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 2015  aprile 15 Mercoledì calendario

Notizie tratte da: Giovanna du Lac Capet, Emilio Riva, l’ultimo uomo d’acciaio, Mondadori 2015, pp

Notizie tratte da: Giovanna du Lac Capet, Emilio Riva, l’ultimo uomo d’acciaio, Mondadori 2015, pp. 192, 20 euro.

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• «Nato a Milano da una famiglia non agiata, Emilio si diploma ragioniere alle scuole serali. Inizia un’attività di compravendita di rottami e nel 1954 apre il suo primo stabilimento a Caronno Pertusella. Da quel momento, la sua attività conosce una continua espansione, con stabilimenti in Italia e all’estero. Incontra Giovanna in Eritrea, dove lei è cresciuta» (dalla presentazione del libro). Lei, Giovanna du Lac Capet, rimarrà al suo fianco per oltre quarant’anni, fino alla morte di Riva, occorsa a quasi ottantotto anni il 29 aprile 2014.

• «Emilio l’avevo conosciuto in Africa, quando avevo solo 19 anni. Di lì a poco avrei abbandonato la terra che amavo per volare in Belgio, dove mi sarei sposata con un uomo conosciuto in Africa. Il primo contatto con Emilio non l’avevo neppure trovato gradevole. Mi fu presentato da un amico di mio padre. Una mattina dovevamo andare tutti a Massaua, in Eritrea, per prendere i due sambuchi (barche piuttosto simili al caicco turco) che ci avrebbero portati alle isole Dahlak. La jeep era già piena. “Dove mi siedo?” dissi prima di salire anch’io. “Sulle mie gambe, bella signorina” esclamò una voce che era già a bordo. Risposi con uno sguardo che aveva solo voglia di incenerire, gli voltai le spalle e replicai: “Piuttosto siedo dietro, sulle casse d’acqua”. Pensai in quell’istante che fosse tutto vero ciò che si diceva dei milanesi, che siano cioè dei bauscia, un po’ fanfaroni e un po’ arroganti. Non sapevo che il destino già allora giocasse con me. (…) Quell’episodio era il primo capitolo della storia in cui mi sarei ritrovata protagonista».

• «Dopo quel primo contatto in Africa quando lui si era rivolto a me in modo tanto sfacciato, di Emilio Riva non sentii più parlare per ben quattro anni, durante i quali intanto mi ero sposata e avevo avuto un bimbo meraviglioso». Tornata per un mese in Africa col bambino, apprese da un amico di famiglia, Domenico Stella, che la moglie di Riva era morta un anno prima in un incidente stradale, e lui era quindi rimasto solo con quattro figli da crescere. Lo stesso Stella le aveva poi chiesto di portare a Riva, al suo ritorno in Italia, un pacchetto contenente del berberè, particolare miscela di spezie tipica della cucina eritrea. Una volta giunta a Piacenza, dove viveva col marito, «decisi quindi di telefonare a Emilio in ufficio. (…) “Pronto!” Aveva una voce profonda, e a suo modo direi anche sensuale. “Buongiorno,” esclamai “sono Giovanna du Lac, si ricorda di me?” “Certo! Come sta? È un piacere sentirla. È qui a Milano? Ci possiamo vedere?” Quel suo interessamento incalzante mi spiazzò per un attimo. “No, sono a Piacenza. Volevo dirle che Domenico mi ha dato un pacchetto da consegnarle. Ne approfitto per farle anche le mie congratulazioni”. Dovevo dire “condoglianze” e invece dissi proprio “congratulazioni”. Volevo sprofondare, la mia era una gaffe stratosferica. Lui rispose come niente fosse: “Grazie!”. Non ho mai saputo se Emilio ebbe pietà di me o nemmeno capì ciò che gli avevo detto, non ho mai trovato il coraggio per chiederglielo: me ne vergognavo troppo».

• «Lo incontrai, e fu così che iniziò la mia storia con lui. (…) Ero sposata, è vero, ma in quel periodo ero spesso sola, così cominciai a vedere Emilio con frequenza sempre maggiore. Fino a quando fui esausta, soprattutto perché mi sentivo colpevole: scappai in Africa dai miei, mollando da un istante all’altro marito e amante. Emilio venne a cercarmi, entrambi eravamo presi dal fuoco della passione. Decisi perciò di separarmi definitivamente da mio marito e di andare a vivere con lui. (…) Non avevo ancora 24 anni, lui ne aveva ventidue più di me, ma niente e nessuno mi avrebbero convinta che questa differenza di età rappresentasse una distanza incolmabile. Ero ormai sicura in modo definitivo che fosse l’uomo per me. La sola cosa che contava veramente era che ne ero follemente innamorata».

• «Già nell’aprile 1973 andai a vivere con lui a Milano. Ancora oggi credo che si tratti della scelta più avventata che Emilio abbia fatto nella sua vita. Eravamo molto innamorati, malgrado fossimo rappresentanti di due mondi lontanissimi. Io provenivo da una famiglia dal cognome altisonante, posso anche dire da quella nobiltà del sangue che viveva con un certo disinteresse verso il denaro. Lui era invece l’esempio più fulgido del vero self-made man. Se avessimo dovuto rinfacciarci le nostre rispettive origini, io avrei detto a Emilio che per me era un arricchito, lui mi avrebbe detto che io per lui ero una parassita. (…) Forse proprio questa diversità è stata la causa e la forza vera della reciproca attrazione che ci ha tenuti insieme. Tutto il resto, in fondo, non contava più».

• «Ma chi è veramente Emilio Riva? Forse non lo sa nessuno, e forse nemmeno io, che pure gli sono stata accanto per più di quarant’anni. Ma non è facile conoscere una persona, soprattutto quando questa ti impedisce in modo sistematico di entrare nella sua sfera privata, nel profondo della sua intimità. Emilio è stato abituato da sempre a fare tutto da solo, senza mai dare spiegazioni a nessuno. Quando, sfinita da un litigio, gli chiedevo urlando “Si può sapere perché ti comporti così?”, “Non lo so,” rispondeva quasi sempre “ma penso che sia giusto fare in questa maniera. Do retta al mio istinto, e quando non lo faccio sbaglio”. Immancabilmente, le nostre dispute finivano prima che io riuscissi a capire quale fosse la molla maledetta che muove il suo istinto».

• «Quando viene arrestato [il 26 luglio 2012, con l’accusa di disastro ambientale provocato dalle sue acciaierie Ilva di Taranto – ndr], Emilio è certo che nel giro di una settimana sarà nuovamente libero. I suoi avvocati gli hanno assicurato che finirà così, e che tutto si chiuderà entro pochi giorni. In realtà, il 7 agosto successivo, il tribunale di Taranto conferma l’ordinanza di misura cautelare nei suoi confronti. Lui è un combattente, non si arrende così. Nella sua testa si fa strada una strategia. “Roberto, tieniti pronto, si va in macchina a Taranto. Voglio andare nella mia fabbrica, dai miei operai”. È ancora una volta l’Emilio che conosco, quello nato per combattere, un uomo con un istinto che potrà sorprendere gli altri, non me. (…) Naturalmente, quando dice al suo autista che si andrà a Taranto, Emilio sa benissimo che ciò vorrebbe dire violare gli arresti domiciliari. Così, stavolta, sceglie di giocare a carte scoperte. E avverte gli avvocati della mossa che sta per mettere in atto. Chiede quali esiti potrebbe avere la sua partenza. Il “no” che giunge dai legali è categorico. Potrebbe non essere il solo a pagare le conseguenze di un gesto così eclatante. So che sarebbe andato anche a morire sulle barricate tarantine coi suoi operai. Ma sono state le ripercussioni che temeva, il timore che qualcosa ricadesse sulla famiglia, a tenerlo a freno. Nient’altro che quello. Si è fermato, e per questo da quel giorno ha cominciato a morire. Forse ha capito che la sua stagione ora si stava chiudendo davvero. (…) Il suo fisico allora crolla, cede, non regge. Pochi giorni dopo c’è una febbre altissima a devastarlo. In quei dieci giorni successivi, Emilio Riva invecchia di dieci anni. Se il vecchio leone fosse andato a Taranto, forse oggi racconteremmo una storia molto diversa. Forse oggi non ci troveremmo tutti in un cul-de-sac».

• Quando Giovanna du Lac lo conosce, «Emilio è il riassunto umano della concretezza. È presuntuoso, spesso arrogante, sempre sicuro di sé, molto sbrigativo e pragmatico, capace di trasformare in affari tutto ciò che mette nel mirino. Devo ammettere che questo mi colpisce, anzi riesce proprio ad affascinarmi. (…) Probabilmente è la mia cultura così piena d’America che mi fa apprezzare questo suo talento, la sua capacità di vincere ogni sfida, di moltiplicare denaro e successi industriali ogni volta che si muove».

• «Mi sono accorta che soprattutto in Italia il denaro genera spesso grande diffidenza. (…) Già nel 1975, quando arrivai a Milano, mi accorsi che qualcosa mi disturbava profondamente. Nella mia logica è assurdo avere i soldi e doversene vergognare. Sempre nella mia logica, tra l’altro, chi ha i soldi deve pure preoccuparsi di spenderli, deve rimetterli in circolo. (…) Per la verità, nella testa di uno come Emilio non è proprio in questo modo che deve circolare. Lui dà lavoro a decine di migliaia di dipendenti e, come ogni grosso industriale, spende cifre enormi per gli stipendi a chi lavora per lui, per l’acquisto di prodotti industriali e, quando capita, anche per l’acquisizione di nuovi stabilimenti. Se però parliamo di spesa per consumo, Emilio Riva si sarebbe fermato per sé a tre paia di scarpe e un paio di vestiti al massimo. Cibo a parte, il resto gli sembrava denaro buttato. Meno male che esisto io e contribuisco, a nome di entrambi, alla vivacità dell’economia italiana».

