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 2015  aprile 19 Domenica calendario

NAZIONALE - 19

aprile 2015
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R2 Spettacoli
L’incontro. Pionieri
Regista, autore, attore, architetto di teatro. A cominciare da quando, bambino di un paese vicino a Cosenza,
“rubavo le lenzuola del letto dei miei e costruivo un palcoscenico con le cassette della frutta,
facendoci recitare i compagni di scuola”. Era già ricerca: “All’università a Firenze approfondendo studi radicali sui comportamenti, sulla land art, sulla beat generation, mettevo in correlazione i colori, la musica concreta, i luoghi e le persone e nel 1982 fondai la compagnia Krypton”. Così nasce Eneide , luci e rock dei Litfiba, ma anche Beckett in calabrese:
“Mi piace l’opulenza, voglio divorare tutti i linguaggi”
LA MIA PRIMA PASSIONE È LA GASTRONOMIA NELLE GEOMETRIE DELLO SPAZIO TROVO MOLTE SOMIGLIANZE CON GLI ORGANI, LE OSSA E I MUSCOLI DEL NOSTRO FISICO.
E IL MIO, A CAUSA DI UNA MALATTIA INFANTILE, È MOLTO PESANTE
TENDO A NOBILITARE LE ARTI MINORI, COME QUANDO PORTO I LASER DA DISCOTECA NEI TEATRI DI VELLUTO. LA LUCE PUÒ ESSERE UN NUTRIMENTO DELL’ATTORE, POTREMMO CITARE LE OMBRE DELLA CAVERNA DI PLATONE
MI PREOCCUPA LO STRARIPARE DELLE IMMAGINI IN MOVIMENTO IN SCENA, SIA VIDEO CHE DIGITALI. SPESSO SONO UTILIZZATE SOLO COME DECORO: È UN SISTEMA PASSIVO, PIGRO, ILLUSORIO
FOTO DI STEFANO RIDOLFI
Giancar lo
Cauteruccio
RODOLFO DI GIAMMARCO
«NASCO NEL 1956 AMARANOM ARCHESATO, un paesino a tredici chilometri da Cosenza, che oggi è periferia di Cosenza, e alle elementari ero il primo della classe, anche se irrequieto di carattere. Mia madre mi racconta che a tre anni le ho rovinato tutta una parete di casa, dove con una matita presa di nascosto a mio padre, avevo disegnato un cimitero in prospettiva. A forza di idee e sregolatezze avevo concepito pure una sorta di teatrino domestico: rubavo le lenzuola del letto dei miei e costruivo una scena basata su un palco di cassette di frutta, facendoci recitare i compagni di scuola». Ha origine da un’infanzia calabrese già affaccendata in avventurosi allestimenti domestici, il destino creativo di Giancarlo Cauteruccio, uno dei maggiori protagonisti della nuova spettacolarità della scena italiana. Un regista-attore-autore-architetto del teatro di ricerca che da più di trent’anni indaga la tecnologia, lo spazio e tutti i linguaggi artistici concorrenti a dar vita a poetiche inedite e a battezzare opere che assorbono e testano nuovi codici, nuove miscele di passato e presente, nuove energie di luce, nuove mappe anatomiche. Sì, perché la massa umana, anche nell’immaterialità ibrida di tutta una serie di lavori, è per Cauteruccio un metro di confronto insostituibile. Lo è per costituzione sua congenita, unica. «Sono arrivato a pesare centoquarantasei chili. A causa di un problema, diciamo così, chimico. Da piccolo sono stato curato con terapie sperimentali al cortisone, e il cortisone mi ha modificato il metabolismo. La fisionomia grassa mi ha creato un sacco di problemi nella prima giovinezza, con continue prese in giro di cui però per fortuna non ho mai sofferto, perché prevaleva una mia energia interna. A periodi alterni il peso è oscillato, poi una decina d’anni fa un amico endocrinologo ha trovato un rimedio, e ora m’aggiro sempre sui cento chili». Alla cosa più umanamente densa e portatrice concreta di segni, all’incidenza del corpo, Gianfranco Cauteruccio ha contrapposto, nel suo cammino teatrale, da una parte la virtualità del laser e del neon che sono entrati come schegge nelle sue strutture spettacolari dei primi tempi, e da un’altra parta la secchezza della scrittura di Samuel Beckett, da lui progressivamente frequentato, adottato. «A Cosenza, città priva di cultura teatrale stimolante mentre io crescevo — dove mio padre era funzionario del dazio e aveva come collega il padre (casertano) dell’altro futuro sperimentatore della scena Giancarlo Sepe — a sedici anni rimasi letteralmente folgorato da progetti di contaminazione urbana curati da Giorgio Manacorda, Simone Carella e dal critico Giuseppe Bartolucci, e fu lì che intravidi le connessioni tra città e teatro. Pronosticai, per forza di cose, un mio futuro da uomo del sud sradicato, migrante. Dopo aver abbandonato l’idea di fare l’università a Napoli, finii — grazie al libro L’anarchitetto di Gianni Pettena — alla facoltà di architettura di Firenze, dove approfondendo studi radicali sui comportamenti, sulla land art, sulla beat generation, mettevo in correlazione i colori, la musica concreta, i luoghi e le persone. Praticamente iniziai a dar forma a un teatro. E nel 1977 creai il gruppo Il Marchingegno per agire in gallerie, forti, castelli, rondò, superfici aperte. Finché nel 1982 fondai la compagnia Krypton (nome di un gas nobile, e parola arcaica), dove accostai la scienza alla mia passione per i miti». Un critico di tendenza lo definì “lacaniano”, riscontrando in lui opulenza e patologia. Uno spettacolo fondativo di allora, (era il 1983), Eneide, a base di luci e musica dei Litfiba, col corpo epico e nevralgico dello stesso Cauteruccio, ridiventa ora concerto/ teatro dal 21 al 23 aprile al teatro Argentina di Roma.
