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 2015  aprile 17 Venerdì calendario

OPERAI E IMPRENDITORI, SUORE ED EBREI UNITI PER RISCATTARE L’ONORE DELL’ITALIA. COSÌ LA RESISTENZA È DIVENTATA “DI TUTTI”

«Che bello sarebbe», cari genitori, se vi capitasse di «trovare una stoffa pesante» per confezionare una «tenda rossa» da mettere alla «porta della cameretta» e un «copri divano» in tinta: l’operaio Quinto Bevilacqua in un biglietto chiede al padre e alla madre di assistere la moglie nell’arredamento della sua «casetta». Richiesta non facile da esaudire nella primavera del 1944: in tempo di guerra trovare un buon taglio di tessuto è un terno al lotto. Una domanda inoltre singolare dal momento che Bevilacqua, condannato alla pena capitale, di lì a poche ore sarà messo al muro. È accusato dai fascisti di essere un «terrorista e un sabotatore». Il partigiano si preoccupa di lasciare un buon ricordo all’amata consorte ma soprattutto di spiegare ai parenti il motivo per cui s’immola: lo fa per il riscatto comune. Già, proprio così: il cospiratore antifascista parla in nome della riscossa di tutti i connazionali. Nello stesso momento in cui Bevilacqua piega le ginocchia sotto i colpi di fucile al poligono di tiro di Torino, una sorte analoga tocca al capitano d’artiglieria Franco Balbis. Il militare, rimasto fedele al re dopo l’8 settembre, è finito in manette il 31 marzo 1944. Nell’ultima lettera esprime la volontà che il suo paese torni «a essere onorato e stimato nel mondo intero». E auspica: «Possa il mio sangue servire». Proprio questa frase di Balbis è diventata il titolo dell’ultimo, bellissimo libro di Aldo Cazzullo, il cui sottotitolo recita: Uomini e donne della Resistenza. Il saggio dello scrittore e giornalista ripercorre le terribili esperienze di uomini e donne che hanno imbracciato le armi contro Hitler e Mussolini, e in molti casi hanno perso la vita, ed esce a ridosso delle celebrazioni dei settant’anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Non è una coincidenza: «La Resistenza a lungo è stata considerata, con qualche eccezione, come una “cosa di sinistra”, una “roba da comunisti”», spiega il saggista. «Al contrario, negli ultimi dieci anni i partigiani sono stati presentati come carnefici sanguinari che si accanirono su vittime innocenti, i “ragazzi di Salò”. Ma entrambe queste versioni sono parziali e false. La Resistenza non è patrimonio di una fazione, bensì della nazione». Cazzullo vuole dunque raccontare un’inedita resistenza di “tutti”, come diceva il martire Bevilacqua, un fenomeno capillare e corale ancora vivo: l’opposizione contro i nazifascisti quindi non coincide solo con la guerra partigiana «ma è qualcosa di molto più vasto che include religiosi, civili, donne, militari, internati in Germania, ebrei, operai in sciopero, imprenditori». Una lotta che, per lo scrittore, non è solo espressione di animose avanguardie ma coinvolge infinite categorie di protagonisti, spesso dimenticati. Ecco dunque salire sul podio dei pugnaci e ostili oppositori del regime gli esponenti della Benemerita, i carabinieri contro cui i nazifascisti si accanirono ferocemente. La loro deportazione in massa avviene il 7 ottobre del 1943, racconta Cazzullo. In seimila entrano in clandestinità per dar vita al Fronte di Resistenza. Quando si presenta la Gestapo per arrestarlo, il tenente Genserico Fontana, per esempio, è uno dei tanti che sfugge alla cattura saltando dalla finestra della sua caserma. Chi si occupa di lui? La 23enne consorte Rina Innocenti che fa la staffetta tra il marito e gli uomini dell’arma che hanno scelto di entrare nell’organizzazione segreta. Non è l’unica moglie che affronta miserie, violenze e umiliazioni. Al fianco dei militari del regio esercito allo sbando vi sono molte altre presenze femminili: alla caserma Valdocco di Torino, al campo di Vipiteno, all’accademia di Modena, le donne aiutano i soldati a scappare, si offrono di scortarli nelle fognature, fanno sparire le divise, procurano abiti civili. Non tutti se la scampano. Sono circa 810 mila i soldati italiani catturati all’indomani dell’8 settembre. La grande maggioranza, oltre 600 mila sceglie di patire le sofferenze della prigionia piuttosto che schierarsi a fianco dei nazisti. Quelli che rimangono in città, come il brigadiere Angelo Joppi, compiono gesti esemplari. Dopo aver gettato bombe a mano nel comando della polizia tedesca a Roma a via Tasso, viene preso e ferocemente torturato («Due agenti mi reggevano la testa tirandomi per i capelli, due mi stendevano le gambe; un altro mi dava col martello sui ginocchi… e poi con il nerbo e lo scudiscio sotto la pianta dei piedi»). Tra le pieghe di questa Resistenza silenziosa e spesso trascurata, vi è ancora il lavoro delle infermiere del Policlinico di Milano che ricoverano di nascosto i militi; vi sono le suorine pronte a rischiar la pelle, come Enrichetta Alfieri che aiuta i reclusi, dalla futura icona della tivù Mike Bongiorno a Indro Montanelli. Coraggiose studentesse e insegnanti lasciano case e impegni: Paola Del Din, eccezionale paracadutista, riesce mettere in salvo tanti altri partigiani e l’ebrea Rita Rosani organizza le prime bande antifasciste a Portogruaro. In questa guerra civile “diffusa” e dai tratti epici e collettivi non c’è distinzione tra chi a Matera prende in mano vecchi moschetti per guidare una delle prime ribellioni del meridione e chi, invece, come le famiglie alto borghesi del Nord, predispone reti di finanziamenti (da Enrico Falck, industriale dell’acciaio, cattolico, figlio di Giorgio, ad Alfredo Pizzoni, uomo dell’alta finanza). Però tutti viaggiano all’unisono, animati dallo stesso refrain: rimettere in piedi il “patrimonio di una nazione”. «La frase di Balbis sul desiderio di ridare l’onore all’Italia dovrebbe essere letta a voce alta dai candidati a una carica pubblica, dagli eletti in Parlamento, dai condannati per corruzione», spiega Cazzullo. La ricorrenza, insomma, di questi tempi è più attuale che mai. Uomini e donne di ieri, dunque, ma anche di oggi.
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L’orgoglio dei condannati e la “santa” che aiutò Montanelli