• «I soldi si fanno uno sull’altro. Mille lire diventano duemila, duemila quattromila e poi vai avanti. Così ha sempre ripetuto. Lui credeva nel lavoro, in nient’altro che il lavoro. Credeva nella fatica, la fatica quotidiana. E ce l’ha sempre messa, anche quando è diventato un padrone, anche quando poteva riposarsi e godersi i frutti dei suoi successi. C’è una canzone bellissima di Yves Montand, Planter Café, nella quale si racconta il lavoro fisico, la fatica che avverti nella schiena quando sei costretto a piegarla continuamente. È l’idea di Emilio. Non esiste un lavoro, nemmeno uno, in cui non debba metterci la tua fatica. Anche se scrivi un libro, se fai un ricamo o suoni uno strumento o pulisci un pavimento».

• Inizialmente accolta con grande freddezza dai quattro figli di Riva e poi gradualmente accettata, «con gli anni, per non creare ulteriori tensioni nel gruppo, mi accontentai di essere una moglie di fatto, fino ad accettare l’idea che non sarei mai diventata moglie legalmente. Avrei rappresentato un nuovo problema per la spartizione dell’impero e questo frenava la mia piccola battaglia personale, la battaglia che inizialmente avevo condotto per essere anche formalmente la signora di Emilio. In effetti, abbiamo sempre vissuto e siamo sempre stati come una coppia sposata. Ma Emilio aveva già escluso le figlie femmine dalla gestione dell’impero, e io sarei stata l’ennesimo ostacolo nel rapporto col suo vero grande amore, le fabbriche. C’era poi un secondo aspetto, un’altra verità. Quella che forse mi ha davvero spinta a desistere. Emilio era ossessionato dal pensiero che, appena fossi diventata economicamente indipendente, l’avrei subito lasciato. Pensiero di uno squallore atroce. Anche qui, però, ai miei occhi restava coerente con le sue convinzioni: col denaro si compra tutto. Ne ero consapevole, ma era un aspetto che mi faceva comunque avvertire il suo amore e il suo bisogno di me. Devo ammettere che si trattava di qualcosa che finiva col gratificarmi moltissimo».

• «Poco prima che morisse, una mattina Emilio mi chiese di chiamare padre Diodeo, un missionario che avevamo conosciuto in Africa anni prima. Voleva sposarmi lì, su quel letto d’ospedale da cui sapeva che non si sarebbe più rialzato. È una storia che non ho mai raccontato, nemmeno ai miei figli. Il motivo è che l’ho trattata come una faccenda che continuava a riguardare solo lui e me. So che a fatica ricacciai le lacrime in gola. “Amore, sta’ tranquillo, è già tutto a posto. Ci siamo sposati in Africa anni fa, è inutile rifarlo”. Il suo sospiro di sollievo fu il traguardo che la mia bugia intendeva raggiungere: adesso Emilio aveva finalmente sistemato anche me, e con la coscienza ripulita poteva andarsene in pace. Io quel giorno avevo celebrato il mio “non-matrimonio”. E mi accorgevo che mi bastava».

• «Col tempo imparai a convivere anche coi suoi figli, e ad apprezzarli. Di ognuno mi piaceva qualcosa, oggi mi accorgo di esserci anche affezionata. (…) Del resto, ognuno di loro, appena aveva finito il liceo, era subito stato chiamato a frequentare l’università della gavetta aziendale. Non avevano vissuto mai da figli di papà, e la vita non era mai facilissima nemmeno per loro. (…) Intendiamoci, so bene che avevano la fortuna di ritrovarsi a svolgere un lavoro che era certamente molto ben retribuito, ma il prezzo di tutto ciò è che era mancato il percorso classico: lo studio, il divertimento, le nuove amicizie, soprattutto la spensieratezza di poter sbagliare senza doverne pagare conseguenze troppo dure. A loro, devo riconoscere anche un altro aspetto di enorme importanza. Da solo, Emilio non avrebbe mai potuto creare l’impero che ha messo in piedi. A ogni generale occorrono sempre dei buoni ufficiali, e bisogna ammettere che ognuno dei suoi figli si è dimostrato all’altezza del compito».

• Negli anni Settanta, quando scoppia la stagione dei sequestri, la polizia avverte Riva che la sua famiglia è annoverata tra quelle a rischio. L’imprenditore decide quindi di trasferire la compagna e i suoi tre figli nel Principato di Monaco. «In quella fase, la mia vita si rimette in movimento. Emilio resta a Milano col suo lavoro, i miei figli e io riorganizziamo totalmente la nostra esistenza quotidiana in un nuovo paese. Anche stavolta, comportandosi come un vero comandante, lui non abbandona la sua nave. E la sua nave è la fabbrica. Si assicura soltanto che i suoi figli e io siamo al riparo dai pericoli e da quella stagione di allarme che si respira in Italia».

• «Per non rischiare una fine da cornuta e mazziata, faccio dei blitz una volta a settimana a Milano. Così, giusto per controllarlo. Sono molto gelosa, in quegli anni. (…) Più o meno in quel periodo siamo invitati a una cena e, naturalmente, la sorte vuole che io debba stare seduta lontano da Emilio, accanto al quale c’è una principessa romana che se ne infischia della mia presenza e che spudoratamente civetta con lui. (…) Dopo un po’ sento di essere ormai sempre più seccata dalle avance piuttosto evidenti della principessa, così decido di passare al contrattacco. Mi alzo dal mio tavolo, reggendo un bicchiere di vino rosso che strappo letteralmente dalle mani del mio vicino a tavola. Vado verso il tavolo di Emilio e mi avvicino a lui. “Tutto bene, tesoro?” Intanto, senza battere ciglio, senza scompormi per niente, verso l’intero bicchiere di vino sull’abito della principessa che è lì accanto. Appena si rende conto che il suo abito si sta inzuppando completamente di buon vino, lei schizza subito in piedi: “Ma che sta facendo?”. “Oh, deve scusarmi,” le rispondo “purtroppo devo averle rovinato il vestito. Mi faccia sapere cosa le devo per le spese di lavanderia. Per il resto, spero di averle soprattutto rovinato la serata”. Non rivolgo mai lo sguardo verso i sorrisi abbastanza imbarazzati dei presenti, ma riesco comunque a immaginarli, come se li vedessi a uno a uno. Non perdo mai la calma e conservo un lieve sorriso sulle labbra. Dopodiché, reggendo adesso un bicchiere vuoto, torno lentamente al mio posto. “Mi perdoni” dico al mio vicino mentre mi risiedo “ma mi si è rovesciato tutto”».

• «In seguito la principessa è diventata una mia amica carissima. Quando eravamo insieme e incontrava qualcuno di sua conoscenza, salutava, poi aggiungeva: “Le presento Santuzza”. Santuzza naturalmente ero io. E io adoro le persone che hanno spirito. Lei aveva ormai acquisito ogni diritto a prendermi in giro. E addirittura di scherzare con Emilio, senza nemmeno rischiare che le cavassi gli occhi».

• «Quando lo incontro in Africa, siamo nel dicembre 1967. Emilio nel suo ambiente è già un uomo famoso. Allo stesso imperatore Hailé Selassié è da qualche tempo arrivata la voce che un industriale italiano del ferro è il solo in grado di mettere in funzione l’acciaieria di Akaki, che dovrebbe sorgere vicino a Addis Abeba. (…) Nel giorno in cui un funzionario del ministero etiope lo contatta, Emilio risponde alla richiesta adottando il suo stile tipico:
“Pagatemi il biglietto aereo di andata e ritorno e io vi raggiungo. Altrimenti, non se ne parla”. È il suo modo per dire: “Vi aiuto, e in questa storia non voglio nemmeno guadagnarci, ma sia chiaro che non voglio perderci. Nemmeno un centesimo”. Così fece. Appena i biglietti giunsero sulla scrivania, lui volò verso Addis Abeba». Dopo un sopralluogo nell’acciaieria insieme ai suoi tecnici, Riva si recò al palazzo imperiale, dove «trovò il negus coi suoi due chihuahua accomodati sui loro rispettivi sofà. “Sua Maestà, se lei mi dà carta bianca, entro due anni la vostra acciaieria di Akaki avrà la sua prima colata”. Emilio non poteva saperlo, ma il sorriso accogliente dell’imperatore proveniva da un segnale invisibile agli altri, ma del quale Hailé Selassié si fidava ciecamente. I suoi cagnolini, quando Emilio era stato introdotto nel salone, non avevano abbaiato, anzi, erano sembrati particolarmente a loro agio con l’ospite italiano. Questo significava che l’imperatore aveva ricevuto garanzie solidissime su quest’uomo, sulle sue capacità e su quanto credito meritasse la sua parola. Con quest’ultima informazione offerta dai chihuahua, l’affare con Riva era fatto».

• «Un giorno ho appreso all’improvviso che avevo avuto al mio fianco un mostro da sbattere in prima pagina, e un padrone delle ferriere che con la sua azienda sparge veleni dove può. L’ho appreso dalla tv. Naturalmente, a differenza di un qualsiasi lettore di giornali, o dello spettatore di un telegiornale, sono coinvolta di persona. Le domande che mi assalgono sono diverse. Sarà tutto vero? Ma cosa ha fatto Emilio? Quest’uomo chi è in realtà? Ed è stato davvero un impulso improvviso quello che mi ha messo addosso l’esigenza di capire. (…) Ancora adesso continuo ad avere la sensazione che tutto il caos scoppiato attorno all’Ilva fosse evitabile, anzi evitabilissimo. Purtroppo, a causa dell’estrema riservatezza della famiglia, e quindi del gruppo, c’è sempre stata una enorme difficoltà di comunicazione. Bene, nessuno mi toglie dalla testa che questa difficoltà, quell’incapacità di parlare, quella riluttanza a comunicare alla fine siano state un elemento decisivo dei loro guai e del modo in cui questa bruttissima storia è stata interpretata».

