Nicola Calzaretta, Gs 4/2015, 14 aprile 2015
PUNTURE DI SPILLO
[Alessandro Altobelli]
Dici Spillo e automaticamente si accende la casella “Alessandro Altobelli, nato a Sonnino, provincia di Latina, il 28 novembre 1955, professione attaccante”. Il potere di un soprannome, quando è dato bene, è anche questo. Andare oltre, sopravvivere all’attualità, perfino al fisico che cambia e che ha ispirato a suo tempo il nomignolo. Spillo, infatti, perché secco e lungo. Glielo dette un maestro elementare nella metà anni Sessanta. «Veniva tutti i giorni a vedere gli allenamenti. Io ero il più alto di tutti, magrissimo. Mi chiamò così. I miei compagni si misero a ridere, all’inizio non è che mi piacesse molto. Poi mi ci sono affezionato e lo sento mio». Anche adesso che la sagoma si è ispessita, il capello imbiancato e la barba ingrigita. Spillo Altobelli, dunque. Centravanti cresciuto nel Latina in Serie C, esploso a Brescia nei Cadetti a metà anni Settanta, bandiera nerazzurra per undici stagioni, dal 1977 al 1988. Oltre 300 presenze con l’Inter e 128 gol. Due Coppe Italia e soprattutto lo scudetto tutto italiano del 1980. Un amore vero, genuino, carnale con la maglia nerazzurra prima dell’addio poco sereno. Un’annata con la Juventus, prima di chiudere a casa, nella sua Brescia, città dove ormai ha fissato la dimora e che rappresenta il centro di gravità di una vita da commentatore televisivo che lo vede spesso in Qatar come opinionista di Al Jazeera. «È un’esperienza nata diversi anni fa a Milano dove Al Jazeera aveva una sua corrispondenza. Una volta chiusi gli uffici in Italia, il mio lavoro lo svolgo direttamente in Qatar. Vado lì per alcune settimane, poi torno a casa. Al Jazeera ha i diritti di tutti i più importanti campionati del mondo. Mi piace ciò che faccio. Anche se mi pesa un po’ che nessuno mi abbia mai dato fiducia per un ruolo tecnico nel mio post-calcio».Volevi fare l’allenatore?«No, mi vedevo più nelle vesti del dirigente. Pazienza. Le società non sono più come quelle di una volta».Perché quelle di una volta com’erano?«Più genuine, serie e appassionate. A Brescia per esempio c’era Sergio Saleri alla presidenza. Io mi sono sempre sentito in famiglia. Venivo da un paesino in provincia di Latina. Mi hanno accolto, coccolato, accudito. Il giorno del mio passaggio all’Inter, al primo incontro con i dirigenti nerazzurri mi accompagnò il fratello del presidente, facendomi quasi da agente. Mi aiutò moltissimo».Diciamo che il Brescia con te fece un bell’affare e magari quelle attenzioni forse erano doverose.«Non confondiamo le cose. È indubbio che il Brescia pescò un bel jolly. L’Inter dette in cambio quattro giocatori (Martina, Guida, Mutti e Magnocavallo), oltre a 600 milioni. Ma nei miei confronti c’era affetto e riconoscenza. Ero diventato un pezzo pregiato del mercato, ma per loro ero uno dei ragazzi di famiglia che, a un certo punto, va per la sua via. E il fatto che mi abbiano accompagnato nell’ultimo tratto di strada l’ho molto apprezzato».Ci sono altri ricordi del particolare rapporto con la società?«Il primo ingaggio. Eravamo in ritiro a Levico Terme. Una volta funzionava così: veniva su il presidente e trattava coi giocatori. Non c’erano contratti pluriennali, ogni inizio stagione c’era da accordarsi».Ok, andiamo avanti.«Mi metto a sedere e mi chiedono: “Cosa vuoi?”. E io: “Per cosa?”. Mi dicono: “Ti vanno bene 4 milioni all’anno?”. Al Latina, da dove venivo, mi davano centomila lire al mese. Firmo. Esco dalla stanza e i miei compagni mi dicono: “Ma il vitto e l’alloggio?”».
