Filippo Facci, Libero 15/4/2015, 15 aprile 2015
CONTRADA, CONDANNA INIQUA (E SE NE ACCORGE ANCHE L’EUROPA)
Due cose fanno ridere. La prima è la Corte di Straburgo abbia spiegato - nei giorni scorsi - che il mitico «concorso esterno in associazione mafiosa» osse una legge non chiara «nel momento in cui Contrada avrebbe commesso i fatti», come a dire che poi la legge è diventata chiara: e non lo è, come tutti sanno. La seconda è che la Corte ha stabilito che il mancato rispetto dei principi di «non retroattività e di prevedibilità della legge penale» valga la bellezza di 10mila euro da rifondere appunto a Bruno Contrada, l’ex funzionario del Sisde condannato a dieci anni per mafia. La terza cosa non fa ridere per niente, ed è l’epopea di Contrada: arrestato nel Natale 1992, rimasto per 31 mesi e sette giorni in carcerazione preventiva, accusato da vari pentiti di aver passato informazioni a Cosa nostra e di aver favorito la fuga di Totò Riina, una cronologia insomma che parla da sola: 5 aprile 1996, condannato a dieci anni; 4 maggio 2001, assolto in Appello; 12 dicembre 2002, la Cassazione annulla l’assoluzione e ordina di rifare l’Appello; 25 febbraio 2006, nuova condanna a dieci anni in Appello; 10 maggio 2007, la Cassazione conferma la condanna; seguivano tre richieste di revisione variamente respinte o accettate e poi respinte di nuovo. Fanno un totale di 23 anni, questo per rendere giustizia a una persona che ne sta per compiere 84 ed è decisamente malandata di salute: da ricordare che il 28 dicembre 2007, ricoverato al reparto detenuti dell’Ospedale Cardarelli di Napoli, fu lo stesso Contrada a chiedere le dimissioni volontarie dall’ospedale per via delle condizioni inaccettabili del reparto, «un vero e proprio lager» come il suo legale ebbe a definirlo. Non a caso, l’anno scorso, Contrada vinse un altro ricorso presentato nel 2008: i giudici europei stabilirono che avrebbe dovuto beneficiare degli arresti domiciliari - visto il suo stato di salute - che tuttavia gli furono negati per nove mesi e sette domande: «Non c’è alcun dubbio», si lesse, «che Contrada fosse affetto da numerose patologie gravi... il suo stato di salute era incompatibile con il regime carcerario cui era sottoposto». In Italia non se n’erano accorti. Poi c’è un’altra cosa da ricordare: che il pubblico ministero che istruì il processo Contrada è il solito Antonio Ingroia, che poi ha cercato d’incastrare l’ex funzionario Sisde anche nell’impossibile mosaico della «trattativa», processo moribondo che viene tenuto in vita a Palermo con palese accanimento terapeutico. Contrada in ogni caso ha finito di scontare la sua pena nell’ottobre 2012. In compenso sappiamo che c’è un giudice a Strasburgo: ma serve a poco. La Convenzione europea dei diritti umani in pratica ha detto che Contrada è stato condannato in virtù di una «giurisprudenza posteriore all’epoca in cui lui avrebbe commesso i fatti» e cioè qualcosa che non c’era ancora. Ma a che serve? A poco, appunto: forse rinforzerà le motivazioni della quarta domanda di revisione del processo che andrà in udienza a Caltanissetta il 18 giugno. Non c’è da illudersi che la sentenza possa invece districare il ginepraio in cui resta avvolto il concorso esterno in associazione mafiosa, neppure previsto dal codice penale ma qualificato come un combinato tra il «concorso» previsto dall’articolo 110 e l’associazione mafiosa prevista dall’articolo 416 bis. Varie pronunce giurisprudenziali (dapprima ne era stata esclusa la configurabilità) sono sfociate in una pronuncia dalle Sezioni Unite della Cassazione nel 1994: si stabilì che l’imputato doveva essersi mostrato chiaramente disponibile a partecipare all’associazione e che avesse denotato una volontà di concorrere al programma delinquenziale. Resta il fatto, forse non casuale, che un «non-reato» del genere non esiste in nessun altro codice del mondo, e che Bruno Contrada, quando fu arrestato, non poteva certo conoscere i «principi molto rigorosi» con cui le Sezioni unite della stessa Suprema Corte hanno cercato più volte di disciplinarlo. Questo mostriciattolo giuridico dovrebbe realizzarsi, in teoria, quando una persona pur non inserita in una struttura mafiosa svolga un’attività anche di semplice intermediazione che sia utile a questa struttura; ergo, il concorrente esterno dovrebbe aver manifestato una chiara volontà di partecipare all’associazione nella consapevolezza di concorrere a programmi criminali. Il semplice supporto (agevolazione, fiancheggiamento, compartecipazione in un singolo reato) perciò non poteva e doveva bastare. La sentenza Mannino del 2005, in particolare, ha stabilito poi che il «partecipe» sia colui che risulti inserito organicamente in un’associazione mafiosa, «da intendersi non in senso statico, come mera acquisizione di uno status», ma con un «concreto, specifico, consapevole, volontario contributo». Tutte cose che è sempre parso molto difficile appiccicare alla condotta di Contrada, al di là della lotteria delle sentenze. Soprattutto a margine di un processo complicatissimo, infarcito - al solito - di pentiti che si contraddicono e di nessuna «prova» propriamente detta, solo indizi.