidenziare l’origine asiatica delle sue idee politiche. Non dichiarò mai che la democrazia rappresentasse uno sbaglio per l’Occidente, ma si limitò a dire che non era adatta per gli “asiatici” — dal momento che questi, sosteneva, erano abituati a porre il bene comune al di sopra degli interessi individuali e a un’innata obbedienza all’autorità. Tratti radicati nella storia dell’Asia. Vi sono buoni motivi per dubitare di questa tesi. Innanzitutto, chi sono questi “asiatici”? Di certo gli indiani, per la maggior parte, non sarebbero d’accordo nel definirsi inadatti alla democrazia, e altrettanto potremmo dire di giapponesi, taiwanesi o sudcoreani. Parlare di valori asiatici a Singapore ha un senso perché giustificare la sottomissione delle minoranze malese e indiana invocando i valori cinesi equivarrebbe a una mancanza di rispetto.
Eppure anche molti cinesi, e non solo a Taiwan e Hong Kong, non sottoscriverebbero la difesa culturale dell’autoritarismo proposta da Lee. Persino gli abitanti di Singapore danno segni di irrequietezza. Si può almeno affermare che la democrazia avrebbe reso la società di Singapore meno efficiente, prospera e pacifica? Molti a Singapore potrebbero esserne convinti, ma non si tratta di una certezza in quanto impossibile da verificare. Negli anni Ottanta, dopo aver implementato una propria versione del capitalismo autoritario, anche la Corea del Sud e Taiwan hanno assistito a trasformazioni democratiche e oggi sono più fiorenti che mai. Né si può dire che la democrazia abbia danneggiato l’economia giapponese.
La premessa di Lee, dalla quale egli non si discostò mai, era che l’armonia sociale, soprattutto in una società multietnica come quella di Singapore, va imposta dall’alto, da un’élite meritocratica. In questo senso egli era decisamente cinese. Ridusse le opportunità di corruzione attraverso un generoso trattamento dell’élite. A lui va riconosciuto il merito di essere riuscito a far funzionare tale politica a Singapore. La città-Stato, che pure è efficiente e priva di corruzione, è anche un luogo sterile in cui i successi intellettuali ed artistici non trovano spazio.
Difficilmente ciò che funziona in una piccola città-Stato può essere preso a modello per società più complesse. Il tentativo della Cina di aprirsi al capitalismo con il pugno di ferro ha creato un sistema corrotto, che presenta enormi disparità di ricchezza, mentre Putin, per coprire le lacune sociali ed economiche del proprio governo, è costretto a ricorrere a un nazionalismo belligerante. Ammiriamo dunque senza riserve le superstrade levigate, gli svettanti uffici e gli immacolati centri commerciali di Singapore. Ma nel ricordare il retaggio di Lee Kuan Yew dovremmo anche prestare ascolto alle parole di un altro politico asiatico, che dopo aver pagato con il carcere e quasi con la morte la sua opposizione alla dittatura, nel 1998 fu democraticamente eletto presidente della Corea del Sud. In risposta a Lee Kuan Yew, Kim Dae-jung ha scritto che: «L’Asia dovrebbe affrettarsi a istituire solidamente la democrazia e a rafforzare i diritti umani. Il maggiore ostacolo non è rappresentato dal nostro retaggio culturale, bensì dalla resistenza che giunge dai governanti autoritari e dai loro apologeti». (Traduzione di Marzia Porta)
Ian Buruma, la Repubblica 18/4/2015