P
ubblichiamo alcuni brani tratti dal libro di Aldo Cazzullo. Così il capitano Franco Balbis — decorato a El Alamein, catturato nella sacrestia del Duomo di Torino con gli altri capi del comitato militare della Resistenza piemontese, fucilato dai fascisti il 5 aprile 1944 — si congeda dai genitori (dalla sua espressione «Possa il mio sangue servire» è tratto il titolo del libro di Cazzullo):

«Babbo adorato,
il tuo unico figlio si allontana da te. Non perderti d’animo e accetta quest’ultimo volere di Dio. Ti raccomando la mamma: anche per lei devi essere forte. Muoio con la grazia di Dio e con tutti i conforti della nostra religione. Nel momento supremo Tu sarai nel mio cuore e sul mio labbro. Arrivederci, Babbo, ti stringo a me nel virile abbraccio degli uomini forti e chiedo la tua benedizione. Babbo adorato, se la mia vita fu serena e facile io lo devo a Te, che mi hai guidato col tuo amore, col tuo lavoro, col tuo esempio. Possa il mio sangue servire per ricostruire l’unità italiana e per riportare la nostra terra a essere onorata e stimata nel mondo intero. Prego i miei di non voler portare il lutto per la mia morte; quando si è dato un figlio alla Patria, comunque esso venga offerto, non lo si deve ricordare col segno della sventura. Con la coscienza sicura d’aver sempre voluto servire il mio Paese con lealtà e con onore, mi presento davanti al plotone d’esecuzione col cuore assolutamente tranquillo e a testa alta. Possa il mio grido di «Viva l’Italia libera» sovrastare e smorzare il crepitio dei moschetti che mi daranno la morte; per il bene e per l’avvenire della nostra Patria e della nostra Bandiera, per le quali muoio felice».
Franco Balbis
Torino, 5 aprile 1944

Con Balbis viene catturato e fucilato anche un operaio comunista, Eusebio Giambone, che così scrive alla figlia bambina:

«Cara Gisella,
quando leggerai queste righe il tuo papà non sarà più. Il tuo papà che ti ha tanto amata malgrado i suoi bruschi modi e la sua grossa voce, che in verità non ti ha mai spaventata. Il tuo papà è stato condannato a morte per le sue idee di Giustizia e di Eguaglianza. Oggi sei troppo piccola per comprendere perfettamente queste cose, ma quando sarai più grande sarai orgogliosa di tuo padre e lo amerai ancora di più, se lo puoi, perché so già che lo ami molto. Non piangere, cara Gisellina, asciuga i tuoi occhi, tesoro mio, consola tua mamma da vera donnina che sei. Per me la vita è finita, per te incomincia, la vita vale di esser vissuta quando si ha un ideale, quando si vive onestamente, quando si ha l’ambizione di essere non solo utili a se stessi ma a tutta l’Umanità. Studia di buona lena come hai fatto finora per crearti un avvenire. Un giorno sarai sposa e mamma, allora ricordati delle raccomandazioni di tuo papà e soprattutto dell’esempio di tua mamma. Studia non solo per il tuo avvenire ma per essere anche più utile nella società; se un giorno i mezzi non permetteranno di continuare gli studi e dovrai cercarti un lavoro, ricordati che si può studiare ancora e arrivare ai sommi gradi della cultura pur lavorando. Mentre ti scrivo ti vedo solo nell’aspetto migliore, non vedo i tuoi difetti ma solo le tue qualità perché ti amo tanto: ma non ingannarti perché anche tu hai i tuoi difetti come tutte le bambine (e anche i grandi), ma saprai fare in modo di divenire sempre migliore, ed è questo il modo migliore di onorare la memoria del tuo papà. Tu sei giovane, devi vivere e crescere e se è bene che pensi sovente al tuo papà, devi pensarci senza lasciarti sopraffare dal dolore, sei piccola, devi svagarti e divertirti come lo vuole la tua età e non solo piangere. Devi far coraggio alla mamma, curarla e scuoterla se è demoralizzata. Sii brava; sempre; ama sempre la mamma che lo merita tanto. Il tuo papà che ti ha amata immensamente ti abbraccia e il suo pensiero sarà fino alla fine per te e mamma. Il tuo papà».
Eusebio Giambone

La Resistenza fu fatta anche dai sacerdoti e dalle suore, come madre Enrichetta Alfieri, che a San Vittore assisteva i prigionieri dei nazifascisti, faceva arrivare all’esterno i loro messaggi, salvò ebrei e altri perseguitati. Ecco le testimonianze di due detenuti.

«Suor Enrichetta era una stupenda figura di religiosa. Una suora buonissima e coraggiosa. Le sarò grato per sempre. Io ero al quinto raggio, quello degli isolati, non avrei potuto vedere nessuno. Invece grazie a suor Enrichetta, attraverso un intrico di corridoi e di cunicoli, riuscii per tre volte a incontrare mia moglie, anche lei imprigionata e condannata a trent’anni. Suor Enrichetta era amatissima da tutti i detenuti. Tutti noi ricevevamo, grazie alla sua regia, bigliettini e informazioni. Così grande era il conforto di quegli incontri furtivi, così immensa la gratitudine per chi con grande rischio personale li rendeva possibili, che ancora oggi il ricordo di suor Enrichetta e della sua veste frusciante suscita in me la devota ammirazione che si deve ai santi o agli eroi. In questo caso, a entrambi».
Indro Montanelli

«Ci facemmo avanti per bussare alla porta del carcere femminile. Ci aprì una suorina che non dimenticherò mai; si chiamava suor Enrichetta Alfieri. Evidentemente informata in precedenza, andò immediatamente a aprire la cella della mamma. Non so come descrivervi la commozione per questo incontro così drammatico. Non ci dicemmo molte parole, fu tutto molto veloce e intenso, soprattutto ricordo le nostre lacrime. Questi incontri “clandestini” si verificarono poi altre tre o quattro volte, sempre con grande rischio da parte di entrambi e di suor Enrichetta».
Mike Bongiorno

Franco Cesana non aveva ancora compiuto 13 anni, quando si unì ai partigiani, dicendo di averne 18. Il 12 settembre 1944, mentre con il fratello è di pattuglia, viene attaccato di sorpresa dai tedeschi e ucciso con una raffica di mitragliatrice. Grazie al suo sacrificio, il resto della banda riesce a mettersi in salvo. Franco Cesana è medaglia di bronzo al valor militare. Questa è la lettera scritta alla madre per tranquillizzarla. Prima di salutarlo, la madre gli aveva fatto giurare di non dire a nessuno di essere ebreo.

