Sara Faillaci, VanityFair 15/4/2015, 15 aprile 2015
SOLA E FELICE
[Margherita Buy]
Un’anziana professoressa di latino si ammala e muore. I suoi due figli, tra loro diversissimi, reagiscono in modi opposti. Uno la accudisce senza mai perdere la sua calma naturale. L’altro, regista proverbialmente esigente, complicato anche nei rapporti interpersonali, padre separato, viene totalmente destabilizzato dal declino della madre, e fa la spola tra set e ospedale in uno stato di ansia crescente.
È la storia di Giovanni «Nanni» Moretti – regista difficile, separato con un figlio, a sua volta figlio di Agata, professoressa di latino e greco, morta a 88 anni nel 2010 – ed è la storia di Mia madre, il suo nuovo film dove, come quasi sempre, fa anche l’attore. Ma siccome Nanni Moretti è Nanni Moretti, un film autobiografico non può essere una semplice trasposizione della realtà. E così sceglie per sé la parte dell’altro fratello, quello non nevrotico. Di più: per il proprio personaggio sceglie un’interprete donna, Margherita Buy. Di più: l’interprete donna è notoriamente ansiosa, separata, con una figlia. Di più: in un ulteriore gioco di specchi, i due fratelli nella finzione si chiamano come gli attori che li impersonano. Giovanni e Margherita.
Non è il loro primo incontro. Moretti e Buy collaborarono già nel 1987 per Domani accadrà di Daniele Luchetti, lei giovane rivelazione, lui coproduttore. Nel 2006 Nanni l’ha voluta per Il caimano, nel 2011 in Habemus Papam. Ma questa – per il fattore autobiografico, per il tema della malattia e della morte – è la prova più difficile. Mi aspettavo una Margherita molto più nevrotica di quella che incontro a Roma. Struccata, in maglietta e sneakers.
Che effetto le ha fatto interpretare Moretti?
«Ero molto contenta, anche parecchio tesa: all’inizio temevo che non ce l’avrei mai fatta. Mi ha aiutato lui».
Com’è il vostro rapporto nella vita?
«Non si può dire che siamo grandi amici – per carattere siamo entrambi molto discreti – ma c’è un affetto, dovuto al fatto che il rapporto si è costruito nel tempo. Ci divertiamo, con un certo distacco. Ci guardiamo dalle nostre distanze, perché siamo tutti e due particolari. Ci diciamo anche cose buffe, perché Nanni è una persona molto divertente – intelligenza superiore, quindi ironia – però ha anche un’incredibile capacità di farti arrabbiare. In compenso, sa anche chiederti scusa quando si accorge di essere stato particolarmente burbero, e questo lo apprezzo tantissimo perché c’è gente che neanche se ne accorge quando ferisce gli altri. Lui invece è molto attento».
Vi frequentate anche fuori dal set?
«Molto poco. Io magari cercavo di avvicinarlo per essere sicura di aver capito la parte. E lui: “Tranquilla, hai capito tutto”». Eppure, su questo set sarà stato più esigente del solito.
«Lui è sempre esigente. Vuole girare le scene più volte perché ricerca la verità, prendersi tutto il tempo proprio perché lascia molto spazio all’improvvisazione».
Non la spaventava un po’ l’idea di un film sulla morte?
«Io alla morte penso sempre. Questo per Nanni è un film autobiografico, il racconto di come ha perso la madre, un pezzo importante della sua vita. La mia, di madre, per fortuna sta ancora bene, ma mi sono sentita ugualmente molto coinvolta, perché alla mia età ci pensi ai genitori, alla fine che faranno. Li vedi invecchiare, non riuscire più a fare cose che magari fino a due anni fa erano semplici per loro. In questo senso, in certe scene non soffrire era impossibile. I pensieri già li avevo, questo film li ha fatti sgorgare tutti insieme».
Rispetto alla Stanza del figlio, dove Moretti raccontava la morte appunto di un figlio, questa è una narrazione più distaccata, a volte persino fredda.
«È stata una sua precisa scelta. Noi vediamo i fatti: una figlia che si porta addosso, ogni giorno, un dolore che cresce. Quel dolore viene raccontato senza scene strappalacrime, ma c’è, ed è fortissimo. Come credo sia stato per lui. Nanni non parla spesso di sé, e dice solo quello che vuole, ma quanto fosse importante il rapporto con la madre lo si capisce dalla cura con cui ha ricostruito, nel film, la sua casa. Aveva persino pensato di girare nella casa vera, poi si è deciso di ricrearla. Ma i libri negli scaffali, per dire, erano quelli veri dei suoi genitori».
È una morte laica, senza spiragli.
«Con la persona, muore un mondo: tutte le cose che sono state la sua vita, i suoi libri, i suoi rapporti con gli altri, il suo ruolo di madre, di professoressa. Tutta la vita ci danniamo per qualcosa che poi scompare».
C’è però, raccontato al femminile, un passaggio di consegne, di eredità, tra una generazione e l’altra: madre, figlia, nipote.
«Per me è stato folgorante l’incontro con un’attrice straordinaria come Giulia Lazzarini (che nel film è la madre, ndr). Trovo in generale che con le donne sia più facile recitare: si raggiunge più velocemente la temperatura giusta della scena. Gli uomini sono più rigidi, faticano a lasciarsi andare. Per i ruoli che di solito hanno – padre, marito, amante – vogliono essere conquistatori, prevaricare, sentirsi importanti».
Qui invece le figure maschili sono quasi un contorno.
«Quello di Nanni poi è un personaggio quasi femminile, più femminile rispetto alla sorella: cucina, accudisce, veste. In questo il suo è un film molto moderno, autoironico, a tratti divertente. È la donna a fare la vita da uomo, anche nei rapporti sentimentali».