A quel punto?
«Tornai dentro. Ricordo che uno dei dirigenti mi disse: “E che ci fai ancora qui?”. Dico il motivo e senza aggiungere altro mi danno un altro milione. Senza dimenticare la vacanza regalo che mi fece il presidente dopo l’accordo con l’Inter. Altri tempi».
A proposito, perché proprio l’Inter?
«Il presidente era tifosissimo nerazzurro. Tra tutte le società che si erano avvicinate per avermi, Saleri non ebbe dubbi a chiudere con la sua squadra del cuore».
Che era anche la tua?
«Certo. Ed era la Grande Inter di Picchi, Suarez, Facchetti e Mazzola. Per un bambino, il massimo».
Era il tuo sogno fare il calciatore?
«No. Sono diventato giocatore per sbaglio. Mi piaceva il pallone, ma prima venivano le cose più importanti. Per questo da ragazzino mio padre, che faceva il muratore a Roma, mi mandò a Latina in una macelleria a imparare il mestiere. I miei avevano le idee chiare. La gente andava via da Sonnino in cerca di lavoro. Il pallone stava sullo sfondo».
E poi cosa è successo?
«All’inizio ci fu la squadra del barbiere. Avrò avuto 14 anni. Da lì è partito tutto, finché mi videro i dirigenti del Latina. Entrai nelle giovanili, ma presto mi aggregarono alla Prima squadra».
Giocavi in attacco?
«Sì, ho sempre giocato in avanti. Prima o seconda punta. Con i piedi ero bravo, il colpo di testa molto buono, una bella corsa e il dribbling stretto. In più ho avuto la fortuna di incontrare un allenatore, Gigi Sitzia, che mi ha insegnato come dovevo muovermi in campo. Gigi è stato fondamentale e lo ringrazio ancora».
Del tuo fisico non ne abbiamo ancora parlato. (ride) «E qui si entra nella leggenda metropolitana. D’accordo, non ero un colosso. Ero magro, filiforme, uno “spillo” per l’appunto. Ma ero forte e ben piantato. Non si arriva a debuttare in C a 18 anni e fare tutto un campionato. E poi, a dirla proprio tutta, a me nessuno ha mai detto niente del mio fisico».
Sicuro, neanche il presidente dell’Inter Fraizzoli quando ti vide la prima volta?
«Disse “L’è gras come l’antiport d’un sciur” che significa: “È grasso come lo stipite di una porta di un ricco”. Ma era una battuta, niente di più».
A 18 anni debutti in Serie C e l’anno dopo, nel 1974, hai già scalato una categoria con il Brescia. «Feci un bel campionato. Segnai 7 gol. Avevo capito che mi stavano seguendo diverse squadre. La trattativa più concreta fu col Cesena, allenato quell’anno da Bersellini. A fine stagione feci alcune amichevoli, segnai 3 o 4 gol. Insomma, sembrava fatta. Me lo disse tempo dopo anche il presidente Manuzzi».
E invece spunta il Brescia, sembra dietro indicazione di Fulvio Bernardini che all’epoca collaborava con le “Rondinelle”.
«Io non l’ho mai saputo. Nessuno mi hai detto nulla di preciso. La cosa che ricordo ancora adesso è la paura nei volti dei miei genitori. Era da poco scoppiata la bomba in Piazza della Loggia, c’era stata una strage. Proprio lì dovevo andare?».
E tu che sensazioni avevi?
«Io ero felicissimo, anche se Brescia era lontana, così come lo sarebbe stata Cesena. Andavo in Serie B. Non avevo ancora 19 anni. Sembrava un sogno».
Cosa ricordi dei primi tempi a Brescia?
«Dei dirigenti ho già detto. Per il resto ricordo la mia determinazione, la grinta con cui ho iniziato l’avventura e la grande soddisfazione. Ero partito da Sonnino, un paesino di montagna, piccolo. Già essere arrivato in Serie C era stata una cosa eccezionale. E ora la B».
