Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  aprile 13 Lunedì calendario

LA CORSA ALL’ORO DI TEHERAN LE IMPRESE ITALIANE IN PISTA IN PALIO 20 MILIARDI IN TRE ANNI

«La rimozione delle sanzioni verso l’Iran produrrà grandiosi effetti benefici per l’export italiano: negli ultimi tre anni abbiamo perso 15 miliardi di potenziale fatturato, ma nei prossimi tre ci sarà un effetto moltiplicatore e grazie alla distensione siamo in grado di salire a 19 miliardi», dice Alessandro Terzulli, capo economista della Sace. Riccardo Monti, presidente dell’Ice, rincara: «Se la congiuntura internazionale sarà favorevole e le sanzioni saranno rimosse in fretta, l’Iran vivrà un boom economico di tutto rilievo e il mercato sarà ancora più promettente per le industrie italiane. Ci sono interi settori che devono essere modernizzati e le tecnologie italiane potranno essere protagoniste. Noi siamo pronti a lanciare una massiccia operazione di promozione del made in Italyappena se ne verificheranno le condizioni per riattivare i flussi commerciali utili a recuperare il tempo perduto». L’entusiasmo, temperato per motivi di opportunità politica, è palpabile. L’accordo sul nucleare raggiunto il 2 aprile a Losanna che porterà alla fine dell’isolamento per il regime degli ayatollah, innescherà un fenomeno economico di enorme rilievo: un Paese di 80 milioni di abitanti risorgerà dalle sue ceneri dispiegando un potenziale straordinario alimentato dalle seconde riserve petrolifere del pianeta. Ce ne sarà per tutti: esportatori di beni durevoli e strumentali, costruttori di infrastrutture, venditori di servizi di telecomunicazioni e informatica. L’Italia può giocare un ruolo da protagonista per legami col Paese talmente forti che nel 2010, nel pieno della bufera geopo-litica, erano oltre mille le aziende nostrane presenti. E in tanti, magari in silenzio, sono rimasti. «Se riparte l’oil& gas - spiega Terzulli - la domanda di meccanica strumentale, nostro tradizionale settore di forza (il 70% dell’export prima del blocco) crescerà non solo per l’incremento dell’interscambio ma perché l’Iran avrà bisogno di investire per restituire efficienza agli impianti». E il traguardo dei 20 miliardi in 3 anni appare alla maggior parte degli operatori realistico. Certo, bisogna mettere a punto l’intesa nucleare definitiva (entro il 30 giugno), vincere le resistenze israeliane e ammorbidire lo scetticismo interno a Teheran (è di giovedì scorso l’altolà della guida spirituale Khamenei: «Fine delle sanzioni subito»). Però tutti sono sicuri del buon esito finale della partita a scacchi fra verifiche nucleari e lifting sanctions. La determinazione americana è la chiave della fiducia: il 14 aprile Obama affronta il Congresso e ha già detto che metterà il veto su qualsiasi mossa ostruzionistica. Gli americani mettono nella distensione la stessa grinta utilizzata al contrario negli anni delle sanzioni: chi non ricorda la mega-multa da 9 miliardi di dollari appioppata a Bnp-Paribas per aver promosso una missione di 100 imprese francesi a Teheran? Ora si cambia: «C’è un elemento che spiega la determinazione americana», spiega Rosario Alessandrello, presidente della Camera di Commercio italoiraniana. «Gli Usa hanno bisogno dell’Iran come partner commerciale ma soprattutto come sponda politica per arginare il caos mediorientale. Non è possibile sperare in qualche assetto pacifico senza un alleato forte come l’Iran, e in cambio bisogna dargli l’apertura economica ». Alessandrello, 81 anni portati garibaldinamente, è un veterano del Paese: «Andai nell’Iran dello Scià come capo di Technimont negli anni ’70, quando l’azienda era della Montedison di Cefis, per costruire un impianto farmaceutico ». Da allora ha mantenuto ottimi rapporti con tutti i regimi, perfino con l’ostico Ahmadinejad per il quale organizzò un affollato appuntamento con gli imprenditori italiani all’Hilton di Roma nel 2009. «Con la Camera di Commercio, creata nel 1999, abbiamo tenuto in piedi relazioni che ora che cambierà il vento si riveleranno cruciali». Con il fatto che l’embargo è ancora vigente, pur sperabilmente per poco, si spiega la prudenza, mista però a una palpabile emozione per i prossimi sviluppi, delle aziende interessate alla ripresa del business. Perfino all’Eni rimarcano di non avere nessun investimento in corso. Eppure l’ente è stato l’apripista della via italiana all’Iran ai tempi di Mattei, citato a Teheran fra gli eroi della storia patria al pari di Mossadeq, il primo ministro che guidò lo sviluppo del Paese nel dopoguerra. L’Eni oggi si limita al recupero di crediti passati: gli ultimi contratti di servizio con la Nioc iraniana riguardavano quattro