Costanza Rizzacasa d’Orsogna, Sette 17/4/2015, 17 aprile 2015
E SE IL FUTURO FOSSE COMINCIATO DAVVERO NEL 1995?
È stato l’anno di Netscape, dell’attentato a Oklahoma City, della liaison tra Monica Lewinsky e Bill Clinton. Ma anche del processo ad O.J. Simpson, dei trattati che posero fine alla carneficina in Bosnia. È stato l’anno in cui tutto è iniziato, il 1995. E sarà come scriveva il sociologo Fred Davis, che la nostalgia scoppia dopo vent’anni, fatto sta che è finalmente uscito un libro che lo celebra. 1995: The Year the Future Began, di W. Joseph Campbell, storico dei mass media e professore all’American University di Washington, D.C. Perché se la storia è la previsione del presente, dice Campbell, allora il 1995, nel bene e nel male, è l’anno in cui tutto è cambiato. Un anno di svolta, uno spartiacque. Anche se prima di lui l’aveva capito, a modo suo, una piccola band hip-hop/R&B: i Koolest, che proprio al 1995, due anni fa, avevano dedicato una canzone (I’m lookin’ fresh I’m lookin’ fly / Like it’s 1995).
Il mondo attuale, scrive Campbell, risale al 1995, a quei cinque eventi pivotali. L’anno in cui Internet s’insinuò nelle coscienze e nella cultura prevalente, come — in un processo che fermò l’America — la prova del Dna per la scienza forense, che produsse successi tv come Csi e Law & Order: Svu, e all’improvviso gente che non sapeva cosa fosse il Dna ne discettava all’happy hour. L’anno in cui un attentato con 168 vittime portò l’allarme terrorismo nel cuore profondo dell’America, creando un clima di sospetto e restrizioni (che si rivelarono però del tutto insufficienti a prevedere l’11 Settembre). Quando un successo diplomatico degli Usa, gli accordi di Dayton, scatenò, in politica estera, una bolla — “arroganza” — interventista senza precedenti, che il Paese paga ancora oggi, e un presidente piacione iniziò una relazione clandestina che avrebbe portato al primo impeachment di un inquilino della Casa Bianca eletto.
Nuovi colossi. Soprattutto, come titolò Newsweek in una copertina alla fine di quell’anno, il 1995 è stato “the year of the Internet”, definizione appropriata anche a distanza di vent’anni, se consideriamo che molti dei big player di oggi sono nati nel 1995. Come eBay, Craigslist, Salon, match.com, ma anche il sito del New York Times, il linguaggio Java e il concetto di wiki (“veloce” in hawaiano), applicazione che permette di collaborare alla realizzazione e la modifica dei suoi contenuti. Come Amazon, fondata un anno prima, ma che nell’estate del 1995 iniziò a vendere libri. La stessa Yahoo!, creata nel 1994, si costituì come società nel 1995, e lo stesso anno Larry Page e Sergey Brin, fondatori di Google, s’incontrarono per la prima volta, nel campus di Stanford (e all’inizio non si piacquero granché). In un settore dal grandissimo turnover, la resistenza di quei primi siti è straordinaria.
Tutto questo indica quanto il 1995 sia stato un anno estremamente fertile sul fronte digitale. E se la connessione era ancora primitiva (“Come un viaggio verso una destinazione accidentata e esotica”, scrisse Newsweek: “I piaceri sono squisiti, ma ci vuole coraggio”), fu l’anno in cui Internet fece massa critica: non tutti erano online, ma tutti ne avevano sentito parlare. O nelle parole di Vint Cerf, uno dei papà dell’Internet, il web passò da quasi-invisibilità a quasi-ubiquità. Da curiosità affascinante quanto vaga a fenomeno che avrebbe cambiato il modo in cui la gente lavora, interagisce, studia, compra. E ciò che avvicinò milioni alla rivoluzione digitale fu l’Ipo di Netscape Communications. Che l’anno prima aveva realizzato un browser superpopolare, e quando sbarcò in Borsa, il 9 agosto del 1995, la travolse, anticipando il boom delle dotcom nella seconda metà del decennio. Il collocamento di Netscape – cinque milioni di azioni piazzate al Nasdaq a 28 dollari l’una che chiusero a $58,25, facendo schizzare il valore dell’azienda a $2,9 miliardi, “il miglior debutto della storia”, come scrisse il New York Times, dimostrò che il web, da giochino per i nerd, poteva essere non solo adatto a tutti, ma anche un luogo dove far fortuna in poco tempo. Per anni si utilizzò l’espressione “Netscape moment”, a indicare un collocamento fortunato che segnava l’avvento di una nuova industria. Il creatore di Netscape, l’allora 24enne Marc Andreessen, descritto da Newsweek come “l’ultra-super-mega bambino prodigio del cyberspazio”, divenne famoso come una rockstar, e posò a piedi nudi sulla cover di Time.
