Francesco Daveri, Corriere della Sera 14/4/2015, 14 aprile 2015
LA NUOVA PAURA MONDIALE SI CHIAMA STAGNAZIONE
Sono passati otto anni dal 2 aprile 2007, quando New Century Financial, la società americana specializzata nella concessione di mutui sub-prime , portò i libri in tribunale, dando ufficialmente il via ad una crisi finanziaria senza precedenti. Allora, il Pil del mondo cresceva del 5,5 per cento l’anno. Rispetto ad allora, come illustra Olivier Blanchard, il capo economista del Fondo monetario, a margine della conferenza di presentazione delle nuove stime del World Economic Outlook, l’economia mondiale ha rallentato la sua corsa. Il reddito complessivo cresce all’incirca del 3,5 per cento annuo, due punti percentuali in meno del 2007 ma in linea con quanto sperimentato dal mondo nei quarant’anni prima della crisi attuale. La crisi finanziaria non ha sprofondato il mondo in una nuova Grande depressione, ma lo ha solo riportato a crescere secondo ritmi più sostenibili.
Se tutto procede come sempre, tutto bene dunque? Non proprio, e per una ragione molto semplice: il +3,5 per cento annuo del periodo pre-crisi era il frutto di una crescita economica senza l’aiuto delle banche centrali. Per ottenere lo stesso risultato anche nel 2015, le banche centrali dei Paesi avanzati hanno dovuto intervenire direttamente e indirettamente nei mercati finanziari con massicci acquisti di titoli pubblici e privati. In questo periodo, la loro esposizione nei confronti dell’economia e dei governi si è più che triplicata, passando da 2700 a 8200 miliardi di dollari complessivi, evitando problemi peggiori nei bilanci bancari.
Rimane il fatto che la crescita stenta a decollare. Per questo c’è chi ha cominciato a chiedersi se, nonostante la crescita di oggi, il mondo si trovi su un precipizio di stagnazione secolare. Il rischio — sottolineato da Larry Summers, l’ex segretario al Tesoro di Clinton, poi divenuto consulente di Obama, in un discorso al Fondo monetario nel novembre 2013 — è che la crescita potenziale dell’economia sia frenata dall’eccesso di risparmio rispetto alle opportunità di investimento. Famiglie molto indebitate risparmiano e rimborsano i debiti più che consumare il loro reddito. Così fanno anche aziende e banche con bilanci in disordine. All’eccesso di risparmio contribuiscono poi il calo delle nascite e anche la qualità del progresso tecnologico dell’era di internet — impareggiabile nel creare occasioni di intrattenimento gratuite ma meno fecondo nel generare opportunità di profitto e di investimento fruibili dalle aziende. E anche un uomo pragmatico come l’ex banchiere centrale Ben Bernanke sul suo blog ricorda il contributo alla stagnazione proveniente dalla Cina che consuma poco e invece esporta e risparmia più di quanto dovrebbe.
La discussione sulla stagnazione secolare ha implicazioni molto pratiche. Se la crescita potenziale del mondo non è più quella degli scorsi decenni anche per il troppo debito, incoraggiare la domanda e i consumi con il deficit pubblico è difficile. Summers propone di usare gli investimenti pubblici per rilanciare gli investimenti privati: un’idea che può funzionare per Paesi come la Germania (che ha poco debito pubblico) o come gli Stati Uniti (che hanno tanto debito pubblico e privato ma possono stampare dollari).
La strada è purtroppo più stretta per un Paese indebitato e senza una sua valuta come l’Italia che, nel ripensare le sue politiche fiscali, si ritrova costretto all’urgenza di ridurre le grandi voci della spesa pubblica così da diminuire il carico fiscale e incoraggiare una ripresa non solo congiunturale. E deve farlo in fretta, per non soccombere alla sgradevole sensazione che il meglio non sia di fronte a noi, ma alle nostre spalle.