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 2015  aprile 12 Domenica calendario

NAZIONALE - 12

aprile 2015
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R2 Cronaca
Renzo Piano. Ci lascino almeno un edificio saggio
«VENNI COINVOLTO NELLA PREPARAZIONE
dell’Expo di Genova 1992, dedicata al cinquecentenario americano di Cristoforo Colombo.
Cominciammo a prepararla anni prima, direi nel 1987». Renzo Piano ricorda il periodo in cui iniziò a studiare la storia di questi eventi per capirne il senso, trovare un percorso e una vocazione.
Qual è l’Esposizione universale che più l’appassionò in questa sua esplorazione del passato?
«Londra 1851, la prima, soprattutto per via del Crystal Palace costruito originariamente a Hyde Park, progettato da Sir Joseph Paxton. È un’area che conosco bene, da tempo lavoro in quella parte di Londra.
Quell’edificio — poi smontato e ricostruito altrove — segna la scoperta della leggerezza nella costruzione.
Non a caso, fu ispirato dai botanici. Acciaio più vetro: una combinazione che dava un’apparenza effimera, in realtà si rivelò durevole. Una gigantesca serra, in fondo, con una visione avveniristica che ci insegna qualcosa anche oggi: l’essenzialità, l’arte di non sprecare, l’importanza del riutilizzo».
Ne fece tesoro per Genova 1992?
«Da buon genovese mi feci guidare dalla nostra leggendaria parsimonia. Che non è avarizia, è arte di fare le cose con poco, rispettando una terra scarsa di risorse. L’idea base nel ‘92 fu quella di recuperare il porto antico proprio come si recupera una fabbrica dismessa, senza sprecare nulla. Bisognava fare in modo che una volta finita l’Expo, un pezzo di città venisse restituita ai cittadini. Credo che sia un principio utile per chi concepisce questi eventi. Abbiamo dato a Genova la “piazza” che non aveva mai avuto, e l’abbiamo ricavata in quella che era la vera fabbrica della città, cioè il suo porto».
Nei centosessantaquattro anni della loro storia, le Esposizioni universali si possono rileggere come un tracciato delle nostre relazioni con l’idea di progresso. C’è una differenza evidente tra la fiducia e l’ottimismo della seconda metà dell’Ottocento, poi il trauma delle due guerre mondiali, infine la fase post-moderna dove uno dei temi dominanti è l’ambiente.
«Tutta la prima fase nella storia delle Esposizioni sembra una gara di prodezze. È lo specchio dell’Ottocento, il secolo delle scoperte, l’invenzione a getto continuo di nuove tecniche. In questo senso, più ancora del Crystal Palace, “l’oggetto” più rappresentativo di quella fase resta la Tour Eiffel. Poi arriva il Novecento e nell’ultima parte di quel secolo le Expo diventano anche un tracciato della globalizzazione, servono a misurare l’enorme ampliamento negli orizzonti, il balzo in avanti nelle relazioni economiche tra nazioni e tra continenti. Con il Terzo millennio, l’imperativo diventa quello di salvare la Terra. Dopo il secolo delle prodezze, dopo le guerre mondiali, dopo la globalizzazione, oggi siamo nell’èra della fragilità. Constatarlo non deve tradursi in angoscia o senso d’impotenza; deve invece diventare una fonte d’ispirazione».
Alla fine, che cosa resta di un’Expo?
«Come minimo dobbiamo pretendere che ci lasci in eredità degli edifici saggi. E poi che sia un momento di trasformazione delle nostre città verso un futuro sostenibile».
( f. ramp.)
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