• «Alcuni mesi prima che scoppiasse la tempesta sul gruppo, Emilio decise di andare di persona in procura. Sì, proprio la procura di Taranto. Mica per spiegarsi, né per aprire coi giudici quel dialogo che forse avrebbe scritto un finale diverso a questa intera storia. No, lui ci andò per alzare la voce, per segnalare che da anni lo stabilimento subiva furti continui, furti che venivano regolarmente denunciati, e dei quali tuttavia lì dentro nessuno si curava. Buttò sulla scrivania del capo della procura un grosso fascicolo e sbottò: “Che mi dite di questi delinquenti che mi rubano un sacco di soldi? Risolvete questi casi, invece di continuare a rompere le scatole a noi dell’acciaieria, noi che la legge la rispettiamo”. Poteva esserci un modo peggiore per gestire il rapporto con la procura e coi giudici? Ma lui era così, e in quella circostanza si comportò in questa maniera semplicemente perché era sicuro delle sue ragioni. (…) Solo che neppure lui poteva immaginare quanto alto sarebbe stato il prezzo di quella scelta. Volle alzare la voce anche in faccia ai giudici per denunciare i furti all’Ilva, e fu una scelta che avrebbe pagato con la sua stessa vita».

• «Il 26 luglio 2012 il giudice per le indagini preliminari della procura di Taranto, Patrizia Todisco, emette un’ordinanza con la quale dispone il sequestro di sei impianti dell’area a caldo dell’Ilva. L’accusa contenuta nel dispositivo parla di disastro ambientale. Per otto alti dirigenti dello stabilimento, e tra questi ci sono Emilio Riva e suo figlio Nicola, scattano gli arresti. (…) Intanto i dipendenti vanno in assemblea e decidono di scioperare a oltranza. Parliamo di circa dodicimila operai, che improvvisamente vedono messo a rischio il proprio posto di lavoro. La tensione cresce di ora in ora. (…) Il giorno successivo, 27 luglio 2012, esplode definitivamente in città la rabbia per il timore di perdere il lavoro. (…) L’allora ministro dell’Ambiente, Corrado Clini, chiarisce che l’Ilva può proseguire con la sua attività di produzione di acciaio, a patto che nei successivi quattro anni si allinei agli standard richiesti dall’Europa entro il 2016. (…) Il 29 luglio si fa sentire anche il papa da piazza San Pietro. Benedetto XVI dice di essere con la sua preghiera accanto ai lavoratori dell’Ilva. Esorta ciascuno dei protagonisti di questa vicenda a usare un pieno senso di responsabilità. Il suo augurio è che le istituzioni trovino una soluzione equilibrata, che tenga conto del diritto alla salute e del diritto al lavoro. Il 30 luglio è la data in cui il sequestro diventa operativo. (…) Interviene con una dichiarazione anche Giorgio Napolitano. Le istituzioni sono in imbarazzo, faticano a capire e a prendere posizione. Napolitano dice di sperare in una soluzione in tempi brevi, una soluzione che comunque garantisca continuità alla produzione di acciaio dell’Ilva. Il fermento tra i lavoratori continua a crescere».

• «Cinque giornate. Accadrà ancora molto altro, per la verità, come la conferma degli arresti per Emilio Riva e per altri dirigenti. Ma i giorni bollenti sono soprattutto cinque, quelli che vanno dal 26 al 30 luglio 2012. Sono i giorni della follia e del disordine, giorni in cui si scrive un romanzo incomprensibile di cui nessuno capisce il senso. Non si sa cosa davvero stia avvenendo e come la vicenda stia evolvendo. Ma è chiaro che ogni sviluppo della sceneggiatura sia interamente nelle mani della procura di Taranto. I lavoratori temono per il loro lavoro, sentono improvvisamente parlare di inquinamento e morti. Sono i giorni dei cortei e delle istituzioni che non sanno più cosa fare. Emilio Riva ha poco spazio per pensare. I giudici decidono immediatamente che il suo destino è in un provvedimento di arresti domiciliari».

• «“Ho sbagliato a non chiudere subito. Dovevo avere più coraggio e chiudere l’Ilva immediatamente”. Ho sentito più di una volta Emilio pronunciare questa frase nei mesi successivi. Nemmeno lui poteva immaginare cosa stesse accadendo. (…) Decidere di chiudere l’Ilva per provocare un autentico caos, per costringere il governo a reagire, per conquistarsi una posizione negoziale più forte è una soluzione che non deve essergli piaciuta. Sapeva bene, lo sapeva fin dal primo istante, che chiudere era la via d’uscita traumatica, la scelta forte, e sapeva che proprio quella scelta poteva procurargli dei vantaggi. Ma sapeva pure che il prezzo da pagare era il licenziamento di dodicimila lavoratori, la strada per dodicimila famiglie. Nemmeno la sua devozione per gli affari è bastata a spingerlo fin lì. Ha preferito restare disorientato, ha preferito per una volta non capire, lasciandosi travolgere da quel che accadeva e dall’atmosfera di follia di quei cinque maledetti giorni».

• «Per anni, e fino a nemmeno troppo tempo fa, il suo silenzio ostinato era interpretato sempre e soltanto come un merito, come una virtù rara. Per i giornali, Emilio era un industriale schivo e operoso, uno che non potevi mai fotografare a bordo di uno yacht lussuoso, ma soltanto durante il lavoro, alla guida degli altiforni delle sue acciaierie. In più, Emilio ha rappresentato uno dei pochissimi imprenditori italiani capaci di sbarcare all’estero, di investire in paesi di grandi tradizioni industriali, e addirittura di dare lavoro anche alla manodopera francese e tedesca. È cosa rarissima che un imprenditore italiano sia stimato all’estero. Con lui, tutto questo non solo è avvenuto, ma si è pure verificato senza alcuno squillo di fanfara. Emilio ha continuato a lavorare e investire restando nell’ombra. Volete che tutto questo non fosse visto come un merito singolare e straordinario? Ma dal giorno in cui scoppia il caso Ilva, tutto si capovolge. Il silenzio di Emilio diventa improvvisamente merce di cui sospettare, la sua scelta di parlare pochissimo, o peggio di non parlare affatto, è giudicata come una evidente ammissione di colpa. Tutt’a un tratto, l’industriale schivo e operoso si è trasformato in un orco che non parla, che in realtà se ne sta zitto chiuso nel suo cinismo, rintanato chissà dove, perché ha solo bisogno del buio per contare i miliardi. Volete che tutto questo non esiga un’immediata condanna?».

• «La libertà di un uomo è una questione serissima. Lo è sempre. Per un uomo di 88 anni, un giorno vale un mese, un mese vale un anno, e forse anche molto di più. Emilio è stato in attesa di un giudizio, e intanto ha vissuto per lungo tempo la sua condanna, sentenziata solo dalle convinzioni di una procura. Qualcuno ha potuto sottrargli la libertà, nessuno più potrà restituirgli il suo tempo perduto, nessuno potrà mai riscattarlo. Se risulterà innocente, non sarà restato nemmeno il tempo per chiedergli semplicemente scusa. Il fisico era già minato di suo, ed è stato sottoposto per tanti mesi a una specie di supplizio, a uno stress continuo. E il cancro, che alla sua età doveva essere più lento, ha preso il sopravvento lasciandolo sfinito e annientato dal dolore. Gli si è lasciato solo il tempo per chiedersi ogni giorno: “Ma cosa mi hanno fatto e perché?”. Nemmeno oggi saprei rispondergli».

• «Solo un istante prima che morisse, Emilio Riva ha tirato fuori le parole che ha tenuto dentro per due anni. Era ricoverato, col volto segnato di un malato terminale prossimo alla fine. “Mi hanno ammazzato. Mi stanno portando via la mia fabbrica. Chiama la polizia!” Era straziante. Cercavo di calmarlo e il risultato era la sua rabbia che cresceva. Mentre il corpo lo stava abbandonando, la sua mente era solo lì, nella sua fabbrica che stavano ammazzando con lui».

• «Emilio Riva era l’uomo più geloso del mondo della propria privacy. Non credo sia mai esistito sul pianeta un industriale tanto potente e insieme così sconosciuto. Le interviste che ha concesso in quarant’anni si contano sulle dita di una mano sola. E anche in quei casi rarissimi in cui suo malgrado si è offerto e ha accettato di rispondere alle domande di un giornalista, ha sempre affrontato il compito come se si trattasse di un obbligo, del quale avrebbe volentieri fatto a meno. Concedeva risposte brevi, conservava un atteggiamento non troppo socievole e, soprattutto, nascondeva sempre le sue vere emozioni e ogni tipo di risvolto personale. Ricordo che durante il periodo dei rapimenti molti personaggi avevano la psicosi del sequestro e andavano in giro con scorte armate. Mentre Emilio, che nel mirino dei rapitori c’era davvero, andava in giro in auto tutto solo, spesso senza autista. Un incosciente? Lui era così».

• «So bene che i motivi intervenuti in una questione tanto complessa sono moltissimi, ma alla fine sono giunta alla conclusione che due fattori hanno pesato più di tutti gli altri, e che più degli altri hanno contribuito al caos incontrollato e burrascoso che ne è venuto fuori. (…) Primo: l’assenza di uno Stato forte. Per un verso, è accaduto che si sia continuamente balbettato negli interventi, il governo mostrava soprattutto il timore di prendere posizione, di decidere da quale parte stesse il bene del paese. Per l’altro, quando anche si è tentato di decidere, ne è nato un conflitto con la procura che ha messo a nudo in misura ancora più spietata la debolezza del governo e dello Stato di fronte a un caso che ormai proseguiva da solo la sua marcia folle. Dopodiché, si è andati avanti con la scelta di rinunciare a ogni principio di democrazia, commissariando l’Ilva e spostando il problema a un futuro che oggi è sotto i nostri occhi e che resta ancora irrisolto. Secondo: la completa e ostinata chiusura della famiglia Riva. È un fattore meno evidente, ma che in definitiva ha pesato almeno quanto il primo. Soprattutto nei giorni del grande caos, ma anche successivamente e nel corso di questi anni, la famiglia ha subito attacchi continui e violentissimi. E la reazione è stata sempre e solo una specie di silenzio-assenso. Ma anche qui, come ogni tanto accade, i fatti non sono quelli che appaiono. Privatamente, i Riva sanno di avere mille ragioni e sanno benissimo di non essere gli avvelenatori che il piccolo mondo italiano ha voluto creare. Pubblicamente, però, continuano a tacere».

