Anabel Hernandez, D, la Repubblica 11/4/2015, 11 aprile 2015
MESSICO AMARO
La sparizione di 43 studenti della scuola rurale di Ayotzinapa, avvenuta il 26 settembre del 2014 a Iguala, nello stato messicano di Guerrero, ha mostrato con violenza al mondo il vero volto della situazione che vive oggi il Messico: il susseguirsi di massacri di innocenti, le sparizioni coatte, l’impunità, la collusione a tutti i livelli dello stato con la malavita organizzata, e il fallimento totale del presidente Enrique Peña Nieto nel garantire pace, legalità e giustizia, elementi indispensabili per l’esistenza di una democrazia.
La terribile notte di Iguala ha segnato la fine non soltanto di quei giovani studenti, ma anche dell’illusione creata dal presidente Enrique Peña Nieto, il cosiddetto «Momento messicano». Durante i primi mesi di mandato, sostenuto da un’intensa campagna di pubbliche relazioni all’estero e da un’altrettanto intensa campagna di disinformazione interna, il governo di Peña Nieto ha tentato di farci credere che il Messico avesse superato la sua crisi di incertezza, e che fosse venuto il momento di fregarsi le mani davanti all’imminente, presunta prosperità generata da riforme varate in fretta e furia. Temi come i cartelli della droga, il narcotraffico, le sparizioni e le morti sono svaniti dal lessico presidenziale e dalle conferenze stampa, ma non dalla realtà.
Peña Nieto ha voluto presentarsi al mondo come il presidente che avrebbe cambiato faccia al paese della «guerra alla droga» intrapresa dal suo predecessore Felipe Calderón. Ha cercato di dipingersi come il «riformatore» del Messico, e perfino come suo «salvatore», per usare il termine con cui è stato ribattezzato da quegli stessi media internazionali che oggi lo criticano ferocemente.
Il massacro e la scomparsa di quei 43 studenti – molti dei quali avevano appena 17 e 18 anni e venivano dalle comunità più povere del Guerrero – hanno mandato in frantumi l’illusione, rivelando la cruda realtà che da 14 anni i messicani vivono senza sosta: la violenza, la corruzione e l’impunità non sono mai venute meno, sopravvivendo sotto gli occhi di un presidente che si concia da fotomodello, e come tale non osserva, né ascolta.
Il Messico vive immerso in un’ondata di violenza e impunità interminabile, maturata nel corso dei decenni grazie a un sistema politico corrotto creato dal PRI, il partito politico di Peña Nieto, nei suoi 70 anni di permanenza al vertice dello stato. Durante questo lungo periodo di tempo si è permessa la creazione dei cartelli della droga in varie regioni del paese. La convivenza del governo con i gruppi criminali ha consentito a questi ultimi di diventare sempre più forti, corrompendo le istituzioni statali e penetrando al loro interno.
Dopo l’ascesa alla presidenza della repubblica del partito di destra PAN, prima con Vicente Fox (2000-2006) e poi con Felipe Calderón (2006-2012), questa struttura criminale è perdurata fino al ritorno al potere del PRI. E da quando Peña Nieto si è insediato come presidente, nel dicembre del 2012, il Messico ha conosciuto gravi peggioramenti.
La scoperta – da parte del team di reporter di Aristeguinoticias.com, il portale di informazione diretto dalla giornalista messicana Carmen Aristegui – di una villa del valore stimato in oltre 7 milioni di euro, utilizzata dal presidente e dalla moglie Angelica Rivera come bene personale, ma ufficialmente intestata a un appaltatore amico del presidente che ha ottenuto contratti milionari quando Peña Nieto era governatore, così come ora che è presidente, ha messo in risalto un conflitto di interessi palese, che in altri paesi gli sarebbe costato le dimissioni. Nel Messico dell’immunità, non è successo nulla.
Il problema del narcotraffico, che a tutt’oggi costituisce la sfaccettatura più evidente della corruzione, continua a crescere, nonostante il governo di Peña Nieto sbandieri gli arresti di boss importanti come Joaquin Guzmán Loera, noto come El Chapo e leader del Cartello di Sinaloa, considerato dalla DEA come uno dei più potenti al mondo, e di altri come il leader di Los Zetas o dei Caballeros Templarios. Malgrado gli arresti, le violenze non diminuiscono in modo sensibile, e il traffico e la produzione di droga nemmeno. C’è una spiegazione chiara.
I dati ufficiali contenuti nella prima e nella seconda relazione sulla gestione del governo di Peña Nieto (2013 e 2014) dimostrano che, dietro gli spettacolari arresti di boss importanti, la scomoda realtà è che in questa amministrazione la lotta contro la produzione e il traffico di droga va declinando. Il numero di ettari di terreno destinati alla coltivazione delle droghe che sono stati distrutti è il più basso da 19 anni a questa parte, e la quantità di marijuana e cocaina sequestrate la più bassa da 17. La Procura generale della Repubblica ha segnato il record degli ultimi 19 anni quanto a fascicoli penali aperti e non smaltiti, il che significa niente giustizia per le vittime, registrando inoltre il minor numero di detenuti per delitti contro l’incolumità pubblica degli ultimi dieci anni.