Come sei stato accolto dai compagni?
«Non mi hanno regalato nulla. Venivo dalla Serie C, ero giovane, qualcuno non mi vedeva bene, un po’ mi soffrivano. Credo sia stato meglio così. Io sono partito subito a mille, sfruttando ogni minima occasione per dimostrare che se ero lì c’erano dei motivi».
L’allenamento era la tua migliore vetrina, giusto?
«Durante la settimana ci davo dentro di brutto. Mi impegnavo come se fosse la partita della domenica. C’erano ottimi giocatori in quel Brescia, gente che aveva anche fatto la Serie A come Casati, Sabatini, Franzon. Senza dimenticare Gigi Cagni». Perché?
«Nelle partitelle mi marcava spesso lui. Era duro, tenace, ma mi ha forgiato bene. Lui e Giovanni Colzato, altro difensore tosto. Lezioni utili alla crescita».
Il primo anno benino, ma il boom arriva con la stagione 1975-76, giusto?
«Andò via Ezio Bertuzzo, che purtroppo è morto un paio di anni fa. Era il centravanti titolare e l’idolo del Rigamonti. Per me si apriva uno spazio buono. L’allenatore quell’anno era Angelillo. Entrai col Catanzaro, feci gol e non sono più uscito».
Fu anche la stagione del lancio di Beccalossi.
«Il Becca per me è stato fondamentale. L’anno prima lui aveva vinto il campionato Primavera. Di quella squadra era il leader, il classico 10 con il mediano a fargli da spalla. Destro naturale, ma con il sinistro faceva quello che voleva. Abbiamo subito legato, eravamo sempre insieme, anche fuori del campo. Abbiamo fatto il militare insieme. Con lui alle mie spalle, significava avere sempre la palla giusta da giocare».
Studiavate schemi e situazioni?
«Era istinto e conoscenza reciproca. L’affiatamento vero nasce così, dalla pratica quotidiana, dal comune “sentire”. Io osservavo la sua postura e sapevo con esattezza dove avrebbe messo la palla, quindi anticipavo il movimento per rubare secondi al mio marcatore. Lui alzava lo sguardo e sapeva come mi sarei mosso. Quel primo anno realizzai 11 gol in 26 partite».
La stagione seguente si completa l’esplosione.
«Avevo 22 anni. Ero titolare. Di gol ne feci 13, due in più dell’anno prima. Il Becca sempre dietro a ispirare. Posso dire che ero veramente soddisfatto. I tre anni di Brescia sono stati la mia fortuna».
Nell’estate 1977 sei un uomo mercato.
«Lo sapevo, lo sentivo. Anche se in quegli anni noi calciatori eravamo ai margini delle trattavie. Facevano tutto le società attraverso i presidenti e i Direttori sportivi. Noi venivamo a conoscenza degli affari quando erano già stati fatti».
Sapevi quali squadre ti stavano dietro?
«Nel dettaglio no. L’unico nome è stato quello dell’Inter, dove poi sono andato grazie anche al mio presidente Saleri da sempre amante del nerazzurro».
Come fu il tuo primo impatto con la nuova società?
«A Milano, come ho raccontato prima, mi accompagnò il fratello di Saleri, che poi è stato quello che mi dette per primo la notizia del mio passaggio. Sapevo che avrei incontrato Mazzola che era appena diventato dirigente dell’Inter e il Direttore sportivo Giancarlo Beltrami per discutere del contratto».
E come andò?
«Alla fine bene. Non volevo perdere tempo. Volevo chiudere il prima possibile per poter giocare le amichevoli. Al Brescia prendevo venti milioni all’anno. All’Inter speravo di arrivare almeno a sessanta. E così è stato. Felicissimo».
Così pare osservando la tua prima foto con la nuova maglia.
(ride) «Non sono mai stato un tipo fotogenico. Mi fregano le sopracciglia cadenti. Quella volta riuscii a sorridere. Anche se mi misero addosso una vecchia maglietta, a girocollo e con una stellona che pareva quello di uno sceriffo. Era il vecchio modello che ormai l’Inter non usava più da anni».