• «Il teorema dell’Ilva colpevole di tutto non è affatto dimostrato. Anzi, ci sono autorevolissimi pareri che restano ben saldi sul fronte opposto e che contestano scientificamente i dati che attribuiscono all’acciaieria tarantina quelle terribili responsabilità. (…) Del resto, pochi o nessuno raccontano che già nel 2012 fu presentata un’indagine condotta in collaborazione con l’autorevolissimo Istituto nazionale tumori IRCCS “Fondazione Pascale” di Napoli. Ebbene, questo studio evidenziava che esisteva a Taranto una mortalità per tumori esattamente uguale alla media delle altre province del Sud dell’Italia».

• Emilio Riva, nato nel 1926 «a Milano, da una famiglia non agiata, fin da piccolo vuole qualcosa di meglio, e cresce con l’ambizione di avere di più, non sa mai accontentarsi di ciò che ha. Si capisce già allora che è una persona speciale, diversa, uno con qualcosa dentro che lo porterà lontano».

• «Quando compie 17 anni, Emilio non riesce a scampare all’arruolamento tra i repubblichini di Salò. Ma a lui quel percorso non piace per niente, così appena gli è possibile scappa a Rho, dove abita la fidanzatina dell’epoca. Colei che lo aiuterà a prendere il diploma di ragioniere alle scuole serali. Ma più che la ragazza può la fame, e a Rho in quei giorni si mangia davvero poco. Anzi, quasi niente. Così torna sui suoi passi e si consegna al maresciallo tedesco, che gli assegna l’incarico di approvvigionatore dell’esercito. Non poteva andargli meglio. Non solo adesso ha cibo a sufficienza per sfamarsi, ma riesce a procurarne quanto basta anche alla sua famiglia. Va ogni giorno a Milano e fischia sotto la finestra di casa. Quando la madre cala giù dalla finestra il cestino, lui furtivamente lo riempie di pietanze sgraffignate all’esercito».

• «Con Emilio, quel sottufficiale è sempre disposto a chiudere un occhio, soprattutto perché si rende ormai conto che le truppe tedesche in Italia sono destinate a durare pochissimo. “Io adesso aiuta te. Quando Germania kaputt, tu aiuta me”. Per questo, appena la guerra è finita, Emilio accetta di tenerlo nascosto in casa propria per sei mesi. Il maresciallo lascia il piccolo appartamento dei Riva solo quando le acque sembrano finalmente più calme, e a quel punto può ripartire per la Germania senza correre grossi rischi per la sua pelle».

• «Messo finalmente da parte un po’ di denaro, si attivò per recuperare relitti abbandonati lungo le spiagge della Campania, per poi rivenderli alle grandi acciaierie bresciane su al Nord. Un giorno si ritrova però al porto di Ancona, dove compra dagli americani una nave Liberty, che stiva diecimila tonnellate. Una volta che se ne impadronisce, scopre che la nave è piena di fusti di benzina. È un affare enorme per l’epoca, tanto che grazie a quell’acquisto adesso comincia veramente a disporre di quantità rilevanti di denaro. Può insomma inseguire il sogno di mettersi in proprio».

• «Sono certa che noi siamo il nostro passato, malgrado i piccoli continui cambiamenti che viviamo e che incidono sulle nostre scelte. Le ombre di ciò che siamo stati e ciò che abbiamo vissuto continuano a inseguirci. Mi accorsi anni fa che Emilio non mangiava mai la frutta. Gliene chiesi il motivo. “Non ti piace?” “Mi piace, la ragione per cui non la mangio volentieri è un’altra”. “Cioè?” “Avevo 8 o 9 anni e un giorno entrai in cucina per mangiare una mela che era sul tavolo e che avevo adocchiato da un po’. Mia madre mi bloccò subito: ‘Ce n’è una sola, dividila con tuo fratello’. Non mangiavamo troppo spesso, avevo fame, ma non la divisi, gliela diedi tutta e andai via. Da allora, la frutta continua a ricordarmi quell’episodio”. Sorrisi. E pensai proprio a quelle ombre. Alcune inseguivano anche Emilio».

• «Nel ’54, dopo aver continuato per anni a comprare e vendere rottami, riesce a costruirsi il suo primo vero stabilimento a Caronno Pertusella, dove subito inizierà a dare del filo da torcere ai vecchi siderurgici. Sempre in quel periodo, allestisce anche la prima mensa con un fornelletto a gas. Accanto al suo ufficio, aveva fatto allestire una piccola cameretta con un letto e una poltrona. Gli occorreva per riposare nell’orario di intervallo, subito dopo il pasto. A lui per ricaricarsi non serviva altro».

• «Nei primi anni Sessanta, per risparmiare tempo era costretto a mangiare alla trattoria di fronte alla fabbrica. Ma i continui bruciori di stomaco e le frequenti dissenterie lo convinsero a installare un fornellino all’ultimo piano, in modo da mandar giù quando voleva un piatto di spaghetti conditi con un sugo fatto al volo che naturalmente preparava lui stesso. Con gli anni, quel fornelletto è sparito e sono via via apparse vere strutture da cucina, con in più cuochi e camerieri che facevano invidia a un ristorante stellato. Per Emilio è proprio vero che il cibo e la sua preparazione sono cultura. Cultura alla quale ha sempre dedicato tantissimo del suo tempo libero».

• «“A cucinare bene e a cucinare male ci impieghi lo stesso tempo” diceva spesso. Perciò, la differenza non è nella quantità di minuti impiegati, ma nella mano di chi si dedica ai piatti e nella qualità degli ingredienti, cioè nella bontà delle materie prime. Ecco perché all’olio di Taranto, come ad altri prodotti simili, riservava tanta attenzione come alle arance e al capretto della Puglia, che diventeranno per tutti noi della famiglia una leccornia abituale. A Natale, Emilio regalava regolarmente lattine d’olio prodotto nei terreni dell’Ilva, con etichetta Ilva, la cui prima spremitura era riservata a un numero ristrettissimo di amici e parenti. Il capretto tarantino era invece uno dei due protagonisti della nostra tavola durante il pranzo di Pasqua, l’altro era il capretto che veniva dalla Val Camonica. E ogni volta ai commensali si poneva il quesito su quale fosse il migliore. A Emilio si riservava il ruolo naturale di giudice unico e supremo del verdetto finale».

• «Alle impiegate in ufficio impone a tutte la divisa: gonna scura e camicia bianca che loro stesse hanno scelto liberamente consultandosi. Lui si è solo premurato di affidare il lavoro a un sarto. Non gli sta tanto a cuore di quale divisa si tratti, ma tiene al fatto che siano tutte uguali. Perché, come spiega lui: “Anche le hostess indossano una divisa. Non mi piace vedere sfilate di abiti e colori diversi in un ufficio nel quale tutti fanno lo stesso lavoro”».

• «È ormai noto che moltissimi stranieri evitano di investire in Italia per la scarsa fiducia che hanno nella nostra giustizia. Secondo i dati 2014 di Doing Business, l’Italia è centotreesima nella classifica mondiale che misura l’efficienza della giustizia civile. Sapete questo cosa vuol dire? Vuol dire che dalle nostre parti un processo civile è una specie di odissea, un viaggio interminabile che dura mediamente 1185 giorni. Per capirci, a Singapore dura in media 150 giorni, in Nuova Zelanda 300. Pare che gli analisti finanziari di Wall Street abbiano ormai sul nostro conto una convinzione ferrea: “Piuttosto che in Italia, molto meglio investire in Botswana”. Ditemi allora perché mai qualcuno dall’estero dovrebbe considerarci un paese sicuro e democratico. Mi torna in mente la frase del regista Paolo Sorrentino, pronunciata nel giorno in cui vinse il Golden Globe: “Italy is a crazy country”. Sì, siamo un paese di matti».

• «Sul conto di Emilio Riva si può parafrasare Demostene quando dice: “Spesso le grandi imprese nascono da piccole opportunità”. La vita di Emilio ne è piena, piccole o grandi opportunità che siano. Infatti, già dopo i primi successi imprenditoriali, continua a espandersi, sia in Italia sia all’estero. In Belgio gli danno la Gran Croce al Merito, il più alto riconoscimento assegnato a un imprenditore. La Francia decide addirittura di attribuirgli la Légion d’Honneur, che è stata conferita a pochissimi italiani. Dulcis in fundo, c’è nientemeno che la Germania, paese che consegna la Gran Croce al Merito all’industriale italiano Emilio Riva. È l’episodio che oggi ricordo di più, mi pare di sentire ancora le lacrime che quel giorno mi scendevano lungo le guance a Potsdam, la città in cui ricevette la Croce, mentre i fotografi continuavano a far lampeggiare i loro flash e il presidente della Repubblica federale tedesca dichiarava: “Siamo onorati di averla con noi. Finalmente un italiano che non viene per lavorare, ma che porta lavoro”».

• «Nessuno sa niente di Emilio Riva, e oggi io dico “per fortuna”. Poche foto, pochi articoli sui giornali. Tutto poco, malgrado Emilio sia da anni uno degli uomini più ricchi d’Italia. Credetemi se confesso che quasi non lo sapevo nemmeno io. Si è mosso sempre con un basso profilo, la sua idea era “guai a mettersi in mostra”. Ricordo perfettamente il nostro carissimo amico Attilio Monti che un giorno commentò: “Il problema di moltissimi uomini è che vivono al di sopra delle loro possibilità. Ne ho conosciuto uno solo al mondo che si accontenta di vivere invece molto al di sotto delle sue possibilità. Si chiama Emilio Riva”».

