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 2015  aprile 12 Domenica calendario

NAZIONALE - 12

aprile 2015
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R2 Cronaca
Benvenuti nel paese dei balocchi
Sbürla la rôda, truc e raggeln. Un’antologia per i giochi perduti
MICHELE SMARGIASSI
DELL’EPICO DERBY INTERCONTINENTALE e interculturale azteco-langarolo non abbiamo notizie precise. Sappiamo solo che la partita si giocò una sera dello scorso settembre in un campo non precisato alla periferia di Verona. Si trattava di un gioco di palla-pelota: ma come siano riusciti, gli indios messicani e i paesani piemontesi, a ibridare le regole dei rispettivi giochi secolari, è un mistero. Ignoto pure il risultato. Ma non conta. Fu una partita ufficiosa, non prevista, un fuori-programma spontaneo e gratuito di Tocatì (“tocca a te”), il festival dei giochi popolari che trasforma per una settimana la città di Giulietta nel paese di Cuccagna. «Era pura voglia di giocare, a dispetto di tutto, regole, tradizioni, ufficialità», giubilano all’Associazione Giochi Antichi, collettivo che parla a voce collettiva, «ed è questo il nostro spirito: giocare, poi tornare a giocare, per il piacere di giocare».
Sì, l’antropologia. Sì, le tradizioni. Va tutto bene. Ma se non c’è vera voglia di giocare, ogni albero della cuccagna o sfida in costume diventa folclore da proloco, o colta noia accademica. Una dozzina d’anni fa l’Aga nacque per questo: non per imbalsamare i giochi di strada, ma per farli vivere come “resistenza all’omologazione”, come detta il Manifesto scritto nel 2008 e riverito come un giuramento della Pallacorda. E la garanzia che lo siano davvero, vivi e non impagliati, è solo questa: che qualcuno li giochi per il piacere di farlo. Le chiamano “comunità di gioco”, sono oltre ottocento in Italia, coinvolgono almeno centocinquantamila persone, a gruppetti disseminati. Ci sono voluti quattro anni per selezionarne una trentina, dalle Alpi allo Ionio, andando a trovarli di persona, parlando con loro e, naturalmente, giocando con loro, riempiendo i taccuini di appunti su date modi luoghi, e di nomi misteriosi, Truc, Fiolet, Bijé, Tsàn, Ciaramèla, Bbrigghja, Zachègn, Stù , che solo gli affiliati sanno decifrare, a volte neanche loro. Provando a ricostruire analogie, fili segreti tra pezzi d’Italia lontani, perché le grandi famiglie dei giochi di strada in fondo sono sempre le stesse in mille variazioni: i giochi di bocce, di birilli, di lotta, di mazza, di ruota, di cibo, e ovviamente di palla, la sferica madre di tutti i giochi.
E così questo volume, Giochi Tradizionali d’-Italia. Viaggio nel Paese che gioca ( a cura dell’Aga, Ediciclo edizioni, 192 pagine, 18 euro) non è una ricerca antropologica, non è un catalogo etnografico né una guida turistica. È il racconto di un viaggio di trentaquattro tappe in quel Paese dei Balocchi quasi clandestino che si materializza in certi giorni dell’anno, in certi anfratti della modernità, in un cortile, un tronco di stradina, magari dietro un parcheggio, che non ha quasi mai bisogno di divise, di insegne, di sponsor, di discorsi delle autorità, ma di un po’ di sole e di qualche attrezzo approssimativo: anche questa è resistenza alla serialità industriale. E poi chi se ne frega se sono o non sono “i giochi di una volta”, se sbürla la rôda di Fossacaprara, nel cremonese, una corsa con le rotoballe di fieno, è una tradizione inventata, perché le rotoballe sono roba da agricoltura meccanizzata e con le macine da mulino di cui vi diranno vagamente lì forse nessuno ha mai giocato; che cosa importa se la balìna di Santa Lucia ai Monti, tra Veneto e Lombardia, non è più fatta di stracci ma è una comune pallina da tennis; cosa conta se le lavre di Barcola, vicino a Trieste, non sono più schegge di pietra ma vennero sostituite, negli anni del benessere, dalle piastrelle di plastica, sì, quelle tonde e colorate, da spiaggia (ormai sono archeologia pure quelle, non le fabbrica più nessuno, chi ne possiede se le tiene care come lanterne etrusche). Ci si può giocare? Bene, basta così.
E giocare, qui, torna a essere quella cosa “più antica della cultura” che ci ha descritto Johan Huizinga, un pezzo di vita disinteressato, privo di utilità biologica e sociale, lo scopo che si lotta allo spasimo per raggiungere e poi non serve a niente. Il decoubertinismo naturale del gioco di strada non è l’ipocrisia del “partecipare non vincere”, si gioca sempre per vincere, e che diamine: sta nella imprevedibile elasticità delle regole, rigide fino alla minuzia eppure malleabili (in quanti giochi non importa il numero dei giocatori, magari dispari fra le due squadre, né la forma precisa del campo o le misure esatte della mazza), nella linea a volte sfumata, contrattabile sul campo, fra lecito e non lecito, nella disinvoltura con cui si accettano perfino i trucchi (pare che nella ciuccetta di Montefalco, scontro tra uova dove vince l’uovo che resta intero, alcuni giocatori arricchiscano di calcio la dieta delle galline nelle settimane precedenti la gara, per rinforzare i gusci), perché il gioco vero è incontro, relazione, essere insieme.
Poi, se volete metterci un po’ di fantasy storico-etnografica, accomodatevi. Certo che il raggeln trentino o la s’istrumpa di Ollai nel nuorese sono la sublimazione delle furiose zuffe fra pastori per i pascoli; certo che i birilli di Farigliano, nel cuneese, a cui possono giocare solo le donne, con quel birillone al centro, portano l’eco di un rito di fertilità; certo che tutti i giochi di ruzzola (gioco che corre come un brivido lungo la schiena appenninica della Penisola, e per forza: serve un pendio), dove non sempre la forma di formaggio è stata sostituita da dischi di legno, o le battaglie di noci di Monterosso ligure (dove chi vince si porta a casa il commestibile) erano rituali, darwiniane redistribuzioni di cibo alle famiglie più forti… Ma se la funzione simbolica si è perduta, e invece il gioco è rimasto, cosa vorrà dire? Qual era davvero il nucleo resistente di quei riti, se non il divertimento puro del gioco? E se le spiegazioni funzionali, sociali, religiose del gioco non fossero altro che una crosta seriosa, inventata per mascherare l’imbarazzo dell’ homo ludens che vuole tornare bambino?
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IL SIMBOLO
L’ALBERO DELLA CUCCAGNA IN UNA ILLUSTRAZIONE D’EPOCA