«L’opulenza... A parte la solidità cronica della mia stazza, io non ho mai nascosto una mia inclinazione per il cibo. Divoro tutti i linguaggi della scena, certo, e trovo nelle geometrie dello spazio molte somiglianze con gli organi, le arterie, i muscoli e le ossa del nostro fisico, ma in buona sostanza amo proprio il cibo, la cucina. Coltivo imperdibili simmetrie nella preparazione delle pietanze, nel numero speculare dei cubetti di verdure, nell’equilibrio dei sapori, delle zucchine, delle patate. La mia prima passione, lo devo ammettere, è la gastronomia. Poi viene l’arte, il teatro. Ne L’ultimo nastro di Krapp di Beckett preparavo in scena un primo, una pasta che alla fine condividevo col pubblico. Anche in privato, a casa mia, a Firenze, la sera ho bisogno di metter su una cena per almeno una dozzina di ospiti, altrimenti i dosaggi, gli ingredienti rischiano di perdere vitalità, virtù. Un mio piatto è stato premiato a un concorso ufficiale: si tratta delle polpette di melanzana che ho elaborato da una ricetta di mia nonna. Tendo a nobilitare le arti minori, come quando porto i laser da discoteca nei teatri di velluto ». Non è affatto arte minore, comunque, la parabola storico-creativa dei ventiquattro anni di direzione del Teatro Studio di Scandicci (ex palestra degli allora Magazzini Criminali, che sarebbero diventati la compagnia Lombardi-Tiezzi). Non è avanguardia per pochi l’instancabile officina di spettacoli che in Italia e all’estero, con progetti speciali o con messinscene di repertorio, hanno spaziato da Shakespeare a Mario Luzi a vari titoli di Beckett tra cui Finale di partita in lingua calabrese, da Corrado Alvaro a Bernard-Marie Koltès, da Harold Pinter a Dino Campana (del quale ha appena realizzato Canti Orfici/ visioni). Per non dire del suo lirismo scenico in dialetto che vanta un gioiello di compendio nell’edizione del suo personale, e teatrale, libro Panza Crianza Ricordanza.
«Quando sento parlare di interdisciplinarietà, lì respiro, lì metto la faccia. Perché trattare, progettare, plasmare la materia, magari in simbiosi con la ritualità, calando i corpi nelle drammaturgie, facendo sì che la luce diventi uno strumento per svelare ed esaltare la spiritualità di ognuno di noi, tutto questo sì che rispecchia un processo di simbiosi tra reale e apparente, da far risalire a Duchamp, a Schlemmer, a una danza delle parole che originano e ritornano nel corpo attraverso pittura e scultura. Insomma l’arte che detta le leggi allo spettacolo del mangiare, che è un’arte per me irrinunciabile, non è mai in conflitto con quello che faccio quando comunico agli altri per mezzo di una macchineria fatta di creature visibili e invisibili. L’ Atto senza parole di Beckett lo insegna».
Non è detto però che Giancarlo Cauteruccio pensi che il mondo contemporaneo sia il mondo migliore. «Sono preoccupato dallo straripare delle immagini in movimento nella scena, sia che si tratti di video che di digitale. Nel senso che spesso l’immagine non viene utilizzata come elemento strutturale e linguistico, ma come decoro, semplicemente sovrapponendo il cinema al teatro.
Questo è solo un sistema passivo, pigro, illusorio. Ben altrimenti le tecnologie possono apportare dinamica, fluidità: la luce può essere un nutrimento dell’attore, potremmo citare in modo fisiologico e logico le ombre della caverna di Platone. E invece qua e là si fa incetta semplicemente di effetti speciali. Il corpo è un’unità di misura dello spazio, e lo spazio si modifica col pensiero dell’uomo. Voglio dire: il portale di una cattedrale diventa enorme perché ci interessa il racconto dell’architettura, ma adesso dobbiamo fare piuttosto i conti con la cronaca della speculazione edilizia...». Sentendolo riflettere così, esce fuori l’autore recente del trittico troiano modulare Crash Troades ma anche il pioniere idealista delle anomalie che non vogliono mai essere rifinitura, trovata luminescente e basta. Giancarlo Cauteruccio è un poeta elettronico, provvisto d’un cuore sempre in metamorfosi, e d’un fisico da gigante che sa il fatto suo in materia di esuberante alimentazione. Uno con un solo odio e molti amori. «Odio il computer. Amo gli spaghetti al pomodoro, amo disegnare, amo i sentimenti, le donne, i maschi, affacciarmi a una finestra e osservare il mondo, sapere quanti gradini hanno i sagrati di certe chiese».
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