• «Gli operai che lavorano per lui sono la sua ossessione. Pagarli con puntualità è una faccenda che Emilio Riva ha sempre trattato come uno dei compiti più importanti in assoluto della sua attività. Sul finire degli anni Novanta, capita che un giorno venga a sapere di un ritardo nella disponibilità delle paghe dei dipendenti. La banca a cui è assegnato il compito del pagamento degli stipendi della fabbrica di Novi Ligure posticipa di un giorno la data fissata. Si tratta solo di un errore tecnico, di una svista che costa ai dipendenti soltanto un’attesa di ventiquattr’ore, prima di ricevere la paga. Ma lui non sente storie, su questo tema non perdona. “Si cambia banca, questa con noi non lavora più”».

• In quanto al rapporto con i suoi operai, «ha voluto che a quelli che avevano raggiunto i venticinque anni di carriera col Gruppo Riva venisse assegnato un riconoscimento tangibile. Ed era un’occasione che a Emilio stava a cuore davvero, tanto che si organizzò una cena, della quale lui stesso aveva curato nei dettagli il menu e la scelta del luogo adatto. Una volta ha fatto allestire tutto a Verona, in una rinomatissima trattoria nella quale si prepara secondo Emilio il miglior bollito. Un’altra volta in Piemonte, dove si mangia il famoso fassone, una carne bovina di altissimo pregio. Un’altra ha deciso addirittura di portare tutti a Parigi, per cenare e vedere poi lo spettacolo del Lido, grazie al noleggio di un Boeing dell’Alitalia. Tutto questo avviene regolarmente nella stessa data, il 7 marzo: è il giorno in cui ci fu nella fabbrica di Caronno Pertusella la prima colata continua, forse l’evento che più di ogni altro cambiò la dimensione imprenditoriale di Emilio Riva. Dopodiché si procede alla consegna di un lingotto d’oro massiccio da 100 grammi, col quale si offre un riconoscimento al lavoro di ogni dipendente».

• «In verità, ci sarebbe un episodio in cui qualcuno è riuscito a disarmare anche Emilio. Accadde nel giorno in cui un cliente si presentò nel suo ufficio per raccontare che era spiacente, ma che non era in grado di onorare la cambiale che aveva firmato per Riva. Emilio si mostrò irremovibile. Agitandogli la cambiale sotto il naso e guardandolo negli occhi gli intimò: “Guardi, a me dei suoi problemi non importa niente. Lei deve…”. Fulmineo, l’uomo sfilò la cambiale dalla mano di Emilio e se la infilò in bocca. Emilio restò senza parole, attonito. Continuò a osservare le mandibole del suo debitore che masticavano gustosamente il frammento della cambiale che conteneva la sua firma. Emilio sbottò in una sonora risata. Si alzò in piedi e tese la mano al suo cliente che ancora rosicchiava il suo prezioso pezzo di carta. “Complimenti, amico, lei è il primo che mi frega. Ma mi creda, sono quasi contento. Adesso vuole un po’ d’acqua, così riesce a mandar giù quella cambiale?” “No, grazie, non ho bisogno di acqua, la cambiale l’ho già perfettamente ingoiata” rispose l’uomo quasi congestionato dallo sforzo».

• «Trovo che i self-made man come Emilio abbiano un punto in comune: la diffidenza. Quando è al cospetto di una persona, già al primo sguardo decide in modo pressoché definitivo se gli va a genio oppure no. (…) Un giorno, era la metà degli anni Settanta, fummo invitati da un cliente spagnolo a Porto Banus in un noto ristorante del porto. Cosa fa questo incosciente dopo la cena a base di gamberetti, i deliziosi langostinos che si mangiano in Spagna? Lascia addirittura 3000 pesetas di mancia al cameriere, il corrispettivo di 60.000 lire dell’epoca. Emilio non commenta, ma, una volta tornato a Milano nel suo ufficio, chiede alla segretaria di riferirgli immediatamente la situazione che questo cliente ha col gruppo. Dopodiché dispone che non gli si consegni più merce se non in caso di pagamento a vista, e di rientrare il più velocemente possibile dal credito con lui. “Perché l’hai fatto?” chiedo io ingenua quando me lo racconta. “Perché non mi fido. A cena ha voluto mostrarmi che può dare 3000 pesetas di mancia. È troppo. Non si fa”. Sul momento, contestai questa sua severità. La mia idea è che ognuno dei propri soldi fa l’uso che gli pare, compreso dare mance spropositate. Ma alla fine ebbe ragione lui: un anno dopo il suo generoso cliente fallì, ma quando ormai Emilio aveva già portato a casa i suoi soldi. Io ci avrei sicuramente lasciato le penne».

• «All’inizio degli anni Ottanta, Emilio fu invitato una mattina da Giamba Parodi per parlare d’affari. Parodi era un finanziere genovese miliardario e potentissimo, discendente di un’antica famiglia di ricchissimi banchieri. Abitava in un meraviglioso palazzo del Cinquecento al centro di Genova. “Tu dici che sono tirchio?” mi raccontò Emilio quando rientrò a casa, ridendo come non lo avevo mai visto ridere. “Aspetta di sentire cosa mi è successo oggi”. “Cosa?” “Sono andato a quell’appuntamento con Parodi, ero puntuale alle tre a casa sua. Il palazzo in cui risiede, credimi, è veramente magnifico. Ma appena entro si sente subito che fa un freddo glaciale, un freddo che mi accompagna fino all’ultimo piano, dove Parodi risiede. ‘Si accomodi’ mi dice quando mi vede. Ha al collo una sciarpa e accanto solo una stufetta che riscalda il salottino in cui siamo. ‘Gradisce un caffè?’ aggiunge. ‘Volentieri,’ gli rispondo ‘qui fa freddo e magari mi riscaldo un po’’. Serissimo in volto, lui mi risponde: ‘Ha idea di quanto mi costerebbe mettere un riscaldamento in tutto il palazzo?’. Finalmente arriva il caffè, ed è lui stesso a porgermelo. Prima, però, versa nella tazzina mezzo cucchiaino di zucchero. Lo assaggio soltanto e lo trovo un po’ amaro. Così gli dico: ‘Posso avere un altro cucchiaino di zucchero, per favore?’. Sai Parodi che fa? Mi guarda e dice: ‘Giri, giri’”».

• In quanto a puntualità sul posto di lavoro, «la sua intransigenza è tale che in una occasione è ricaduta anche su mio figlio Alain. Emilio si accorse che la mattina il suo ingresso in fabbrica non era sempre puntualissimo. Così, alle otto di ogni giorno cominciò a controllarlo. Una volta, due volte. E il tonto continuò a presentarsi alle nove. “Alain, da domani timbri il cartellino come fanno gli operai. Perché qui l’entrata al lavoro è per tutti alle otto, non sono previste eccezioni”. Alain si offese tantissimo, ma un giorno di qualche tempo dopo mi ha rivelato che da quell’episodio imparò molto. Imparò soprattutto quanto rispetto per gli altri contenesse la puntualità».

• «Del resto, che Emilio non guardasse in faccia a nessuno lo si capiva da altri dettagli che adottava rigorosamente sul lavoro. (…) Pietro, il figlio di mia cugina Luisa, per anni ha svolto il ruolo di capo del personale all’interno del Gruppo Riva. Naturalmente, a Emilio e a me capitava piuttosto spesso di incontrarlo in occasioni familiari. Improvvisamente, nel giorno in cui Pietro è chiamato a firmare il contratto con l’azienda Riva, l’incontro con Emilio lo gela. Il presidente è lì, ha voluto essere presente, e naturalmente Pietro immediatamente dopo aver posto la firma si volta verso di lui e lo ringrazia. Anzi, tenta di ringraziarlo. “Volevo dirti che…” “No, guardi, da questo momento noi ci diamo del lei. Qui dentro non abbiamo più nessun grado di parentela, solo un rapporto professionale. La mia relazione con lei sarà la stessa che ho con tutti gli altri miei dirigenti. Le auguro buon lavoro”».

• Queste erano alcune delle regole «del suo codice. Una specie di vangelo che Emilio diceva di aver ricavato interamente dagli insegnamenti di sua nonna. In gran parte, potevano anche essere balle, ma forse qualcosa di vero in quel suo racconto c’era. Quando Emilio era bambino, questa sua nonna gestiva una trattoria alle porte di Milano. La chiamavano “la reggiora”. Non ho mai capito bene cosa volesse dire, Emilio mi spiegava che quel nome era dovuto al fatto che lei, e soltanto lei, reggesse la sola copia esistente delle chiavi della cantina. Questo significava che ognuno, sempre e comunque, doveva rivolgersi a sua nonna per prendere del vino, o del formaggio, o qualsiasi altra provvista sistemata in cantina. Se è davvero così, quel vangelo Emilio non l’ha dimenticato mai, e l’ha osservato fedelmente. Le sue aziende sono diventate una cantina molto molto più grande di quella del piccolo ristorante della nonna, ma anche lui ha sempre voluto reggere le chiavi. Nessun altro poteva entrarci, nessun altro ha mai potuto prendere decisioni prima che lui lo sapesse e senza il suo permesso».

• «Anche il tempo libero di Emilio era fissato su una puntualità asfissiante, infatti con me e col mio vizio di regolarmi coi tempi africani non è mai stato tenero. Gli inviti a cena diventavano spesso degli incubi. Col cappotto addosso e la sciarpa già girata attorno al collo, continuava a marcarmi stretta. “Sei pronta? Allora, sei pronta?” Pur di non litigare più, come al solito ero io a cedere. Era così maniacale che una sera ci presentammo a un appuntamento in casa di amici alle 7 e 30, quando l’invito era per le 8. (…) Da quella sera, ogni volta che c’era un invito controllavo personalmente l’orario dell’appuntamento. Avevo capito che Emilio mi riferiva orari falsi, in anticipo di almeno mezz’ora su quello autentico. (…) Malgrado i miei controlli, riusciva quasi sempre a farmela. Era ormai una specie di gioco tra noi due, nel quale si finiva quasi immancabilmente per litigare. E, alla fine, per arrivare comunque sempre tra i primi».

