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 2015  aprile 17 Venerdì calendario

HO MESSO L’ITALIA IN VETTA ALL’EXPO (NONOSTANTE I RUBAGALLINE)


MILANO. «Mi chiamo Marco Balich. Sono nato a Venezia. Sono un produttore di sogni. Di emozioni. Di passioni». Crea grandi eventi.
Quelli che ti lasciano a bocca aperta. Come le cerimonie olimpiche. Dove dello spettacolo il fin è la meraviglia, per parafrasare Giambattista Marino. È direttore artistico del Padiglione Italia, cuore e anima dell’Expo 2015.
Mica male, come bigliettino da visita: soprattutto quando l’Expo che sta per aprire i battenti è stata dilaniata dalla triste realtà della corruzione. Delle infiltrazioni mafiose. Degli appalti all’ultimo respiro. Dei lavori non terminati in tempo.
«Per colpa di quattro rubagalline tutto è stato infettato miseramente».
Eppure lei ci crede in questa Expo...
«Vado un po’ più in là: questi rubagalline non amano l’Italia, non vogliono bene alle loro radici, e questo è il mio più grande dolore. La cultura del sospetto è legittimata da questa gentaglia: si è montata una melassa che questo Paese non merita. Ben venga un supercontrollore come Raffaele Cantone. Ho messo, al centro della mostra che il Padiglione Italia ospita, un discorso sull’identità italiana, sulla fortuna d’essere nati in questa nazione». Ottimista.
«Partendo dal ricambio generazionale, si può combattere la mafia e la corruzione. Veniamo da anni complicati...».
Come raccontarli? O meglio, come raccontare gli italiani, come sollecitare e ispirare i giovani ad essere orgogliosi della loro terra? Motivandoli. Con la possente forza dell’immaginazione, con le suggestioni della metafora. Per questo il Produttore di Sogni non si è limitato a gestire la creatività del Padiglione Italia. Davanti al mirabolante Padiglione Italia (sperando che sia pronto per il Primo maggio, «l’Italia non può permettersi di fallire col suo padiglione», ha ammonito Vicente Loscertales, il segretario del Bureau International des Expositions), ha realizzato un’ardita struttura, chiamata enfaticamente Albero della Vita. Predestinata a essere l’icona dell’Esposizione Universale milanese: trentasette metri d’altezza, forme stilizzate, tanto semplici e apparentemente elementari quanto ad altissimo contenuto tecnologico. Frutto di un’efficace cogestione: l’Albero della Vita è stato prodotto dal consorzio Orgoglio Brescia che raggruppa diciannove aziende e che assieme a Pirelli e Coldiretti hanno finanziato i costi. Esprime nella forma la tradizione e nel suo utilizzo la modernità.
«Volevo un oggetto imponente, che obbligasse a guardare in alto. Che suscitasse lo stupore vero, quello dei bambini. E che conservasse l’effetto sorpresa».
All’inizio c’è stato l’effetto polemiche.
«Qualcuno ha voluto montare un caso, dicendo che il mio Albero della Vita era un’idea di due architetti inglesi. Li ho sentiti e loro mi hanno detto che erano stati fraintesi. Erano costernati. Mi hanno proposto di lavorare insieme».
Perché ha scelto l’Albero della Vita?
«Mi trovavo in Puglia. Era da qualche tempo che mi sforzavo d’immaginare un simbolo per l’esposizione. Un giorno, ho visto che nel pavimento della cattedrale di Otranto si distingueva un albero della vita. Che è un elemento universale, presente in tutte le culture e le religioni: da quella indiana a quella buddista, a quella islamica; la trovi nella kabbalah e nelle antiche religioni messicane».
Il senso dell’Albero della Vita, secondo il Produttore di Sogni, è raccontare il nostro passato, per rivisitarlo e rinnovarlo.
«Di giorno sboccia: ogni ora, per quindici minuti, mentre alcune canzoni italiane accompagnano lo sviluppo dei suoi rami».
Nino Rota e la sua colonna sonora di Otto e mezzo. Mambo italiano, interpretata da Sofia Loren. L’ombelico del mondo di Jovanotti. Caruso, col duetto Dalla-Pavarotti.
«È prevista una quinta canzone, ci stiamo ancora pensando».
Dietro l’Albero della Vita c’è uno schermo d’acqua. Di sera, 150 corpi illuminanti e 7 chilometri di strisce led trasformeranno l’Albero in qualcosa «che si nutre del passato ma pensa al futuro». Spettacolo. Attrazione. Son et lumière, ha criticato qualcuno.
Marco Balich non se ne cura. Procede lungo la sua strada. Compie 53 anni il 23 aprile, la Rizzoli ha preparato per l’occasione un grosso volume iconografico: corredato da foto meravigliose, che documentano le tappe della sua carriera di Produttore dei Sogni. E di fantasmagoriche illusioni.
