Roberto Napoletano, Domenicale – Il Sole 24 Ore 12/4/2015, 12 aprile 2015
LA SOLITUDINE DEL SIGNOR ROSMINI E «L’AIUTO» CHE SERVE
«Sono un imprenditore del settore abbigliamento della provincia di Perugia che da oltre quarant’anni “produce” camicie per uomo e donna e per conto di altre aziende. Non è il caso di rammentare che il mondo è cambiato, che le aziende del manifatturiero tradizionale italiano se vogliono sopravvivere, devono orientare le loro produzioni al mercato del lusso. Il problema è ovviamente quello di come realizzare la necessaria ristrutturazione di queste aziende prima che sia troppo tardi...». Inizia così la lettera di Giovanni Rosmini, 70 anni e fondatore a Città di Castello («in un crocicchio tra Umbria, Romagna, Toscana e Marche») di “Camiceria Etrusca” che appartiene alla piccola grande “bottega” italiana, 42 dipendenti, la forza e l’amarezza dei capitani coraggiosi (quelli veri) che affrontano ogni giorno a viso aperto la “terza guerra mondiale” persa dall’Italia, non hanno mollato, resistono da anni e anni alla più terribile delle crisi, ma si guardano intorno e vedono cadere uno dopo l’altro capannoni, macchinari, teste, donne e uomini in carne e ossa, del patrimonio più importante del Paese che è la sua economia reale. Seguiamolo nel racconto: «Tre anni fa, quando la grande crisi ha raggiunto il suo apice, dovendo decidere se chiudere o andare avanti, abbiamo optato per quest’ultima soluzione, posto che avevamo un’azienda solida sotto tutti i punti di vista: patrimoniale, finanziario, buona organizzazione generale, buoni rapporti con il sindacato, ottimo passaggio generazionale, dipendenti volenterosi e così via. Innamorati come il primo giorno del nostro lavoro e spinti dall’entusiasmo dei figli e dalle necessità dei nostri dipendenti, abbiamo deciso di affrontare la ristrutturazione dell’azienda con le sole nostre forze convinti di potercela fare sopportando grossi sacrifici, soprattutto a livello familiare». Questo passaggio lungo della lettera non ho voluto interromperlo perché rivela come meglio non si potrebbe i tratti cromosomici di un capitalismo familiare italiano fatto di motivazione e sudore, manualità, intuizione e creatività, qualcosa di veramente unico non immune da errori ma di certo di gran lunga la forza propulsiva più rilevante di un Paese che possiede solo questo specialissimo capitale come materia prima.
Rosmini e insieme con lui tantissimi, da un capo all’altro dello Stivale, ovviamente con più di una differenza tra di loro, ma sempre circondati dalle stesse macerie morali e economiche, hanno paura di non farcela, ce la mettono tutta e si misurano con i pesi e le zavorre di un sistema burocratico ossessivo, un fisco che non teme confronti, un’incertezza del diritto imperante per colpa di una mania legislativa pericolosissima che protegge i ladri e spaventa gli imprenditori onesti, lacci e lacciuoli di ogni tipo. Non permettono all’inquietudine dei nostri giorni di buttarli giù, non si fanno “ammazzare” dal “mostro della guerra”, soffrono, combattono, ma cominciano a chiedersi: ce la possiamo ancora fare da soli? Questo signore che ha in azienda tutta la famiglia ci racconta quello che ha fatto lui: «Abbiamo iniziato una lunga formazione del personale che si è rivelata molto più difficile e costosa del previsto, abbiamo iniziato la commercializzazione di nostri prodotti, anche sui mercati esteri, con buoni risultati visto che il relativo fatturato costituisce oggi il 35/40% del totale». Poi, però, arriva al punto, quello che delinea il perimetro della questione industriale italiana di oggi fuori da slogan e stereotipi, e lo fa come sempre con il pragmatismo di questi uomini del fare: «Tutto bene, ma la riconversione produttiva (più di tutto) e l’inizio della commercializzazione dei nostri prodotti hanno comportato rispettivamente perdite ed investimenti molto elevati che hanno azzerato le nostre disponibilità finanziarie. Ora ci troviamo in una situazione per molti versi migliore, ma di non ritorno, in quanto o si va avanti, mettendo in conto altre perdite economiche e debiti consistenti per ultimare la riconversione produttiva e per consolidare e incrementare la commercializzazione dei nostri prodotti, oppure si chiude. Di certo, se non avremo un aiuto, faremo la fine di tante altre aziende prima di noi e di tante altre dopo». Signor Rosmini, in questa lettera, ha commesso un solo errore e riguarda la parola «aiuto». Non è vero che imprese come la sua hanno bisogno di un aiuto, hanno solo bisogno di un Paese che la smetta di caricare sulla parte più sana della sua economia i fardelli burocratici e fiscali, le zavorre di una produzione legislativa esasperante che mina le certezze del diritto, le restrizioni al credito figlie di parametri europei assurdi e comunque ancora penalizzanti. Qualcosa sta cambiando, guai se anche qui, in questa terra coraggiosa, vincesse lo sconforto: «l’aiuto» di cui il Paese (non le imprese) ha vitale bisogno è quello di smetterla con slogan, scorciatoie e populismi. La strada della rinascita italiana non passa per il bonus di turno, ma per il sentiero stretto che conduce a una nuova macchina dello Stato nazionale e territoriale e a scelte lineari di riduzione dei prelievi fiscali e contributivi, guardando al futuro dei nostri figli e non a vecchi e nuovi «voti di scambio», reali o presunti che siano.
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Roberto Napoletano, Domenicale – Il Sole 24 Ore 12/4/2015