Stefano Vastano, L’Espresso 17/4/2015, 17 aprile 2015
MIO SUOCERO GÜNTER GRASS
Aveva delle bellissime mani Günter Grass. E una creatività indomabile, anomala in un intellettuale tedesco. Per lui, ad esempio, non c’era molta differenza tra la stesura di un romanzo e le sculture o i disegni con cui illustrava le copertine di tutti i suoi libri. Più che come uno scrittore, nel mio ricordo di “quasi genero” il premioNobel morto il 13 aprile è un artigiano ipercreativo: con il camice imbrattato di inchiostri, i pantaloni di velluto a coste larghe, nell’atelier, a Berlino o a Lubecca, intento a lavorare l’argilla con le sue dita affusolate, o a buttare giù di getto acquarelli per le pagine de “Il mio secolo”.
La prima cosa che volle mostrarmi al nostro primo incontro - era il 1991, nella Nied Strasse, nella sua casa a due piani a Berlino - erano le incisioni che lui e Fritz Magull, il suo fedele grafico, stavano preparando per “Il richiamo dell’ululone”. Già in quel racconto Grass si scagliò con la foga che lo contraddistingueva contro l’unità nazionale, o meglio, «contro l’annessione dell’ex-Rdt», come la chiamava lui. Il testardo rifiuto con cui questo socialdemocratico di ferro si oppose al modo in cui Helmut Kohl gestì l’unità delle due Germanie è cosa nota. Ma in quel primo incontro lui ci tenne a spiegarmi dove e come era nato il suo rapporto così viscerale con la Spd. «Sono diventato socialdemocratico», mi disse alternando tra i baffoni pipa e sigari, «lavorando in miniera nel primo dopoguerra». Non appena scampato cioè alla catastrofe della guerra, e all’uniforme delle Waffen-Ss: ma questo, d’essersi arruolato, e volontario, nel corpo nazista lo rivelerà solo nel 2006, scatenando un putiferio. Anche perché, dopo il successo davvero mondiale della “Trilogia di Danzica”, Grass si era trasformato nella “coscienza morale” dei tedeschi, con quel suo indice sempre alzato e puntato sul passato nazista che non passa mai.
Visto da vicino però Günter Grass non è mai stato un uomo pedante né arrogante; e neanche il classico letterato, ma prima di tutto un vero, coriaceo artista. Un uomo generoso: per un compleanno mi regalò l’opera completa di Alfred Döblin, «il mio maestro spirituale», disse. D’altronde la letteratura lui l’ha sempre suonata come un “Tamburo”, un tamtam multimediale in cui si parte da immagini, disegni o sculture, e dai romanzi può rimbalzare, come nei film del suo amico e regista Schlöndorff, al cinema. Famose le foto che lo ritraggono a scrivere nell’atelier sotto una ragnatela di fili e mollette a cui appendeva gli schizzi con le scene dei romanzi. Come fossero storyboard di un film. Nella sua sofferta autobiografia - “Sbucciando la cipolla” - lui stesso ricordava come, da ragazzino, il primo approccio alla “cultura” fosse stata una collezione di figurine con le opere dei grandi artisti. Per il figlio di commercianti, cresciuto in un negozietto di alimentari a Danzica (è l’ambiente del suo capolavoro, “Il Tamburo di latta”), circondato da parenti che parlavano un dialetto strano, l’arte e la letteratura saranno una faticosa, durissima conquista. Per questo ci teneva molto al rapporto con i giovani: la sua casa a Wewelsfleth, lì dove aveva scritto “Il Rombo”, da anni l’aveva trasformata nella “Fondazione Grass”, un laboratorio per giovani talenti.
A contatto con fornelli e pentole, il famoso scrittore mutava in un portentoso cuoco che poteva parlare per ore di quei pesanti piatti di carne e pesce (strutti di maiale o zuppe d’anguille) con cui spesso turbava ospiti e amici. Una passione, questa per la cucina, figlia della fame più nera patita in guerra. Una sera, dopo qualche bicchiere di acquavite in più (ma Günter era in grado di reggerne quantità indescrivibili), mi raccontò orgoglioso della sua prima installazione artistica: «In un cimitero dove con queste mani qui», raccontava sornione mostrandomele, «con uno scalpellino scolpivo le lapidi mortuarie». Quel gusto per il racconto caustico, se non macabro, era il marchio del suo nuovo-antico stile letterario: «Il romanzo nasce picaresco», ricordava, «e ne avremo sempre bisogno». Speriamo che con questa profezia abbia più ragione che con certe recenti, astruse invettive (contro Israele).
Aveva un forte senso della famiglia e i suoi compleanni, il 16 ottobre, somigliavano a una festa popolare: oltre ai sei figli e a torme di nipotini (che, dal “Diario di una lumaca” a “Camera oscura”, sono sempre presenti nelle sue opere) il Maister era contorniato dai tipografi, grafici, incisori e fotografi della sua premiata officina. Sin da ragazzo però erano la musica e il ballo la sua vera passione. Ricordo un viaggio insieme a Bautzen, amena cittadina presso Dresda. Günter, di giorno, era in giro con album e carboncini a disegnare boschi e paesaggi. Ma la sera volle tenere nel teatro locale un concerto con il suo amico percussionista Günter Baby Sommer che lo accompagnava mentre recitava le ballate dal “Rombo”. Incredibile il ritmo con cui declamava i versi: mai sentito un altro autore tedesco leggere con un timbro più fresco, vivo. Così come a Stoccolma non hanno mai visto uno scrittore ritirare il Nobel e mettersi lì - a 72 anni - a volteggiare nel valzer come ha fatto il ballerino Günter Grass, prima con la moglie e poi con la figlia Helene.