«Carissima mamma,
dopo la mia scappata non ho potuto darti mie notizie per motivi che tu immagini. Ti do ora un dettagliato resoconto della mia avventura: partii così all’improvviso senza sapere io stesso che cosa stavo facendo. Camminai finché potevo, poi mi fermai a dormire in un fienile. Al mattino, svegliandomi con la fame, ripresi a camminare in direzione di Gombola, sfamandomi con le more. Arrivai in paese verso le nove e di lì cercai i partigiani, deciso a entrare a far parte di una qualche formazione. Riuscii a trovare patrioti che mi insegnarono la strada per andare al Comando che si trovava a Maranello di Gombola. Arrivai nella detta località stanco morto, ma mi feci coraggio e mi presentai. Dopo un po’ mi si presentò l’occasione di entrare a far parte della formazione del comandante Marcello. Sei contenta? Presentandomi a Marcello fui assunto e siccome ho studiato fui dislocato al Comando e attualmente mi trovo stabile relativamente sicuro in una località sopra a Gombola. Così non devi impensierirti per me che sto da re. La salute è ottima; solo un po’ precario il dormire. Per chiarire un increscioso incidente ti avverto che non ho detto quella cosa che mi hai fatto giurare. Così chiudo questa mia, raccomandandoti alto il morale, che ormai abbiamo finito. Affettuosamente ti bacia e ti pensa il tuo tesoro. Appena ricevuto la mia bruciala. Ancora ti saluto e ti abbraccio Franco».
Franco Cesana
Pietro Ferreira, ufficiale, va in guerra da volontario, in Dalmazia. Dopo l’8 settembre sceglie di restare accanto ai tedeschi. Poi ha una crisi di coscienza, fugge, si unisce ai partigiani friulani, nome di battaglia “Pedro”. Passa in Piemonte dove comanda la VII divisione alpina Giustizia e Libertà. Catturato e fucilato con altri dieci partigiani il 23 gennaio 1945. Medaglia d’oro al valor militare. Prima di morire scrive questa generosa lettera al tenente Barbetti della Repubblica di Salò, che al processo ha tentato di salvargli la vita:

«Caro Tenente Barbetti,
condannato a morte e a poche ore dalla esecuzione mi sento libero, leggero, sfrondato di ogni umana convenienza, e ciò che mi esce dalla penna non può esser altro che sgorgato dal cuore. Sento il bisogno di rivolgere un saluto anche a Voi prima di lasciare questa vita in cui ho vissuto tanto intensamente. Voi tenente Barbetti, colla vostra purissima fede di fascista e nazionalista, mi avete fatto ricredere su molti preconcetti che avevo sul mondo fascista repubblicano. Conoscendovi ho appreso e ho dovuto constatare che anche tra le vostre file vi sono degli uomini puri, onesti e d’onore per i quali le doti morali, staccandosi nettamente da ogni considerazione di carattere politico, brillano di luce propria e rendono la propria personalità inattaccabile da qualsiasi calunnia o ingiustizia anche a fine politico. Voi non siete un criminale di guerra, come vi hanno definito, ma siete una persona d’onore, un puro, che segue la voce della coscienza e della lealtà. E ciò voglio dirlo, anzi, gridarlo io, Pedro Ferreira, in punto di morte. Possa questo mio grido che sale dalla fossa giungere all’orecchio di coloro che, non conoscendovi che per l’ufficio che occupate e la carica che rivestite, vi vogliono del male. Io vi ringrazio di tutto quanto avete fatto per me. Avete fatto tutto quanto vi era possibile fare per salvarmi. Al processo tutto quanto potevate testimoniare a mio favore l’avete testimoniato, quantunque voi siate per me un nemico. Nuovamente commosso e riconoscente, vi ringrazio e vi auguro di ritornare felice domani in un’Italia rinata a nuova vita, con la vostra signora e i vostri bambini nella vostra natia Capua ove vi sarei venuto a trovare un giorno se il destino non mi fosse stato così nemico. Ed ora vi saluto, tenente Barbetti, vi dico addio, e vi chiedo di permettermi di abbracciarvi e, superando tutto ciò che ci divide, considerarvi in questo supremo momento un caro, un vero amico».