Diceva prima che pensa sempre alla morte. Ma quella di un genitore anziano, in quanto evoluzione naturale, non dovrebbe essere più facile da accettare?
«Dovrebbe. Ma l’anziano fa tantissima tenerezza perché in lui non c’è mai tutta questa voglia di andarsene, anzi spesso c’è la rabbia di chi ha ancora una testa che il corpo non segue più. Poi avrebbe ancora tante cose da dire, da insegnare. Non posso nemmeno pensare alla morte di una madre. Non so come starò quando succederà. Magari muoio prima io».
In passato, ricordando la sua infanzia, ha descritto un padre severo, poco propenso a gratificare lei e le sue due sorelle. Con sua madre, invece, il rapporto com’è?
«Le sono molto affezionata e la sento regolarmente, anche se rispetto al passato è meno attenta ai nostri problemi: quando uno è anziano c’è un lento distacco dalla realtà».
Sua figlia Caterina ha 14 anni, più o meno la stessa età della ragazzina che, nel film, studia latino con la nonna. Anche sua figlia e sua madre sono così legate?
«Abbastanza: Caterina è l’unica nipote (le sorelle di Margherita non sono sposate e non hanno figli, ndr). Ma i miei, soprattutto mio padre, non entrano molto nella vita nostra, nel bene e nel male. Sono abbastanza coppia loro, nelle dinamiche, nei litigi».
A un certo punto sua madre ha lasciato suo padre, e lei l’ha convinta a tornare a casa.
«Con le mie sorelle: siamo forse più attente noi a loro che loro a noi. La vita è lunga, i momenti di stanchezza ci stanno, ma ci sembrava un gesto un po’ folle, e allora l’abbiamo fatta ragionare. Se avesse voluto davvero separarsi, penso che l’avrebbe fatto».
Lei invece che madre è?
«Molto diversa da quella del film, che neanche si accorge delle pene d’amore della figlia. Ho sempre voluto essere molto presente e, se ho fatto rinunce professionali per stare di più con lei, non le ho vissute come tali».
Squilla il telefono. Nemmeno a farlo apposta: «Devo assolutamente rispondere, è mia figlia». Parlano, il dialogo è frammentato, leggermente ansioso. Poi mette giù: «Ho lavorato tutto il giorno con i traslocatori, sono andata a prenderla all’Olgiata, l’ho portata ad atletica, e mi strilla pure».
Allora è una madre normale.
«Ho provato a dare le regole, ma poi non riesco tanto a tenere il punto, sono troppo buona».
Cambia casa?
«Sì: finalmente ne ho comprata una, piccola ma carina. Cinquantatré anni, trenta che lavoro, e ho dovuto chiedere a mio padre di aiutarmi economicamente: piuttosto scocciante».
Eppure lei è una delle attrici che lavora di più al cinema.
«Al cinema, appunto».
Si preoccupa per il futuro di sua figlia?
«Molto, anche troppo. Bisognerebbe lasciarli scegliere da soli, invece parlo e sbaglio. Volevo avesse l’autostima che a me è mancata, e l’ho mandata alla scuola inglese: lì ti gratificano se fai bene, valorizzano i tuoi punti di forza, mentre trovo che la scuola italiana sia punitiva, tenda a sottovalutarti».
Parla per esperienza personale?
«Io l’ho subita moltissimo questa cosa. Purtroppo i miei genitori mi mandarono in una scuola molto severa. C’era un accanimento nei confronti di chi era più debole o di chi, come me, mostrava una timidezza quasi patologica. Ci facevano sentire delle nullità, quando invece avrebbero dovuto sostenerci».
E come è finita a fare l’attrice?
«Proprio perché non volevo continuare a farmi mortificare. Una zia, che aveva una piccola compagnia teatrale, mi consigliò di provare a entrare all’Accademia Silvio D’Amico. La prima volta non passai l’esame, ma l’anno dopo ci riprovai. Quando ripenso a quel momento della mia vita, al fatto che abbia insistito, mi accorgo che in questo mio essere così nebulosa e dubbiosa ci dev’essere, invece, qualcosa di solido, perché quando ho dovuto fare delle scelte le ho sapute fare. Ho avuto un’intuizione perché andare all’Accademia, che per me rappresentava un salto nel buio, senza dubbio mi ha salvato la vita. Sa come succede in amore: quando si cambia un uomo, spesso se ne sceglie uno opposto al precedente. L’ambiente dell’Accademia era l’opposto di quello che avevo vissuto a scuola. Da subito mi sono sentita libera».
A proposito: con gli uomini invece come è andata?
«Male. Ma lì il problema sono io: non ho un carattere facile».
Il suo primo marito è stato Sergio Rubini, attore e regista. «Abbiamo continuato a lavorare insieme».
Poi c’è stato Renato De Angelis, pneumologo, padre di sua figlia. «E con cui sono in rapporti eccellenti».
Non è scontato lasciarsi bene con gli ex.
«Morirei piuttosto che fare una guerra, soprattutto se ci sono dei figli di mezzo. Quando ho deciso di separarmi, ovviamente ero dispiaciuta per Caterina che era piccola, ma ho pensato che saremmo stati tutti meglio. Infatti è andata così».
Forse anche perché non si è tuffata in un altro rapporto. «Assolutamente. E non succederà, non mi interessa». Addirittura?
«Come tutti ho bisogno degli altri, di sapere che qualcuno mi vuole bene. Ma il rapporto di coppia non fa per me. Ci ho provato in passato, mi ci sono anche molto dedicata: non ha funzionato. Mia figlia, che mi conosce, me lo dice sempre: “Mamma, tu starai sola per tutta la vita”».
Mi sta dicendo che fa a meno degli uomini? Del tutto?
«Sì, del tutto. E mi va bene così».