• «Lui doveva prevedere, organizzare, programmare. Viveva così anche la sua enorme passione per la cucina, che lo portava ad allestire minuziosamente la mensa in ognuno dei suoi stabilimenti. Banchieri, industriali, chiunque lo incontrasse per lavoro a cavallo dell’orario di colazione sapeva che con lui si sarebbe mangiato in mensa. E chi la frequentava imparava presto che quella mensa era anche il miglior ristorante della zona. Così come per la produzione dell’acciaio, Emilio Riva esigeva la perfezione da chi prepara piatti in cucina. “Se hai una materia prima che è buona e fresca, metà del lavoro è già fatto. E allora non puoi sbagliare, non devi”. (…) Per prendersi gioco della qualità della mia cucina, invece, Emilio ama usare una battuta, di cui si serve tutte le volte in cui gli chiedono com’è che ama così tanto stare ai fornelli: “Per sopravvivere” risponde guardando torvo verso di me. Io scrollo un po’ le spalle. Dice il falso. Cucinare e mangiare gli piace, gli piace e basta».

• «Da tanti Emilio Riva viene disegnato come un uomo duro e molto riservato. Un articolo pubblicato dal settimanale “Panorama” nel novembre 2012 riporta questa sua frase: “Già mi affeziono poco alle persone, figuriamoci alle cose”. (…) Partiamo dal fatto che si tratta di un personaggio naturalmente diffidente, direi nei confronti di tutti, me compresa. (…) Da questa diffidenza non si salva nemmeno Maya, la cagnolina di Emilio, che lui amava profondamente: “Anche tu muovi la coda per interesse, lo fai solo perché vuoi mangiare”. È così che scherzava con lei prima di darle le crocchette. E la piccola Maya non lo lasciava un istante, non gli permetteva mai di allontanarsi senza che lei fosse al suo seguito».

• «“Sulla mia lapide” mi disse una volta Emilio “si potrà scrivere come nella barzelletta dello scozzese McIntosh: ‘Qui giace Emilio Riva che sempre addizionò, spesso moltiplicò, mai sottrasse. Gli eredi riconoscenti divisero’”».

• Riva conservava come talismano «una monetina d’oro che gli regalarono nel 1954 alla prima colata della fabbrica di Caronno Pertusella. È proprio come il decino di Paperon de’ Paperoni. Ma quella monetina Emilio la portava sempre con sé, incastonata nel portamonete».

• «“La beneficenza? Fatela, ma non parlatene mai e non apparite mai”. Questa era una sua norma, per la quale è previsto un solo tipo di trasgressione: nelle grosse cifre che lui stesso si occupava di destinare alla ricerca, cifre che sono riservate soprattutto al Weizmann Institute di Rehovot in Israele e allo Ieo di Milano, l’Istituto europeo di oncologia. Ha accettato di trasgredire la sua regola quando ha capito che sostenere la ricerca con il denaro vuol dire favorire un risultato universale, un miglioramento della vita di tutti. Vuol dire procurare un bene comune, finanziare un risultato che può ricadere su ciascuno di noi. Alcuni anni fa un dirigente dell’Ilva si ammalò di cancro e andò da Emilio per presentare le sue dimissioni, poiché non era più in grado di lavorare. Raccontò che la diagnosi fatta a Taranto era stata definitiva e che l’avevano mandato a casa definendolo “inoperabile”. Emilio lo convinse ad andare a Milano e provare a curarsi proprio allo Ieo. Il dirigente fu infatti operato, con successo, e a quanto ne so oggi è in buona salute».

• «Uno degli aspetti più paradossali degli attacchi portati a Emilio è il presunto disinteresse nei confronti del suo paese. Scusate, ma questa davvero non posso perdonarla. A nessuno. Emilio aveva un vero culto dell’italianità, e per il suo paese è stato più volte pronto a tirare fuori denaro. (…) Nel 2008, (…) Silvio Berlusconi, che allora è presidente del Consiglio, lancia la sua campagna affinché siano gli imprenditori italiani a salvare l’Alitalia dal fallimento, in maniera da scongiurare l’eventualità che la compagnia fosse acquistata da investitori esteri. Fu contattato, tra gli altri, anche Emilio, che senza battere ciglio versò in Alitalia 120 milioni di euro. Sono tanti anche per un imprenditore potente come lui, soprattutto perché li impiega sapendo che non si tratta di un vero affare. E quando un amico gli rivela “Sai, Emilio? Anch’io, nel mio piccolo, ho messo una quota in Alitalia”, “Io l’ho fatto per l’Italia,” lui risponde “mi piace pensare che la nostra compagnia di bandiera resti italiana. Ma il solo affare che io e te abbiamo fatto è questo. Non dobbiamo aspettarci guadagni”. Quando mi raccontò di questa decisione, aggiunse: “Avessi dieci anni di meno, Alitalia andrei a dirigerla io”».

• «Tra gli anni Settanta e Ottanta, Emilio guadagna e reinveste: è un tornado! All’ingegner Riva rimprovero solo di non essersi fermato. Mai. Quando nel 1995 acquista dallo Stato italiano l’Italsider, che lui trasforma in Ilva, mette in piedi la sua ennesima sfida. Ha 68 anni, è già molto ricco, i suoi stabilimenti siderurgici sono da tempo sparsi in Italia e all’estero e godono tutti di ottima salute. (…) Forse quel giorno Emilio Riva acquisiva l’Ilva perché stava semplicemente facendo il suo lavoro, come ogni giorno ciascuno fa il proprio. A noi tutti sembrò un’enormità, ma lui si comportò soltanto come aveva già fatto tante volte in passato. C’è un affare che mi convince? C’è l’opportunità di acquisire un’azienda del mio settore che ha potenziale per produrre profitto? Bene, vado fino in fondo, la aggiungo al gruppo. Tutto qui, niente sfide e niente spiegazioni psicoanalitiche. Prendersi l’Italsider era solo il suo lavoro, pensare che un’azienda in debito potesse diventare grazie a lui un’azienda sana era il suo margine calcolato di rischio. Solo quella era la sfida, e lui l’ha vinta».

• «Per lui l’Ilva è solo l’ennesimo affare. Sa come si rimette in funzione un’acciaieria. Così, già nel giorno successivo alla formalizzazione dell’acquisto, Emilio è a Taranto. Accanto a lui c’è il magnate indiano Ravi Ruia, titolare dell’Essar Group, uno dei soci che l’hanno affiancato nell’operazione Ilva. Scendono dall’auto che li accompagna sul posto, il loro sguardo è subito rapito da ciò che hanno appena acquisito, quell’enorme stabilimento nel quale gli altiforni dovranno rimettersi al lavoro per produrre acciaio e finalmente anche utili. La prima mossa di Emilio è quella di convocare i vari dirigenti dell’Italsider e licenziarli praticamente in tronco. Se lo stabilimento perde così tanto denaro – all’epoca i giornali parlavano addirittura di 100 milioni al giorno – agli occhi di Emilio una buona percentuale della colpa deve per forza appartenere ai dirigenti. Gli pare evidente che fin lì a Taranto non si è fatto un buon lavoro. E lui, di quel lavoro che ha prodotto tante perdite, non vede l’ora di fare a meno».

• «Quando Emilio Riva si presenta a Taranto, sicuramente sconvolge il mondo locale, in realtà si comporta esattamente come ha fatto in ognuna delle fabbriche acquistate in precedenza, tipo quella francese a Bonnier o quella spagnola a Siviglia. Di sicuro, non si fa molti amici, e non solo tra i dirigenti che decide di licenziare. (…) L’intero universo tarantino che gravita attorno all’Italsider da un giorno all’altro è costretto ad accorgersi che l’aria non è più quella dell’epoca pubblica. I Riva non hanno bisogno di voti, ma solo di conti in ordine, e di un’azienda che finalmente sia capace di macinare profitti. Non allargano i propri interessi tra gli ambienti contigui alla fabbrica, quelli che in cambio di contributi e finanziamenti sono sempre pronti a offrire tutto il loro appoggio e la propria benevolenza. Emilio lascia capire qual è il suo stile tutte le volte in cui vanno a chiedergli di versare soldi per un evento o per l’altro. C’è, per esempio, un ricco torneo di tennis che Taranto può organizzare soprattutto grazie a un robusto contributo che puntuale giunge nel periodo della gestione pubblica di Italsider. E, quando arriva Emilio, i responsabili del torneo, come prima avevano fatto coi manager statali, si rivolgono a lui per chiedere denaro. “Io faccio acciaio,” è la sua risposta “il tennis non rientra nei miei interessi di industriale”».

• Nel novembre 2012 il settimanale Panorama scrisse che, con l’acquisizione dell’Ilva di Taranto, Riva «diventa un vero numero uno. Tanto per capirsi: leader siderurgico in Italia, quarto a livello europeo e decimo nel mondo con un fatturato di 8,53 miliardi di euro e circa ventiseimila dipendenti. Trentotto stabilimenti produttivi dei quali venti in Italia, tra cui Taranto, che con i suoi cinque altiforni è il più grande polo europeo dell’acciaio».

• «Mi interessa evidenziare il paradosso di un imprenditore che inquinerebbe un territorio, ma che intanto su quel territorio ci porta l’intera famiglia. Ditemelo voi: è matto? Uno che immagina di procurare danni così terribili all’ambiente e alle persone, vi pare che poi decida di portare figli e nipoti a lavorare lì? Per giunta, a lavorarci quotidianamente? Nemmeno per un istante Emilio ha pensato che la sua famiglia e i suoi dirigenti potessero risiedere in ville lussuose o masserie, distanti chilometri dall’acciaieria. Per Emilio solo l’acciaieria poteva essere la casa tarantina dei Riva. Come in altre sue fabbriche, anche qui, all’ultimo piano degli uffici dello stabilimento, erano state allestite alcune stanze per i giorni in cui Emilio e figli erano a lavorare a Taranto. Anche a me è capitato di dormirci un paio di volte, e nessuno della famiglia mi aveva messo in guardia, nessuno me ne aveva mai parlato come di un luogo nocivo per la salute, perché nessuno di noi aveva mai trattato Taranto come un luogo da evitare».