Non un buon segno.
«L’importante era essere lì. Per me tifoso nerazzurro era il massimo. Ora toccava a me dimostrare ancora una volta che ero al posto giusto. L’umiltà e le radici ben piantate in terra mi hanno aiutato».
Che Inter era?
«Era una squadra con molti giovani, dei vecchi era rimasto il solo Facchetti dopo l’addio di Mazzola. Veniva da diverse stagioni deludenti. L’ultimo scudetto era quello del 1971. Era necessario dare una svolta, ripartire con un nuovo progetto, puntare su nomi diversi. Credo di essere arrivato al momento giusto».
Tu cosa ti aspettavi?
«Non ho mai chiesto il posto, figuriamoci adesso. Nell’Inter davanti a me c’erano Pietro Anastasi e Carlo Muraro, i titolari della stagione precedente. Io mi misi a disposizione, lavorando al massimo, come avevo sempre fatto. Ho capito subito che lì era un altro mondo. Se al Brescia facevo un gol, erano tutti contenti e soddisfatti e non mi veniva chiesto altro. Adesso, dopo un gol, ne dovevano seguire altri due».
Arrivi all’Inter e trovi Eugenio Borsellini.
«L’uomo a cui devo moltissimo. Mi ha preso in cura, mi ha fatto anche “male” all’inizio. Ma mi ha fatto crescere moltissimo. Non me lo ha mai detto apertamente, ma so che ha spinto molto per avermi con sé. Mi avrebbe voluto già a Cesena, anni prima. Lo stesso ha fatto con Beccalossi l’anno seguente. Lui andava a vedere direttamente i giocatori che gli interessavano».
È vero che era un “sergente di ferro”?
«Io non l’ho mai percepito così. Aveva le idee chiare. Esigeva rispetto e disciplina. Puntava sul gruppo e lo difendeva sempre. Non ha mai scaricato sui giocatori colpe e responsabilità come hanno fatto invece altri suoi colleghi. Era un allenatore al quale piaceva condurre la squadra assumendone in pieno la responsabilità, senza interferenze tecniche e puntando molto sull’allenamento».
Con lui si faticava molto?
«Sì. Mai lavorato tanto, né prima, né dopo. La preparazione atletica era il suo pallino. Lui diceva che dovevamo essere tutti dei buoni atleti, dotati di forza e velocità. In questo lo aiutava Armando Onesti, il suo vice di sempre. Si correva molto, specie nella preparazione estiva. Lunghe corse nei boschi, molto fondo, molta resistenza. Poi la gabbia, il terreno fangoso per irrobustire le gambe e fare il fiato, la panca per gli addominali».
E tatticamente?
«Erano anni in cui le squadre giocavano più o meno allo stesso modo. Ruoli fissi, marcature a uomo. Nella stagione dello scudetto inventò il rombo di centrocampo, anzi il romboide come lo chiamava lui. Marini, Caso, Pasinato e Beccalossi vertice alto, con il prezioso Mimmo Caso, che garantiva gli equilibri. Al mister è sempre piaciuto l’approccio propositivo alla gara e il bel gioco».
A tavola però vi teneva a stecchetto.
«Aveva introdotto regole ferree in quanto a cibo e bevande. Era tutto pesato, centellinato. Lui controllava ogni cosa. Ma noi ogni tanto lo fregavamo».
Si racconta di alcuni famosi raid notturni nelle cucine. È vero?
«Sì. In ritiro era veramente un patimento e i ritiri con lui potevano prolungarsi per tre o quattro giorni. Ci si trovava nella camera di qualche compagno a giocare a carte. C’era anche chi fumava. E poi, dopo mezzanotte, partiva la spedizione in cucina. Affettati, formaggi, vino. Ma anche così si faceva gruppo, si cementava quel senso di appartenenza che negli anni del Tiger (nomignolo di Bersellini, ndr) ci ha portato a vincere e a divertire».
Hai qualche altro ricordo del tuo rapporto con lui che vale la pena rispolverare?
