Paolo Bianchi, Libero 11/4/2015, 11 aprile 2015
«IL BRAVO TRADUTTORE È COME IL DOTTOR WATSON»
Tradurre non è un’azione banale, tuttavia può essere un gioco. A volte, un gioco subdolo. A spiegarlo è un traduttore d’eccellenza come Massimo Bocchiola in Mai più come ti ho visto. Gli occhi del traduttore e il tempo (Einaudi, pp. 216, euro 18). Sarebbe riduttivo definire questo saggio come un manuale tecnico. È vero che contiene numerose informazioni utili a chi svolga o voglia svolgere questa professione. Ma è perlopiù un viaggio nella memoria dell’autore, attraverso brani di letteratura, e soprattutto di poesia, che compongono un catalogo o un sunto di un’attività pluridecennale. Di questo lavoro Bocchiola conosce la routine quotidiana, l’asprezza inventiva, ma anche la felicità della scoperta. Di fatto, la scoperta del mondo attraverso «la necessità di colmare dei vuoti». Tradurre non è un gesto pedissequo, né meccanico. È decifrare un testo e restituirlo nella lingua di destinazione attraverso una foresta di possibilità semantiche, una «pattuglia disperata di quasi sinonimi», dove si tratta continuamente di operare scelte e di dare risposte. Ecco perché «viene il sospetto che, come spesso succede, spiegare sia più semplice che tradurre». Se poi si considera la poesia, che può contenere in sé rime, cadenze, onomatopee, rimandi fonici, metrica, si può intuire come il compito sia arduo. E soggettivo. Chi traduce scrive, anzi riscrive, prendendo a riferimento un proprio mondo di significati, qualcosa che comprende l’esperienza soggettiva di vita e di linguaggio. Non a caso l’autore, pur infiorettando la sua prosa di continue corrispondenze con scrittori a lui cari, da Nabokov a Borges, ritorna sempre alla terra, all’origine, e la sua è situata nella Bassa pavese, dove è nato e dove risiede, e di cui ha assimilato il dialetto, tanto da riuscire a tradurre proprio in quello anche brani di alta letteratura. E magari proprio dall’italiano. Ma si diceva della traduzione come gioco. Un gioco che può essere anche poco divertente, e che anche quando è divertente non è detto che metta allegria. Eppure al traduttore è data una libertà, che non è proprio quella dell’artista, essendo una libertà condizionata, ma è la libertà di perdersi nella vastità di corridoi e labirinti, scegliendo e decidendo di volta in volta quale direzione prendere. Un lavoro a suo modo estenuante. Bocchiola rispolvera una definizione ben riuscita di Paul Auster, contenuta nel Libro delle illusioni: «Tradurre è un po’ come spalare carbone. Lo sollevi con il badile e lo rovesci nella fornace. Ogni pezzo è una parola, ogni palata è una nuova frase, e se hai la schiena abbastanza forte e la resistenza che serve a continuare per otto o dieci ore al giorno, riuscirai a tenere acceso il fuoco». Un parallelismo ardito e calzante è quello che Bocchiola propone fra la figura del traduttore e il dottor Watson, amico e fedele collaboratore di Sherlock Holmes. Watson non ha il brillante spirito intuitivo del detective, ma è a lui che viene formulato il celebre precetto: «Eliminato l’impossibile, quello che resta, per quanto improbabile, deve essere la verità». Ecco, è una massima che può benissimo essere adottata, in casi estremi, dal traduttore smaliziato e non incline a soluzioni illogiche. Watson, con il suo buon senso e il suo pragmatismo, è un vettore di conoscenza, un traghettatore di verità. E ovviamente anche un indagatore. L’autore racconta di essere figlio di un medico di base e di rivedere il padre dottore nel se stesso traduttore, per via di un analogo «accanimento investigativo non esente da un senso di colpa» sia pure nella «coscienza che comunque, se diagnosi e cura vanno storte, il paziente che ci rimetterà sarà una parola, o nel peggiore dei casi un testo, un libro». Di questo saggio/memoriale restano impresse le pagine che trattano del tradurre in poesia lo sport e la morte. Quest’ultima in particolare nella declinazione della guerra. Qui si ha a che fare con la trasmissione di un certo effetto emotivo, laddove a volte è solo la posizione di una parola a stabilire il tono di un intero componimento. Per quanto riguarda la prosa, viene preso a esempio paradigmatico, tra gli altri, un brano di Irvine Welsh, scrittore scozzese, autore del romanzo di culto Il lercio. Ci troviamo di fronte a un testo in prima persona (il personaggio è una specie di psicopatico), con un tono che riproduce la cadenza del parlato, anche attraverso un uso massiccio dello slang. Rendere in italiano ciò che è per sua natura carico di riferimenti colloquiali, pop, e tipici di una cultura specifica, richiede uno sforzo interpretativo tale da render conto dell’originale esattezza e pulizia della lingua. E questo riguarda anche termini molto disinvolti, o apertamente scurrili, la cui valenza non può andare perduta. Il traduttore, perciò, dev’essere capace, entro lo spazio che gli è consentito, di ripetere un intero mondo. O, in altre parole, di creare a sua volta una letteratura.