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 2015  aprile 13 Lunedì calendario

Notizie tratte da: Carlo Rovelli, Sette brevi lezioni di fisica, Adelphi Milano 2014, pp. 88, 10 euro

Notizie tratte da: Carlo Rovelli, Sette brevi lezioni di fisica, Adelphi Milano 2014, pp. 88, 10 euro.

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L’anno che Albert Einstein passò a bighellonare a Pavia. Aveva raggiunto la famiglia dopo aver abbandonato il liceo in Germania. Il padre, ingegnere, installava le prime centrali elettriche in pianura padana. Albert leggeva Kant e seguiva a tempo perso lezioni all’Università di Pavia, senza essere iscritto né fare esami.

«Non ho speciali talenti. Sono soltanto appassionatamente curioso» (Albert Einstein nel 1952, pochi anni prima di morire).

Nel 1905, quando ancora era uno studente universitario a Zurigo, Albert Einstein aveva spedito tre articoli alla principale rivista scientifica del tempo, gli Annalen der Physik. Ciascuno dei tre valeva un premio Nobel: il primo mostrava che gli atomi esistono davvero, il secondo apriva la porta alla Meccanica dei Quanti, il terzo presentava la sua prima Teoria della Relatività, oggi chiamata «relatività ristretta»), la teoria che chiarisce come il tempo non passi eguale per tutti: due gemelli si ritrovano di età diversa, se uno dei due ha viaggiato velocemente.

Nel 1915, dopo dieci anni di studi, tentativi, errori e idee geniali, Einstein manda alle stampe un articolo con la nuova teoria della gravità, cui dà nome «teoria della relatività generale». La «più bella delle teorie scientifiche» l’ha chiamata il fisico russo Lev Landau.

Newton aveva cercato di spiegare la ragione per la quale le cose cadono e i pianeti girano. Aveva immaginato una forza che tira tutti i corpi l’uno verso l’altro e l’aveva chiamata «forza di gravità». Come facesse questa forza a tirare cose che stanno lontano l’una dall’altra, non era dato sapere. Newton aveva anche immaginato che i corpi si muovessero nello spazio, e lo spazio fosse un grande contenitore vuoto, uno scatolone per l’universo. Di cosa fosse fatto questo «spazio», neppure questo era dato sapere.

I due grandi fisici britannici Faraday e Maxwell aggiunsero poi un ingrediente al mondo di Newton: il campo elettromagnetico. Il campo è un’entità reale diffusa ovunque, che porta le onde radio, riempie lo spazio, può vibrare e ondulare come la superficie di un lago, e «porta in giro» la forza elettrica.

Einstein era affascinato sin da ragazzo dal campo elettromagnetico, che faceva girare i rotori delle centrali elettriche costruite dal padre, e presto capisce che anche la gravità, come l’elettricità, deve essere portata da un campo: deve esistere un «campo gravitazionale», analogo al «campo elettrico»; e cerca di capire come possa essere fatto questo «campo gravitazionale» e quali equazioni lo possano descrivere. E qui arriva l’idea straordinaria: il campo gravitazionale non è diffuso nello spazio: il campo gravitazionale è lo spazio. Ecco il fulcro della teoria della relatività generale.

Per Einstein non siamo contenuti in un’invisibile scaffalatura rigida: siamo immersi in un gigantesco mollusco flessibile. Il Sole piega lo spazio intorno a sé e la Terra non gli gira intorno perché tirata da una misteriosa forza, ma perché sta correndo diritta in uno spazio che si inclina. Come una pallina che rotoli in un imbuto: non ci sono misteriose «forze» generate dal centro dell’imbuto, è la natura curva delle pareti a fare ruotare la pallina. I pianeti girano intorno al Sole e le cose cadono perché lo spazio si incurva.

Einstein predice che il tempo passi più veloce in alto e più lento in basso, vicino alla Terra. Di poco, ma il gemello che ha vissuto al mare ritrova il gemello che ha vissuto in montagna un poco più vecchio di lui.

Dice Einstein che quando una grande stella ha bruciato tutto il suo combustibile (l’idrogeno), finisce per spegnersi. Quanto resta non è più sorretto dal calore della combustione e crolla schiacciato sotto il suo stesso peso, fino a curvare lo spazio così fortemente da sprofondare dentro un vero e proprio buco. Ecco i buchi neri.

Si usa dire che la meccanica quantistica nasca nell’anno 1900. Il fisico tedesco Max Planck calcola il campo elettrico in equilibrio all’interno di una scatola calda. Per farlo usa un trucco: immagina che l’energia del campo sia distribuita in «quanti», pacchetti, grumi di energia. È Albert Einstein, cinque anni dopo, a comprendere che i «pacchetti di energia» sono reali. Einstein mostra che la luce è fatta di pacchetti: particelle di luce. Oggi li chiamiamo «fotoni».

«Einstein inizia la sua introduzione allo studio sui quanti con un meraviglioso “Mi sembra... ”, che ricorda l’“Io penso...” con cui Darwin introduce nei suoi taccuini la grande idea che le specie evolvono, o l’“esitazione” di cui parla Faraday quando nel suo libro introduce la rivoluzionaria idea di campo elettrico. Il genio esita» (Carlo Rovelli).

«Qui considero l’ipotesi che l’energia di un raggio di luce non sia distribuita in maniera continua nello spazio, ma consista invece in un numero finito di “quanti di energia” che sono localizzati in punti dello spazio, si muovono senza dividersi, e sono prodotti e assorbiti come unità singole» (dall’introduzione di Einstein al lavoro sui quanti, considerata l’atto di nascita della teoria dei quanti).