«Una volta, intorno alle due del pomeriggio, sento suonare al campanello di casa. È lui. Mi fa: “Mi offri un caffè?”. Preparo il caffè e lui mi dice: “Spillo, ti vedo un po’ stanco. Domenica vieni con me in panchina, ti dò un turno di riposo. Poi la partita dopo rientri”. Mai trovato una persona così onesta e leale. Tradire un uomo così è impossibile».
Cosa prevedeva il nuovo progetto Inter?
«Prevedeva di costruire una nuova squadra e di arrivare a vincere qualcosa nel giro di tre anni. In realtà, già alla fine di quella prima stagione si vinse la Coppa Italia, io segnai uno dei due gol della finale contro il Napoli. La rete decisiva fu di Graziano Bini, un grande libero, uno di quelli che ha raccolto molto meno in relazione alle sue qualità e alle sue doti».
Il progetto ha funzionato: nel 1979-80 è arrivato lo scudetto.
«Una delle gioie più belle della mia carriera. Non soltanto perché è rimasto l’unico campionato vinto, ma perché dominammo dall’inizio alla fine, in testa per trenta partite, con una squadra tutta italiana, visto che le frontiere sarebbero state riaperte l’anno dopo. Bordon, Oriali, Baresi. Fedele, Canuti, Mozzini, più quelli ricordati prima».
Quali furono i momenti chiave di quella stagione?
«Intanto la partenza. Alla prima giornata ci furono tutti pareggi. Vincemmo solo noi. Lo prendemmo come un segnale. Poi una grande spinta ce la diede la vittoria nel derby d’andata con la doppietta di un grandissimo Beccalossi. La piena consapevolezza che poteva essere la stagione giusta la raggiungemmo dopo il 4-0 alla Juventus a San Siro a novembre del 1979».
Con Altobelli che segna tre gol...
«Schiantammo la Juve. Fece clamore il punteggio. A quel punto era chiaro in noi che avremmo potuto darne quattro a tutte le avversarie».
Certamente Sergio Brio non ti marcò benissimo, quella volta.
«Non è vero. Dei tre gol, uno fu su rigore e un altro su un passaggio sbagliato di un avversario. Ricordo che lo massacrarono. Io invece lo difesi, e lui me lo ha sempre riconosciuto, anche se nelle tante sfide che abbiamo avuto, non mi ha mai risparmiato nulla».Oltre a Brio, con chi hai faticato?
«Con Pietro Vierchowod, lo stopper più forte di tutti. Aveva velocità, fisico, anticipo, cattiveria agonistica. Prevalere con lui non era facile. A ruota ci metto Karl Heinz Forster».
E invece con chi hai avuto vita facile?
«Con nessuno. Posso dire che con la Roma segnavo spesso. Credo che Franco Tancredi mi sogni ancora di notte (ride)».
Torniamo allo scudetto del 1980: quello fu anche l’anno dello scandalo scommesse.
«E con questo? Noi il campionato lo abbiamo vinto con pieno merito, giocando meglio di tutti e dominando da settembre a maggio. Certe voci giravano anche l’anno prima, quello del successo del Milan».
Vinto lo scudetto, c’è spazio per un’altra Coppa Italia nel 1982. Poi il buio: perché?
«Semplice: l’Inter ha sempre sbagliato gli stranieri, ad eccezione di Prohaska e Rummenigge, che comunque è arrivato da noi con problemi fisici. La Juve prendeva Platini e Boniek; la Roma Falcao e noi Juary, il povero Coeck e Piansi Müller».Al quale una volta hai dato anche uno schiaffo a San Siro.«10 aprile 1983, contro l’Avellino. Non mi passò un pallone facile facile e io ebbi quella reazione un po’ plateale. Ma era un buffetto. E comunque dopo mi scusai. Ma alla base c’era altro».E cioè?«Lo spirito di squadra che in quel momento lui non aveva colto. Ero in corsa per la classifica dei cannonieri. Tutti i miei compagni mi stavano aiutando. Anche prima di quella partita nello spogliatoio era stata ribadita questa cosa. Poi in campo succede il contrario e mi arrabbio».Ma allora è vero che eri il capobanda del gruppo?«Macché. Ogni volta si tira fuori questa storia. Qualcuno parlava anche di “mafia”. C’erano personalità forti, carismatiche. Io ho litigato con tutti, compagni, allenatori, presidenti, ma sempre e soltanto per il bene dell’Inter».
