Alessia Marani, Il Messaggero 15/4/2015, 15 aprile 2015
FABIO, IL CELERINO DI OSTIA FRA SALUTI ROMANI E UN PASSATO ULTRAS
Il celerino ultrà dell’Ostia Mare: quando Fabio Tortosa aveva poco più che vent’anni e prestava servizio in polizia nel Nord Italia, appena tornava nella sua Ostia, il quartiere di Roma dov’è nato e cresciuto, subito andava al campo di via Amenduni a tifare i biancoviola con quelli del club 1989. La sciarpa sul volto, gli striscioni, i cori: qualche scintilla sugli spalti come spesso avviene nelle serie minori evitata per un soffio, poi la domenica in servizio negli stadi “veri” quelli del calcio con la “A” maiuscola.
Tortosa, classe 1971, il papà benzinaio, si diploma perito commerciale al Magellano. Ma le sue passioni fin da ragazzino sono la polizia e lo sport, ama il calcio, Ostia è nelle sue vene; diventerà dirigente della Federazione italiana di football americano e vicepresidente della squadra di football americano Lazio Marines. Tra le cose che ama su Facebook, prima di rimuovere ieri al volo la sua pagina, cita lo “ska italiano” e “Cuori neri”, il libro di Luca Telese che ripercorre le tragiche vicende delle 21 vittime “fasciste” degli Anni di piombo.
I RUOLI
Nel ’93 entra in polizia, dapprima è in Piemonte, alla Stradale di Alessandria poi finalmente approda al Reparto Mobile di Roma. Il suo è un carattere «schietto», «franco», dicono di lui i colleghi. Insomma, «uno che non le manda a dire» e per cui «il senso cameratesco delle sue parole che un po’ appartiene all’impostazione quasi militaresca del reparto, può non essere capito dall’esterno». «Ineccepibile sul lavoro, un padre affettuoso con le sue due bambine», ci tengono a precisare. Tanto da ricoprire incarichi e ruoli di responsabilità, in ufficio («da qualche anno non è più operativo e si occupa anche di coordinare il personale») come nel sindacato, dove è rappresentante della Consulta nazionale dei reparti mobili per la Consap, la Confederazione sindacale autonoma di polizia.
Ironia della sorte, la sua battaglia più grande è sempre stata quella di difendere il reparto e i colleghi «dagli attacchi mediatici e dalle strumentalizzazioni». Una specie di chiodo fisso dopo i fatti della Diaz, su cui battere all’indomani di ogni manifestazione, di ogni corteo in cui l’operato degli uomini del reparto finiva «nel tritacarne mediatico». E oggi in quel «tritacarne» è finito lui. Colpa di quelle poche righe postate sul suo profilo Fb: «Io sono uno degli 80 del VII nucleo. Io ero quella notte alla Diaz. Io ci rientrerei mille e mille volte», e giù una serie di commenti al vetriolo.
Quella notte del 21 luglio del 2001 dentro la scuola Diaz al G8 di Genova con il VII nucleo sperimentale, Tortosa se la porta dentro. La testimonianza al processo, poi l’archiviazione. Un suo contributo appare anche nel libro “Diaz” (Imprimatur, 2012) in cui dà una sua versione dei fatti, parlando di «retroscena» e di un’«altra verità».
Quando il 7 aprile la Corte di Strasburgo condanna l’Italia per tortura in relazione alle violenze alla Diaz, la ferita per Tortosa si riapre, la mente torna a 15 anni fa. E ora spiega: «Io scrivo che rientrerei mille e mille volte dentro la Diaz perché noi del VII non abbiamo fatto niente. Ci sono persone che hanno fatto qualcosa per cui il VII è stato incolpato, per cui non ho nulla da nascondere». Ieri sera Tortosa è andato al lavoro, era di turno: «Potete immaginare come sto». Forse l’ultima notte al Reparto Mobile.