Mentre in Italia una parte importante della lotta al narcotraffico consiste nella confisca di beni e aziende ai boss, in Messico queste misure sono sempre più deboli.
Stando alle risposte che chi scrive ha ottenuto dal governo federale, malgrado la cattura di E1 Chapo, il governo di Peña Nieto non ha confiscato una sola proprietà o azienda delle decine riconducibili al boss e al cartello di Sinaloa, elencate in un documento del dipartimento del Tesoro statunitense.
Quanto al narcotrafficante Miguel Angel Treviño Morales, detto El Z40 e leader del sanguinario cartello di Los Zetas, è stato arrestato nel 2013. Lo stato messicano gli ha finora confiscato 2,2 milioni di dollari, mentre negli Stati Uniti gli sono stati sequestrati centinaia di cavalli e di ranch. Il valore di alcuni di quei cavalli è superiore a quello del denaro confiscatogli dal governo messicano. Il che vuol dire che i boss di alcuni cartelli saranno pure stati arrestati, ma in gran parte gli interessi economici delle loro organizzazioni criminali permangono intatti.
Negli ultimi 8 anni, il Messico è stato scosso dalle uccisioni di massa perpetrate dalla malavita organizzata e dallo stato. Nel febbraio del 2010, un commando ha massacrato 10 studenti di età compresa fra i 16 e i 17 anni a Ciudad Juárez, nello stato di Chihuahua. Nell’agosto dello stesso anno, 72 immigrati sono stati assassinati dagli Zetas a San Fernando, nello stato di Tamaulipas. Verso la fine del giugno scorso, l’esercito messicano ha giustiziato 22 persone a Tlatlaya, nello Stato del Messico (uno della federazione Messicana); stando alla versione ufficiale, si sarebbe trattato di criminali morti in uno scontro a fuoco, ma dalle inchieste giornalistiche è emerso che erano disarmati, e sono stati vittime di una vera e propria esecuzione da parte dell’esercito. Lo scorso 24 settembre, il governo di Peña Nieto ha annunciato l’arresto di alcuni militari che avevano preso parte al massacro di Tlatlaya, appena due giorni prima della notte in cui sono stati uccisi gli studenti di Iguala. Perché il caso degli studenti è riuscito a scuotere le coscienze? Entrando nei locali della scuola Raúl Isidro Burgos, e scoprendo le storie dei giovani uccisi, di quelli scomparsi e dei sopravvissuti, è facile comprendere come mai il caso abbia rappresentato l’ultima goccia per una società che negli ultimi anni ha perso impunemente decine di migliaia di figli, madri, padri, parenti e amici per mano di una malavita organizzata e di uno stato che spesso agiscono in sincrono, o come se fossero la stessa cosa.
La maggior parte degli studenti di questa scuola che forma maestri per le comunità indigene e le zone più remote e povere del paese provengono da famiglie di contadini sfruttati per decenni senza la speranza di un futuro migliore. Da bambini hanno lavorato nei campi, sfruttati come i genitori. Per loro non è mai esistito un «Momento messicano», né un salvatore, perché la miseria economica, gli abusi e le ingiustizie non hanno conosciuto sosta. Gli è rimasta l’illusione di poter risvegliare la conoscenza in altri come loro, e per questo hanno deciso di studiare da insegnanti.
Le madri addolorate dei figli scomparsi si radunano in continuazione nel cortile centrale della scuola, dove le candele non si spengono mai, in attesa del ritorno di questi ragazzi scomparsi con la complicità del governo.
I ritratti dei figli che non possono più abbracciare campeggiano su manifesti e coperte, e a osservare con attenzione le fotografie si nota la somiglianza commovente dei volti dei ragazzi “rubati” con quelli delle madri che ne chiedono il ritorno a casa, vivi.
All’indomani di indagini fallimentari e negligenti, il governo di Peña Nieto ha cercato di archiviare il caso sostenendo che gli studenti sarebbero stati aggrediti, sequestrati e bruciati in una discarica, senza presentare neppure una perizia legale a sostegno dell’ipotesi. Hanno preferito risolvere il caso basandosi su confessioni estorte torturando i presunti sequestratori e assassini, contenenti dichiarazioni contraddittorie o palesemente opposte. Fino a questo momento, il governo si è sempre rifiutato di indagare sul ruolo svolto nel massacro dalla polizia federale e dall’esercito, e questo malgrado esistano testimonianze che lo comprovano, compreso un video girato quella notte.
Il grido di ingiustizia che invade la scuola di Ayotzinapa è il grido delle migliaia di vittime che questi ultimi, violenti anni messicani hanno lasciato sul loro cammino, casi in gran parte rimasti impuniti. Ed é proprio questo grido, unito a quello delle vittime innocenti che continuano ad aumentare giorno dopo giorno, a ricordarci quale è la differenza tra illusione e dura realtà. Non esiste futuro, né riconciliazione, se a queste persone non sarà resa giustizia. (Traduzione di Matteo Colombo)