Il cosmo, immenso, elastico, e costellato di galassie, è cresciuto per una quindicina di miliardi di anni, emergendo da una nuvola piccola, caldissima e densissima. Possiamo dire che l’universo nasce come una piccola palla e poi esplode fino alle sue attuali dimensioni cosmiche.

Le cose che vediamo sono fatte di atomi. Ogni atomo è un nucleo con intorno elettroni. Ogni nucleo è costituito da protoni e neutroni, impacchettati stretti. Tanto i protoni che i neutroni sono fatti di particelle ancora più piccole, che il fisico americano Murray Gell-Mann ha battezzato «quarks», ispirandosi a una parola senza senso in una frase senza senso – «Three quarks for Muster Mark!» – che appare nell’Ulisse di James Joyce. Tutte le cose che tocchiamo sono fatte quindi di elettroni e di questi quarks.

«Per adesso, ecco quello che sappiamo della materia. Una manciata di tipi di particelle elementari, che vibrano e fluttuano in continuazione fra l’esistere e il non esistere, pullulano nello spazio anche quando sembra non ci sia nulla, si combinano assieme all’infinito come le venti lettere di un alfabeto cosmico per raccontare l’immensa storia delle galassie, delle stelle innumerevoli, dei raggi cosmici, della luce del sole, delle montagne, dei boschi, dei campi di grano, dei sorrisi dei ragazzi alle feste, e del cielo nero e stellato la notte» (Rovelli).

Rimane un paradosso al centro della nostra conoscenza del mondo fisico. Il Novecento ci ha due teorie fondamentali: la relatività generale e la meccanica quantistica. Due teorie che non possono essere entrambe giuste, perché si contraddicono l’un l’altra: per la prima il mondo è uno spazio curvo dove tutto è continuo; per la seconda, il mondo è uno spazio piatto dove saltano quanti di energia.

«La Natura si sta comportando con noi come quell’anziano rabbino da cui erano andati due uomini per dirimere una contesa. Ascoltato il primo, il rabbino dice: “Hai ragione”. Il secondo insiste per essere ascoltato, il rabbino lo ascolta, e gli dice: “Hai ragione anche tu”. Allora la moglie del rabbino, che orecchiava da un’altra stanza, urla: “Ma non possono avere ragione entrambi!”. Il rabbino ci pensa, annuisce, e conclude: “Anche tu hai ragione”».

Una sostanza calda è una sostanza in cui gli atomi si muovono più veloci. Gli atomi e le molecole, gruppetti di atomi legati, si muovono sempre. Corrono, vibrano, rimbalzano, eccetera. L’aria fredda è aria dove gli atomi, o piuttosto le molecole, corrono più lenti. L’aria calda è aria dove le molecole corrono più veloci.

Il calore, come sappiamo, va sempre dalle cose calde verso le cose fredde. Un cucchiaino freddo dentro una tazza di tè caldo diventa caldo anch’esso. Perché? Per caso. Lo ha dimostrato il fisico austriaco Ludwig Boltzmann. È una questione di probabilità. Il motivo è che è statisticamente più probabile che un atomo della sostanza calda, che si muove veloce, sbatta contro un atomo freddo e gli lasci un po’ della sua energia, che non viceversa.

La teoria di Boltzmann non fu presa sul serio da quasi nessuno. Il fisico austriaco si impicco il 5 settembre 1906 a Duino, vicino Trieste. Non assistette così al riconoscimento universale della correttezza delle sue idee.

«Non siamo esseri ragionevoli. Per secoli in Europa per curare i malati si facevano i salassi, fiduciosi nella tradizione: e tuttora in Europa moltissimi si curano con cure altrettanto inefficaci. La scienza ha limiti, fa errori, non risolve tutti i problemi. Ma resta lo strumento più affilato che abbiamo per capire come succedono le cose, dove sbagliamo e come non sbagliare ulteriormente» (Rovelli).

Che cos’è il tempo? Esiste il «presente»? Fisici e filosofi sono arrivati alla conclusione che l’idea di un presente comune a tutto l’universo sia un’illusione, e lo « scorrere » universale del tempo sia una generalizzazione che non funziona.

Quando muore il suo grande amico italiano Michele Besso, Albert Einstein scrive in una lettera alla sorella: «Michele è partito da questo strano mondo, un poco prima di me. Questo non significa nulla. Le persone come noi, che credono nella fisica, sanno che la distinzione fra passato, presente e futuro non è altro che una persistente cocciuta illusione».

«Se il mondo è un pullulare di effimeri quanti di spazio e di materia, un immenso gioco a incastri di spazio e particelle elementari, noi cosa siamo? Del mondo che vediamo siamo anche parte integrante». Per dirla tutta, «siamo fatti degli stessi atomi e degli stessi segnali di luce che si scambiano i pini sulle montagne e le stelle nelle galassie» (Rovelli).

«…siamo tutti nati dal seme celeste;
tutti abbiamo lo stesso padre,
da cui la terra, la madre che ci alimenta,
riceve limpide gocce di pioggia,
e quindi produce il luminoso frumento,
e gli alberi rigogliosi,
e la razza umana,
e le stirpi delle fiere,
offrendo i cibi con cui tutti nutrono i corpi,
per condurre una vita dolce
e generare la prole...»
(Lucrezio, II, 991-997).