Dea Verna, Oggi 15/4/2015, 15 aprile 2015
HO VISTO LA MORTE IN FACCIA
Milano, aprile
Bastano tre centimetri a fare la differenza tra la vita e la morte. «Sono vivo per miracolo», dice Stefano Verna, seduto sul divano di casa con il tutore, le stampelle poggiate a terra, mentre ripensa a quella mattina di follia al Tribunale di Milano.
Una mattina che doveva essere come le altre, non fosse altro per quella strana convocazione in aula per un processo per bancarotta fraudolenta. Era stato chiamato a testimoniare a favore di un ex cliente che lui, commercialista, 50 anni, sposato con due figlie, non vedeva da nove anni. L’ex cliente è Claudio Giardiello, l’autore della strage nel Tribunale di Milano, l’uomo che ha ucciso il giudice Fernando Ciampi, il suo ex avvocato Lorenzo Claris Appiani, l’ex socio Giorgio Erba, e ferito gravemente il nipote Davide Limongelli. Mentre Verna è stato colpito da due proiettili: uno ha preso la coscia a tre cenlimetri dall’arteria femorale, l’altro gli ha trafitto un piede frantumandogli le ossa. Stefano è cugino di chi scrive, quindi per una volta è più difficile mantenere la giusta distanza. Ci proviamo. E torniamo indietro con la memoria.
«Ho conosciuto Giardiello una quindicina danni fa, in palestra, al club Conti di Corso Como», racconta. «Poi, nell’ottobre del 2005, mi ha contattato: aveva bisogno di assistenza perché stava litigando con i suoi soci delle società immobiliari Miani, Washington e Magenta. A suo dire, i soci intascavano i proventi degli affitti e delle vendite delle case in nero, senza dargli la sua parte. Voleva uscire da queste società, ed eravamo riusciti a raggiungere un accordo che prevedeva una liquidazione di un milione di euro. Ma lui niente, voleva sempre di più».
Che fosse un tipo da prendere con le pinze era chiaro già ai tempi. «Era una persona aggressiva, poco trasparente, ingestibile. Perdeva spesso le staffe, urlava durante le riunioni. Così, a fine giugno del 2006, rinunciammo all’incarico. Lui non la prese bene. “Mi avete abbandonato”, disse. Solo dopo ho scoperto che giocava d’azzardo e che alcune operazioni delle società servivano a coprire le sue spese».
Passano nove anni, e arriviamo allo scorso 19 marzo. Stefano riceve una convocazione per testimoniare a favore di Giardiello da parte del suo legale. Michele Rocchetti. «Non avevo idea del motivo di questa chiamata», spiega. «Ma non ho neppure chiamato il suo avvocato. Giovedì 9 aprile mi sono presentato in Tribunale, alle 9,30».
E qui inizia il racconto della mattinata di terrore. «Fuori dall’aula ho incontrato Giardiello e gli ho stretto la mano. C’erano altri tre testimoni, tutti molto tranquilli, che sono entrati in aula per primi e usciti senza problemi. Gli unici a essere visibilmente tesi erano l’avvocato Claris Appiani, che io non conoscevo, e Limongelli. C’era anche Erba, ma non l’ho notato. Mi sono messo a sedere sulla panca, in attesa, finché ho sentito tre-quattro spari (ma in un primo momento pensavo fossero botti). Poi altri due spari. Intorno a me tutti sono scappati. Io mi sono fermato un secondo in più per rimettere il computer nella borsa. Giardiello è uscito dall’aula, stravolto, e mi ha visto. Eravamo a un paio di metri di distanza, ha sparato. Ho sentito una fitta alla coscia (mentre del proiettile al piede me ne sono reso conto dopo). A quel punto non ho pensato più a niente: sono scappato, precipitandomi giù dalle scale. Ero ferito e tenevo la mano sulla coscia che sanguinava, ma in quel momento sarei riuscito anche a volare». Giardiello non lo ha inseguito. «Io sono sceso dalla scala destra, lui da quella sinistra, per raggiungere l’ufficio del giudice Ciampi (che è stato poi freddato con due colpi di pistola, ndr)». Una volta uscito dal Tribunale, Stefano si è accasciato a terra. «Intorno a me c’era il caos, tutti correvano come impazziti. Mi ha assistito un medico, una dottoressa che passava di lì. Mi diceva di non chiudere gli occhi, di pensare a mia moglie, alle mie figlie. L’ambulanza è arrivata dopo mezz’ora, ho avuto paura». Per fortuna la pallottola alla coscia non ha toccato né l’arteria, né i nervi. Mentre per il piede forse sarà necessario un intervento correttivo, si vedrà.
«VOGLIO TORNARE AL PIÙ PRESTO AL LAVORO»
«Il mio pensiero va alle tre persone che non sono state fortunate come me e sono morte», dice Stefano. «Io per ora sto bene, voglio tornare al più presto alla vita normale, al mio lavoro, solo così potrò superare quello che è successo».
La strage di Milano ha sollevato tante polemiche. Sembra assurdo che un uomo sia potuto entrare indisturbato in Tribunale con una pistola, passando dall’ingresso riservato agli avvocati (sprovvisto di metal detector), mostrando quello che sembrava un tesserino da avvocato, ma non lo era. «Non so se sia giusto che gli avvocati abbiano una corsia preferenziale o se ci debba essere un metal detector anche lì, sono questioni complesse», commenta Verna. «Di sicuro va controllata l’identità di chi entra e l’autenticità del tesserino, mi sembra il minimo». Per non parlare del caos dopo gli spari. «Non è scattato nessun piano d’emergenza, o almeno così mi è sembrato. Tutti correvano come formiche impazzite, ognuno in una direzione diversa».
Il pensiero torna a Giardiello. «Non so se voleva davvero uccidermi, di sicuro mi ha visto e ha preso la mira». E se fosse scappato subito come gli altri, senza esitare? «Magari mi avrebbe preso alla schiena, o forse mi avrebbe mancato, chissà. Si vede che doveva andare così».
Dea Verna