• «Nelle settimane in cui prende l’Ilva, Emilio mi rivolge solennemente una sua promessa. “Appena avrò 75 anni, smetto di lavorare. Me ne andrò in pensione”. Ho scoperto solo successivamente che si trattava di una frase che ciascuno dei suoi figli conosceva ormai a memoria. Una frase che in famiglia è diventata storica e priva di qualsiasi attendibilità. Al suo pensionamento, loro avevano smesso di credere da anni. Soltanto io continuavo a fidarmi un po’ di quelle parole. Una volta che compie 80 anni, però, avviene qualcosa che mi fa credere che stavolta sia davvero costretto a ritirarsi. Gli viene diagnosticato un cancro alle corde vocali. La paura ha un potere enorme, e infatti Emilio stavolta dice di volersi ritirare davvero e di voler pensare alla sua salute. “Forse è la volta buona” dico a me stessa. Del resto, si trova al cospetto di un male terribile, un male che dovrà per forza imporgli il riposo. Niente, si rimette in piedi. E appena si rimette in piedi, Emilio è di nuovo nelle sue fabbriche. A ogni mia protesta, risponde puntuale: “Devo. Ci devo andare. Devo lavorare”. (…) Stavolta, però, la mia delusione è cocente, e il risultato è che mi allontano da Emilio. Iniziamo a vivere due vite parallele e distanti, e io da questo momento rappresento soprattutto il suo tempo libero. A me che sono a Montecarlo lui ormai dedica le vacanze e i fine settimana. Praticamente tutto il resto del suo tempo è consacrato al lavoro, che continua a svolgersi quasi interamente negli uffici a Milano».

• «Lui mi ha ripetuto spesso che, una volta a casa, il lavoro se lo lasciava tutto alle spalle, ma il vivere quotidiano di Emilio era fatto di rientri non prima delle otto di sera, dopodiché amava preparare da mangiare e andare a letto presto, perché alle sette dell’indomani era già sveglio, scattava in piedi per bere il suo primo caffè accompagnandolo, da buon milanese, con la lettura del “Corriere”. Dopo mezz’ora di toilette, andava in ufficio, o dove il lavoro lo portava quel giorno: in Spagna, in Belgio, in Germania. Era la sua vita, il suo tran tran ordinario».

• «Quasi senza che me ne accorga, arriva il fatidico 2012. (…) Fin dal giorno in cui Emilio è stato arrestato, è parso subito evidente che al gruppo venisse a mancare un riferimento. Lui da quel momento poteva vedere solo i suoi avvocati, così disponeva il provvedimento preso nei suoi confronti. Mio figlio Daniele poteva fargli visita una volta alla settimana e così anche il presidente Bruno Ferrante. (…) Di punto in bianco, il gruppo si trovava ad affrontare un’emergenza inattesa, disastrosa e fuori da ogni possibile controllo. D’improvviso, sullo stabilimento di Taranto e sulla nostra famiglia cade la responsabilità di bambini che muoiono di cancro, delle emissioni velenose di diossina e di benzopirene, e non basta che siano al di sotto dei limiti consentiti dalla legge. È comunque un caos totale, durante il quale si sente dire tutto e il contrario di tutto. Non resta più il tempo per tentare di discutere civilmente, ormai ognuno è attaccato alla sua idea e sa perfettamente chi erano i colpevoli».

• «Ciò che avviene il 26 luglio 2012, il giorno in cui Emilio viene arrestato, mi riavvicina a lui. (…) Ora Emilio Riva è un uomo solo, vecchio e malato, un uomo a cui stanno togliendo tutto, e che ormai dipingono molto peggio di un delinquente comune. Il suo è un crollo totale, il lavoro a cui ha dedicato la vita intera, quello che ha inseguito e in cui ha creduto fin da quando era un ragazzino, adesso gli si ritorce improvvisamente contro. (…) Le accuse al gruppo e le restrizioni sono sempre più pesanti e infamanti. E non c’è tregua, questa è una partita che viene giocata a senso unico: da una parte ci sono le accuse, dall’altra c’è il Gruppo Riva, come viene chiamato, che tace».

• «In questa fase, la procura tarantina è attivissima contro Emilio e contro l’intero gruppo. C’è un diritto che crediamo di riconoscere a tutti, diciamo anche che è un baluardo della democrazia: il diritto di difendersi. Ma quando tutti hanno già deciso che sei colpevole, questo diritto l’hai già perso in partenza. E tutto ti appare inutile, perché se anche ti sforzi di difenderti, ti accorgi che ciò che dici – tutto ciò che dici – verrà usato contro di te».

• «Emilio Riva ha subito accuse ed epiteti che fanno rabbrividire. Sei ricco e potente – gli hanno detto – quindi sei un porco. Così è stato definito Emilio, un porco, un infame e un assassino, e tutto molto prima che venisse celebrato un processo. A me questa è sembrata la celebrazione di una condanna annunciata. Perché ormai era inutile farsi illusioni, Emilio era già stato giudicato e condannato».

• «Ho letto a questo proposito che lo psicologo canadese Albert Bandura ha definito questo meccanismo “deumanizzazione”. L’avversario che vuoi annientare, devi degradarlo totalmente, privarlo della sua stessa condizione elementare di uomo. È un metodo feroce ed efficace. Il risultato che produce è che nessuno concede la sua comprensione, la sua corrispondenza empatica, a un uomo che non è più un uomo, ma qualcosa di peggiore, qualcosa che diventa perfino indefinibile. A Emilio Riva è stato sottratto il diritto di essere trattato da uomo. Colpevole o innocente, lo stabiliranno un processo, i fatti, poi magari anche la storia. Il mio è il giudizio della donna che lo ama. Ma sia chiaro a tutti che Emilio non era una mostruosa entità astratta senz’anima, capace solo di star chiusa in un ufficio a macinare denaro».

• «Emilio Riva è stato per anni un prigioniero, recluso nella sua casa, costretto a chiedere permessi anche per curarsi il tumore».

• «Nella fase in cui l’allora ministro dell’Ambiente, Corrado Clini, dovette occuparsi del caso Ilva, che era appena scoppiato, nel giro di quattro mesi varò una legge, una nuova Aia. Si tratta della cosiddetta Autorizzazione integrata ambientale, cioè un documento rilasciato dallo Stato, che l’Unione europea ha istituito fin dal 1996 e di cui le aziende di questo settore devono necessariamente dotarsi. In pratica, fissa l’impatto che un’acciaieria ha sull’ambiente sulla base del confine stabilito dalle leggi, e su questa base concede all’impianto il permesso di lavorare e produrre. Ebbene, l’Aia voluta dal ministro Clini imponeva per l’acciaieria di Taranto un adeguamento alle nuove norme a partire dal 2014. Un’imposizione che penalizzava chiaramente i Riva, ma che almeno dava all’opinione pubblica la sensazione che si volesse rimettere in equilibrio la questione. In pratica, si obbligava l’Ilva a fornirsi di standard severissimi di impatto ambientale. (…) Ormai il dado è tratto: Emilio dovrà mangiare questa minestra o saltare dalla finestra. E infatti lui sceglie la minestra, si accorda col ministro Clini e decide che sottoscriverà quell’Aia che pure trova durissima e formalmente illegittima. (…) È curioso il clima di quei giorni. Mentre il ministro del governo è convinto che la sua Aia debba per forza risolvere il caso, una volta che ha vincolato i Riva a mettere in sicurezza l’Ilva, la procura di Taranto intanto agisce come se i provvedimenti del governo fossero carta straccia, anzi peggio, come se il governo fosse un avversario da combattere. Fa ricorso contro la norma voluta da Clini e conferma ancora il sequestro».

• «Una volta che la procura sceglie di ignorare l’Aia, quella che avrebbe fatto dell’Ilva uno stabilimento modello per l’intero continente, quella che avrebbe costretto la fabbrica di Emilio ad accettare un margine di emissioni di molto inferiore a quello adottato dalla Germania e anzi dall’intera Europa, rompe di fatto ogni percorso che dovrebbe condurre all’adeguamento a questo standard. I Riva vengono messi in un angolo, addirittura arrestati, l’Aia perciò non verrà attuata. Se l’Ilva è inquinante e pericolosa, come i giudici sostengono, questa è certamente la via migliore perché resti inquinante e pericolosa. Non sono accuse, le mie. È ciò che è accaduto. Sotto gli occhi del mondo intero. Stanno smantellando una fabbrica che funzionava, ma intanto da quando Emilio è stato escluso nessuno è più intervenuto per bonificarla. L’esito è paradossale, i giudici intervengono e per questo l’Ilva non verrà mai risanata. Cito un elemento che sarà illuminante. I fumi di Taranto, i morti di Taranto, sembravano tutti una responsabilità dei Riva. Bene, spiegatemi allora com’è che nell’ottobre 2013, quando il Gruppo Riva è ormai lontano dalla gestione della fabbrica da più di due anni, il ministro del governo Letta emette una diffida contro l’Ilva».

• «Sono andata a rivedermi le vicende che portarono alla nascita dello stabilimento, che un tempo si chiamava Italsider e che ufficialmente entra in funzione in modo definitivo il 10 aprile 1965. In realtà, la prima pietra viene posata già cinque anni prima, il 9 luglio 1960. Il primo reparto che comincia a lavorare produce tubi ed è attivo nel 1961, il primo altoforno va in funzione nell’ottobre 1964, il secondo nel gennaio 1965. Ideatore, fondatore, realizzatore e padrone dell’acciaieria tarantina è lo Stato italiano. Il clima che si respira attorno all’Italsider è a quell’epoca di entusiasmo puro, di vero orgoglio nazionale. Nessuno in quegli anni si preoccupa di questioni ambientali, la soddisfazione collettiva guarda allo sviluppo dell’area, al profilo occupazionale con le quasi diecimila assunzioni, al paese che finalmente produrrà l’acciaio, quell’acciaio che fino a ieri è stato costretto a importare».