È alto, slanciato, ha una barba brizzolata che gli smussa il volto, la fronte larga, lo sguardo sicuro, volitivo: ispira fiducia e simpatia. È paziente. Sa ascoltare. I clienti. I collaboratori. Bravi come lui ce ne sono pochi, pochissimi al mondo: diciamo quattro, non di più. Si è inventato un mestiere bellissimo, che sa di fantascienza ma è antico come il Pianeta: sbalordire gli spettatori (quelli «dal vivo» e i miliardi in diretta tv). Si è fatto conoscere alla chiusura dei Giochi Invernali del 2002, con il passaggio simbolico e struggente della bandiera da Salt Lake City a Torino 2006. Ai Giochi torinesi le sue cerimonie sono state sorprendenti e mirabolanti. Poiché c’ero, ricordo la scenografia delle «scintille di passione», i pattinatori che sprigionavano scie di fuoco, espressione cioè di energia, stile, tecnologia, ma anche di sapienza e qualità sportive. I guizzi di luce suscitavano gioia, allegria, in una magica armonia di colori. E, ancora, la colomba della pace, formata dai corpi degli allievi delle scuole del circo, «la madre della coreografia», commenta Balich, «fu la nostra consacrazione. Il mondo si accorse che c’erano degli italiani capaci di realizzare spettacoli colossali in modo appassionato, ed emotivo». Il dream made in Italy.
Da quella volta, l’hanno voluto tutti. L’anno prossimo, gli tocca migliorarsi alle Olimpiadi di Rio de Janeiro: «Una sfida nella sfida. Il metodo di lavoro è sempre lo stesso: integrarci con la cultura locale; passione, entusiasmo, linguaggio contemporaneo. Lavoro, lavoro, lavoro. A Torino fu tanto teatro, ritmo, Roberto Bolle che danza dal futurismo al futuro. Insomma, non è un problema, la creatività non ci manca». Nemmeno l’intraprendenza. Come quando convinse Luciano Pavarotti a cantare per Torino 2006: «All’inizio, non voleva. Stava già male. Però non mi arresi. Gli dissi: maestro, non può privare il mondo della sua voce».
E che dire degli strani incroci del destino? Il veneziano Marco Balich ha stabilito la sua bottega delle meraviglie nella milanese via San Marco. Grandi spazi aperti, uffici molto newcompany, la Balich Worldwide Shows srl ha per logo una mano che stringe una saetta. Pensi a Giove Pluvio, e ai poderosi fulmini che scagliava, furioso, dall’Olimpo sulla Terra: «Ormai è un’azienda che coinvolge novecento persone, qui non si tuona, si lavora in amicizia».
Lida Castelli è la direttrice artistica che affianca Balich nel lavoro del Padiglione Italia e nel tema del Vivaio, altro concetto guida, «quello cioè di un padiglione che immagino come una serra trasparente». Al piano terra, c’è la piazza. Ossia il mercato italiano, la filiera corta, i prodotti stagionali, le biodiversità: «Ho pensato a tre diversi mercati, uno di Palermo, quello di Rialto, il terzo di Campo dei Fiori, a Roma». I tre piani, ognuno dedicato alla potenza che rappresenta l’identità italiana: del saper fare; della bellezza (e dei limiti: si può crescere senza regole?); del futuro.
Un po’ come nella bottega-factory di via san Marco 46, a due passi dal Corriere della Sera, da Brera e dall’ex Smeraldo diventato Eataly. Un tempo, davanti alla palazzina liberty palazzo che ospita la BWS, scorreva il Naviglio. Era un punto suggestivo, col ponticello di pietre che sormontava la Conca delle Gabelle e le murate di una chiusa. L’acqua è sparita. Dalla parte di Porta Nuova ora svettano le sagome metallizzate dei grattacieli, di una Milano proiettata nel domani in cui crede molto il Produttore di Sogni, che prima di diventare l’enfant prodige dei Grandi Eventi è stato un videoclippatore accanito e tosto, «tanti clip, al trecentesimo lavoro giovanile ho detto basta e sono passato alla tv, ma i miei programmi, pur interessanti – ricordo Con Tadini, che era semplicemente una trasmissione con Emilio Tadini, grande artista – si distinguevano per l’insuccesso costante».
In verità, utile gavetta. Perché pensare in piccolo, quando ci si poteva sbizzarrire in grande? Si fa le ossa con gli allestimenti dei concerti rock; l’Heineken Jammin Festival; il Carnevale e la Festa del Redentore di Venezia; non disdegna, se ben pagato, di occuparsi del matrimonio di un miliardario indiano in Puglia, com’è successo di recente.
Sono però le Olimpiadi e le Paraolimpiadi a mettergli addosso gli occhi del mondo: Torino, Pechino, Soci, la collaborazione con Londra. E Milano. In fondo, anche se i mezzi a disposizione sono assai minori – «la creatività non può essere a minor prezzo», si lamenta Giove Balich – che cos’è l’Expo se non l’Olimpiade del cibo e del gusto, dell’alimentazione e dello sviluppo sostenibile?
Leonardo Coen