Ti è pesato non essere mai stato il cannoniere del campionato?
«Un po’ sì, non lo nego. Ci sono sempre andato vicino. Mi consolo con i 128 gol in nerazzurro in 317 partite. Come vedi, nonostante il fisico da “impiegato” ne ho saltate poche».
Nel 1988 vai via dall’lnter: perché?
«Perché litigai con Trapattoni. Lui è uno di quegli allenatori che pur di salvarsi scarica le responsabilità sui giocatori, meglio se sono quelli più forti o più in vista. In quella mia ultima stagione, 1987-88, lo aveva fatto più di una volta. Quella più clamorosa fu dopo il 2-0 subito a Pescara. Lui disse che se gli attaccanti avessero fatto gol subito, non avremmo perso».
E dunque arrivederci Inter.
«Sì e mi dispiacque moltissimo. Ma forse non tutti conoscono i particolari di quell’addio. Perché io chiesi la rescissione del contratto rinunciando a un miliardo. E in quel momento non avevo nessun’altra società. Andai agli Europei convocato da Vicini, senza squadra. Solo dopo mi arrivò la proposta della Juventus». Chi ti contattò?
«Mi telefonò direttamente Boniperti. Mi aveva già cercato nel passato. Dissi subito di sì, era veramente un’occasione incredibile, anche se la Juve di quel periodo non era più vincente».
Nel passato avevi avuto altre offerte per lasciare l’Inter?
«Solo una volta venne a trovarmi a casa Dino Viola, presidente della Roma. Mi pare che fosse il 1985. Avrebbe dovuto parlare prima con la società, ma io gli dissi che stavo bene all’Inter».Manca il capitolo azzurro da affrontare. Da dove partiamo?
«Dall’11 luglio 1982. Una gioia pazzesca, indescrivibile. Io che parto da Sonnino e segno un gol nella finale di un Mondiale. Chi l’avrebbe mai detto?».
Ce lo racconti quel gol?
«Contropiede veloce di Bruno Conti, io sono in mezzo all’area di rigore. Rasoterra perfetto e io vedo Schumacher, il portiere tedesco che esce alla disperata nel tentativo di coprirmi la porta. Se avessi tirato subito, lo avrei colpito, allora penso subito al dribbling. Mi sposto il pallone sul sinistro e calcio sicuro. E Stielike si dispera in fondo alla rete. Bellissimo».
Negli occhi dei telespettatori è rimasta impressa la tua esultanza quasi sofferta.
«Non sono mai stato il tipo che si è tolto la maglia o ha fatto gesti eclatanti. Alzavo le braccia, a volte anche una sola con l’indice della mano ben dritto. Quel che conta è fare gol».Che bilancio fai della tua esperienza con la maglia della Nazionale?
«Un bilancio ottimo, ci mancherebbe. Mi dispiace soltanto per Messico 86. Quello, ancora più del 1982, doveva essere il mio Mondiale. Partii benissimo, segnai in tutte le partite prima della Francia. Peccato, ma quella squadra era cotta. Purtroppo Bearzot in quel caso lì non ebbe forse il coraggio di fare scelte forti, dando ancora fiducia ai reduci di Spagna».
Ultima cosa: se ti dico Iacobelli cosa ti viene in mente?
(ride) «Di una clamorosa gaffe che fece Nando Martellini in una telecronaca del 1983, commentando Italia-Cecoslovacchia. Per non so quanti minuti mi chiamò così. Non ho mai saputo il perché. Eppure ero alla mia quindicesima partita con la Nazionale e Campione del Mondo».
Nicola Calzaretta