• «Negli anni Sessanta, si procedeva costruendo interi quartieri a ridosso degli insediamenti industriali. Allora sembrava il sistema migliore per agevolare la prossimità dei tanti operai al proprio posto di lavoro. Soltanto negli ultimi anni, abbiamo imparato tutti a definire questa scelta una vera follia. C’è bisogno che sia io a sottolineare che Emilio Riva con tutto ciò non c’entra nulla? Lui prende l’Ilva, ovviamente, quando il quartiere Tamburi esiste già. (…) Del resto, Emilio sapeva bene come si erano regolate le istituzioni pubbliche nei confronti dei propri obblighi di intervento. Quando, nel 1998, fu finanziata con l’equivalente di 50 milioni di euro l’opera di disinquinamento della provincia di Taranto, quasi nulla in realtà fu realizzato. Successivamente, nel 2005, accadde che 26 milioni che dovevano servire a ripulire il Mar Piccolo furono invece usati altrove. E ancora nel 2007, i 49 milioni che stavolta dovevano finalmente risanare il rione Tamburi finirono in realtà in opere diverse. Anche qui ho avuto l’impressione che ci fosse dietro un’orchestra già decisa a colpevolizzare sempre e comunque Emilio Riva».

• «Tornando all’Italsider, bisogna ricordare però che insieme all’acciaio italiano produce anche una montagna di debiti che continua a crescere. E prima che l’azienda finisca del tutto seppellita dai miliardi del suo deficit, lo Stato nel 1995 decide di vendere. È così che Emilio Riva, già allora tra i più grandi industriali europei dell’acciaio, il 1° maggio vince l’asta col prezzo più alto e acquisisce l’Italsider. (…) Oggi ho la sensazione che Emilio sia rimasto con una specie di cerino in mano. Lo Stato si è liberato di un’Ilva coi conti in disastro, Emilio l’ha risanata e aveva accettato di innovarla. Ma lui aveva un nome e un volto. Materiale buono per trovare un colpevole di tutto. Mi chiedo se vedremo nuove accuse dei giudici della procura per chi, a partire dal 26 luglio 2012 fino a oggi, si ammalerà di tumore a Taranto. Mi chiedo su chi ricadranno le loro accuse».

• «Quando, nel luglio 2012, viene arrestato Emilio Riva, la procura tarantina dispone il sequestro dell’area a caldo dell’Ilva. Qualche mese dopo ne ordina un altro, che io trovo devastante. Blocca materiali già venduti e pronti a essere imbarcati sulle navi ancorate nel porto di Taranto. Si tratta di un provvedimento dalle conseguenze rovinose, non tanto per Emilio Riva, che è ormai già agli arresti domiciliari nella sua casa di Malnate. Quel dispositivo sarà in grado di mettere in ginocchio fornitori, clienti, piccole e grandi aziende che li hanno commissionati e che con l’intero caso non c’entrano nulla. Il blocco delle forniture fu una scelta inspiegabile, un accanimento che ha avuto conseguenze terribili per tutte le aziende coinvolte. Erano tantissimi quelli che in ogni parte del mondo aspettavano dal Gruppo Riva materiale che avrebbero poi lavorato o rivenduto. C’erano contratti già firmati che il gruppo era pronto a onorare, ma la procura decise che quelle consegne andavano fermate. Sul gruppo, che naturalmente non era in nessun modo responsabile del blocco, sono così cadute numerosissime denunce per mancata consegna e inadempienza contrattuale. Su molte aziende, in attesa di quel materiale che non sarebbe mai arrivato, è presto caduta invece la rovina».

• «“C’è un giudice a Berlino”. È la frase di un’opera teatrale di Brecht, nella quale si narra di un mugnaio della città di Potsdam che subisce la prepotenza di un nobile, ma nessun tribunale della sua Prussia gli riconosce i diritti. Lui però va avanti, vuole arrivare fino al re, fino alla corte di Federico il Grande a Berlino, sa che una giustizia c’è, e che lui alla fine la troverà. Spero che anche qui, che anche noi troveremo un giudice a Berlino».

• «Ora, un’altra delle questioni fondamentali che potrebbero porsi è il modo in cui sono stati ammodernati gli impianti di Taranto nei circa quindici anni di gestione toccati al Gruppo Riva. E qui ci scontriamo subito con dati che tutti crediamo indiscutibili e che in realtà già dividono profondamente. (…) A questo punto non resta che capire se le emissioni che provengono dall’Ilva siano o non siano conformi alle leggi. Bene, dovete sapere che a questa domanda i periti del giudice Todisco hanno naturalmente risposto. Hanno cominciato col comparare i risultati dei loro campionamenti effettuati con i limiti nazionali vigenti. Cito dalla loro relazione del febbraio 2012. (…) “Le analisi non hanno evidenziato concentrazioni di inquinanti superiori a quanto previsto dal decreto legislativo 152/2006 del Codice dell’Ambiente”. Il perito Rino Felici, anch’egli tra i quattro nominati dal gip, è poi ancora più esplicito sul quesito posto dalla Todisco: “Abbiamo risposto che l’Ilva rispetta le normative, rispetta tutte le prescrizioni dell’Aia, che in effetti sono le norme vigenti”. (…) Dunque, non vedo molti dubbi. Pare proprio che le risultanze della perizia siano del tutto conformi alle tesi della difesa. Vuol dire, e lo ripeto fino alla noia, che le emissioni dello stabilimento di Taranto sono nei limiti di legge. Quelle comunitarie, quelle nazionali e quelle regionali. Nonostante tutto questo, la dottoressa Todisco ha preso i provvedimenti che conosciamo. C’è da chiedersi, ovviamente: su quali basi, visto che l’esito della perizia che lei stessa ha disposto dice tutto questo?»

• «Se poi si legge il testo del provvedimento cautelare preso nei confronti di Emilio Riva nel mese di luglio, quindi cinque mesi più tardi, (…) in pratica, il gip fa valere sul passato ciò che l’Unione europea fissa per il futuro [per il 2016 – ndr], dunque applica valori non ancora in vigore nel momento in cui vengono contestati all’Ilva e a Emilio Riva. Per giunta, e a me pare sinceramente incomprensibile, tutto questo avviene mentre la stessa procura dispone di perizie in cui si dice in modo chiaro che i valori sono rispettati e sono inferiori a quelli fissati dalle norme vigenti. Ma è un altro il versante su cui ha agito la procura tarantina. Il sostegno vero al teorema della dottoressa Todisco è il “pericolo”. Ma allora domando: è il giudice che deve decidere quando si definisce una situazione di pericolo? La legge si esprime in realtà in maniera diversa, ma questo per chi accusa Emilio non conta niente».

• «Sul conto dell’Ilva il Parlamento ha votato una legge, non applicata dai giudici di Taranto. Loro stessi hanno poi fatto ricorso alla corte costituzionale, la quale si è espressa con una sentenza che fissa alcuni principi che per la nostra storia sono piuttosto rilevanti. La corte sottolinea che non compete al giudice stabilire il grado di pericolosità, compete soltanto alla legge e alla pubblica amministrazione. Il giudice si deve adeguare a ciò che prescrive la legge, non può in alcun caso, di sua iniziativa, agire sulla base di proprie valutazioni. La risposta con cui i giudici di Taranto accolgono la sentenza della corte costituzionale è un nuovo sequestro, quello da 8 miliardi, quello che mette definitivamente in ginocchio l’azienda. Un sequestro che viene disposto appena venti giorni più tardi. Ciascuno può vederla come vuole, a me pare una specie di sfida».

• «La mia stessa convinzione è che di fronte alle responsabilità un uomo ricco non sia come tutti gli altri. Ha doveri diversi, più sensibili e più alti. Se ha gestito potere, se ha saputo guadagnare denaro, è giusto che la sua capacità di risponderne sia sempre elevatissima, è giusto che sia sempre più trasparente di chi dalla vita ha ottenuto poco. Io avrei solo voluto che a Emilio Riva fossero dati la possibilità e il tempo per rispondere di se stesso, per spiegarsi. E, chiedo scusa a chi pensa che sia troppo, avrei voluto anche che fosse ascoltato. Ma era già stato condannato a morte, condannato a vergognarsi di sé, è stato giudicato e condannato prima che qualsiasi tribunale abbia chiarito la sua vicenda e si sia pronunciato sul suo caso».

• «Immaginare che un uomo, soltanto perché di mestiere fa il padrone, sia del tutto indifferente all’eventualità di ammazzare bambini è una mostruosità indecente. Io l’ho vista la faccia di Emilio nei giorni in cui tutto il mondo che lo circondava ha deciso di accusarlo e condannarlo nello stesso istante. Io quella faccia, quella faccia che conoscevo così bene, l’ho vista e l’ho osservata. In quel momento ho compreso cos’è lo smarrimento, cos’è il vuoto che avverti attorno, quello che ti disorienta e lentamente ti uccide. Non puoi spiegare, non puoi raccontare le tue ragioni e nemmeno ciò che pensi e che avverti, perché intanto ti urlano attorno, ti massacrano con gli insulti e le insinuazioni, ogni frase che pronunci, ogni gesto che compi è visto solo e sempre come un indizio evidente della tua malvagità e delle tue colpe».

• «Emilio Riva era un uomo. Con un milione di difetti e un milione di pregi, con un brutto caratteraccio e una generosità sorprendente. Io non sono un tribunale, se lo fossi assolverei Emilio per amore. E comunque lui è già stato condannato. Ho solo scritto un libro per dire che il silenzio non è una colpa. Emilio ha taciuto per una vita intera, è stato zitto quando ha messo insieme fabbriche e quattrini, è rimasto zitto anche quando la procura tarantina e il pregiudizio pubblico lo hanno trafitto. Lo hanno condannato anche per questo: colpevole di silenzio».