Non durò molto. Neanche tre settimane dopo, con una campagna di marketing da 300 milioni di dollari, Microsoft lanciò il sistema operativo Windows 95, abbinato al browser Internet Explorer 1.0. Iniziò il periodo noto come prima guerra dei browser, e la piccola Netscape fu presto atterrata dal colosso di Redmond. E se quel crollo è stato una premessa fondamentale del processo antitrust avviato dal dipartimento della Giustizia Usa contro Microsoft, dove l’abbinamento di Windows con Internet Explorer venne dichiarato pratica monopolistica e illegale, la decisione arrivò troppo tardi per Netscape. Acquistata da Aol nel 1998, cadde nell’oblio. «Ma quel 1995», scrive Campbell, «fu un anno di dinamismo eccezionale. Oggi siamo molto meno interessati a cambiare il mondo. La massima aspirazione di un 24enne è inventare l’ennesima app da vendere a Google per un centinaio di milioni, e poi fare la bella vita come i #RichKidsofInstagram».
Non era scontato che il 1995 sarebbe stato un anno clou sul fronte dell’innovazione. Se in Italia, in queste settimane, è tutto un parlare del 1992, gli anni Novanta, osserva il New Yorker in una recensione del libro di Campbell, sono spesso ignorati. Forse perché, dopo l’esuberanza irrazionale degli anni 80, vengono erroneamente ricordati come periodo di tranquillità. «Il nostro lungo incubo nazionale di pace e prosperità è finalmente finito», ironizzò il blog satirico The Onion quando nel 2001 George W. Bush s’insediò alla Casa Bianca. E certo, il mercato azionario visse un decennio di fermento, iniziato col Dow Jones a 2.753 punti e finito a 11.497. Ma l’atmosfera degli anni 90, come misurata dalle prime pagine dei giornali, era più amara. Facevano notizia l’Unabomber Ted Kaczynski, la maîtresse Heidi Fleiss, che forniva prostitute a mezza Hollywood, la campionessa di pattinaggio Tonya Harding, che assoldò un sicario per mettere fuori gioco la rivale Nancy Kerrigan, Lorena Bobbitt. E poi l’assassinio del premier israeliano Yitzhak Rabin, lo scandalo steroidi che tirò quasi giù il baseball, il massacro di Columbine, l’attentato al World Trade Center, le guerre civili in Somalia e in Sierra Leone, il genocidio in Rwanda, la pulizia etnica nell’ex Jugoslavia. Un viatico tristissimo. “Nessuna meraviglia”, chiosa il New Yorker, “che Titanic fosse il film del decennio. Né che gli anni Novanta si chiusero con l’isteria da Y2K, il Millennium bug, tra luddismo e “seghe digitali”. Ma furono anche gli anni del “Don’t ask, don’t tell”, l’espressione coniata per descrivere la politica dell’amministrazione Clinton sui gay nell’esercito. “Una politica irrisolta, per un decennio irrisolto”. Di eruzioni isolate, di scandali e violenza senza il fil rouge di un movimento letterario, di costume (a parte il grunge), di diritti civili. Lo stesso Clinton, che sembrava destinato a dare l’imprinting al decennio, è ricordato — a dispetto dell’impegno per la pace israelo-palestinese, di Nafta, di aver lasciato l’incarico con il consenso più alto per un presidente dalla Seconda guerra mondiale — soprattutto per vicende più triviali.
A ritmo di rap. Come il Monicagate, la tresca con la stagista della Casa Bianca che, iniziata nel 1995 e venuta alla luce tre anni dopo, rischiò di costargli la presidenza (e probabilmente la costò ad Al Gore). Per anni, dopo il 1998, la parola “stagista” veniva invariabilmente pronunciata con titubanza o ammiccamenti, pilastro delle battute di Jay Leno e David Letterman. Le aziende vararono politiche di non fraternizzazione. Ancora nel 2010, nel film The Social Network, la presenza di una “intern” a un party dove viene trovata cocaina fa tremare Zuckerberg. Il New York Magazine ha calcolato quante volte da allora la Lewinsky sia stata citata nelle canzoni rap e hip-hop: 128, da Beyoncé a Eminem.
Curiosamente, a distanza di vent’anni, Monica, ormai quarantenne, torna alla ribalta. Nel 1999, intervistata da Barbara Walters, aveva incollato alla tv 70 milioni di telespettatori. Seguirono un libro-scandalo col biografo di Lady Diana, una linea di borsette, un reality, gli spot per un programma dimagrante. Finché non si rese conto che quella notorietà le impediva di rifarsi una vita. Così si trasferisce a Londra, prende un Master in psicologia sociale alla London School of Economics, per quasi dieci anni non rilascia un’intervista. E quando poi scrive un articolo per Vanity Fair su “quella vecchia storia” arriva finalista al National Magazine Award. Si reinventa attivista contro il cyberbullismo, parla al seminario di Forbes per gli under 30, azzecca perfino l’abito degli Oscar. A marzo, il suo intervento alla Ted conference di Vancouver — in cui si dichiara “paziente zero” della gogna pubblica — è applaudito dal New York Times come coraggioso e commovente. L’opinione pubblica la chiama “ispirazione”, forse le daranno da condurre un notissimo talk show (posto che la Abc accetti d’inimicarsi Hillary). Il passato invece continua a perseguitare Clinton, le cui intemperanze sono mina vagante per le ambizioni presidenziali della moglie. Per lui il Monicagate non è dimenticato: l’artista che lo ritrasse nel 2006 per un dipinto della National Portrait Gallery di Washington ha appena rivelato come inserì nel quadro l’ombra del famigerato abito blu della Lewinsky. Formidabile quell’anno.