giacimenti (South Pars e Darquain come operatore, Dorood e Balal non come operatore) ma ora sono stati tutti completati. L’handover di Darquain, l’ultimo, è del dicembre 2014. L’ufficio di Teheran però è rimasto aperto, per fortuna è il caso di dire. Ancora maggior cautela in Finmeccanica (che ha lavorato in passato con Ansaldo Energia e la siderurgica Fata) e nel gruppo Danieli, che su impulso della matriarca Cecilia aveva stabilito solide basi nel Paese costruendo negli anni 90 due acciaierie a Esfahan e a Yadz. Per non parlare della Fca, che quando si chiamava Fiat nel 2005 aveva raggiunto un accordo con la Pars Industries per la costruzione di un impianto da 275 milioni di dollari in grado di produrre fino a 100mila auto l’auto del modello Siena progettato appositamente. Non se n’è fatto nulla, ma le relazioni restano anche se a Torino ne parlano a stento. Identica cautela presso i grandi costruttori di infrastrutture che abbiamo interpellato: Salini, Condotte, Astaldi. E anche al Gruppo Trevi di Cesena, 1,2 miliardi di fatturato nel 2014, che ha partecipato alla costruzione del porto di Bandar Abbas e di altre grandi opere, domina la prudenza permeata però di speranza. Più appassionati i medi imprenditori che esplicitano rimpianti ma altrettanta fiducia: «Abbiamo fornito software per la trasmissione intelligente dell’energia nonché per le telecomunicazioni attraverso diverse joint-venture negli anni ’90 arrivando a realizzare in Iran l’8% del fatturato», racconta Carlo Tagliaferri, ad della Selta di Piacenza, 57 milioni di fatturato 2014. «Poi abbiamo dovuto lasciare il passo ai concorrenti cinesi, per i quali non c’era embargo che tenesse: riguadagnare le posizioni non sarà facile ma noi abbiamo sempre mantenuto ottimi rapporti personali con i dirigenti locali». Alessio Leati, direttore commerciale della Cannon Artes di Salerno (ingegneria industriale), aggiunge: «Lavoriamo quasi solo all’estero, soprattutto in Medio Oriente, e abbiamo buone credenziali per rientrare in Iran. Siamo specializzati nel trattamento delle acque industriali, dagli idrocarburi al minerario, dal siderurgico all’alimentare, con impianti a Bandar Imam Khomeini, Shiraz, Karmanshah. Siamo in Iran dagli anni ’90 al seguito di contractor italiani: è stato difficile completare le commesse, e ancora più difficile risolvere i pagamenti (l’Iran in forza dell’embargo è stato escluso dal 2010 dal sistema di pagamenti internazionali Swift, ndr). Ma abbiamo continuato a tenere i contatti con i nostri partner iraniani». Stesso discorso per Roberto Snaidero, presidente di Federlegno-Arredo: «Abbiamo compiuto due missioni in Iran: ne avevamo prevista una sola ma abbiamo raddoppiato per le tante richieste. In Iran ci sono molti architetti che hanno studiato in Italia e parlano italiano, puntiamo ad affermare la nostra presenza in modo consistente». L’interscambio Italia-Iran si è ridotto drasticamente ma non si è prosciugato, precisa Donato Iacovone, capo di Ernst & Young per il Mediterraneo e il Medio Oriente. «Anzi, nel 2014, anno di un primo parziale allentamento delle sanzioni, le esportazioni sono aumentate del 9,5% fino a 1,1 miliardi, contribuendo a determinare un saldo positivo della bilancia commerciale di 716 milioni». Ci sono tutte le premesse perché, una volta cessato del tutto il regime sanzionatorio, si riesca a recuperare rapidamente il livello precedente: «Il massimo storico dell’interscambio era stato nel 2011 con 7 miliardi». Del primo parziale smantellamento dell’embargo l’anno scorso ha beneficiato la Chimitrade, che importa metanolo: «Importiamo 250mila tonnellate - spiega l’ad Flavio Basso - e siamo pronti a sviluppare una serie di altri trading di prodotti chimici prodotti in Iran: il loro rientro sul mercato abbassa del 20% i costi di produzione per molti settori. Hanno sviluppato al porto di Bandariman Komeinhi un centro di trading e di shipping di proditti chimici di primissimo piano». E Alberto Bregante, una lunga storia di lavoro in Iran cominciata con l’Italiampianti, dopo aver costruito due acciaierie a Mobarakeh e Bandar Abbas e aver mantenuto ottimi rapporti personali, oggi ad della Sms Innse di Milano anch’essa impegnata nell’ingegneria civile, aggiunge: «Queste sanzioni danneggiano tutti. Appena saranno rimosse si potrà dispiegare un potenziale di business per noi italiani formidabile: nel nostro settore, la siderurgia, tutti i quadri si sono formati a Taranto, a Terni, a Piombino. Hanno una stima per l’Italia, direi quasi un affetto, che è il miglior presupposto per ricominciare a lavorare insieme a pieno titolo».
Paola Jadeluca e Eugenio Occorsio, Affari&Finanza – la Repubblica 13/4/2015