Fabio Poletti, La Stampa 12/4/2015, 12 aprile 2015
Claudio lo spaccone non esiste più. Finiti i rotoli di banconote in tasca, le manie di grandezza, le mance principesche dopo le rare vincite al casinò, le case da costruire sempre più grandi come il suo ego
Claudio lo spaccone non esiste più. Finiti i rotoli di banconote in tasca, le manie di grandezza, le mance principesche dopo le rare vincite al casinò, le case da costruire sempre più grandi come il suo ego. Adesso al posto di Claudio Giardiello c’è solo «il conte Tacchia», come lo chiamavano quelli che hanno assistito alla sua disfatta, prima il tracollo economico, poi quello nervoso che lo ha portato a quella strage insensata sognata per anni. Davanti al giudice che doveva interrogarlo in carcere a Monza, è il conte Tacchia che crolla. «Sto male...», dice prima di svenire e tornare in infermeria. È la seconda volta in tre giorni. La prima subito dopo aver ammazzato tre persone, ferite altre tre delle quali una ancora gravissima in ospedale, quando in caserma davanti al verbale dei carabinieri l’immobiliarista perde i sensi e finisce in ambulanza in ospedale. Ieri in carcere a Monza davanti ai giudici e al suo avvocato si ripete la scena. Nella stanza degli interrogatori Claudio Giardiello in jeans e maglione appare assente, lo sguardo nel vuoto, immobile come se non fosse presente. Il suo difensore Nadia Savoca racconta: «Non ha detto una parola. Era lì, in silenzio. Visibilmente provato...». Il giudice Patrizia Gallucci capisce la situazione. Concede una sospensione. Invita l’uomo a riunirsi col suo avvocato. In una stanza a fianco avviene il crollo. Intervengono i sanitari del carcere. In infermeria vengono effettuati i primi controlli. L’avvocato racconta il quadro clinico: «Si è ripreso quasi subito ma ha avuto difficoltà a riconoscere le persone. Non era in grado di sostenere un interrogatorio. È in stato confusionale. I parametri medici sono a posto. Elettrocardiogramma e pressione sono nella norma. È solo un problema mentale». Difficile capire se sia una messinscena o se il crollo nervoso sia reale, frutto della consapevolezza di quella strage che gli costerà l’ergastolo. In infermeria lo tengono sotto controllo a vista 24 ore al giorno. Al momento dell’arresto ai carabinieri aveva detto: «Se non mi aveste fermato avrei ucciso ancora, poi mi sarei suicidato». Bisogna evitare che finisca quello che aveva iniziato. Il giudice Patrizia Gallucci chiede altri accertamenti medici. Dispone che Claudio Giardiello venga sottoposto a perizia psichiatrica. Sarà sicuramente uno degli elementi su cui accusa e difesa si daranno guerra. Perché non ci sono altri retroscena possibili in questa storia alla fine così banale. Di un uomo che aveva tutto e si è sentito derubato. Dal nipote, dai soci, dal commercialista, dal giudice che lo aveva spinto verso la bancarotta trovandogli un giro di assegni falsi, dall’avvocato che lo abbandona proprio in quell’udienza. Un’ossessione che sarà al centro del processo. Al fine solo un dettaglio perché l’unica certezza sono i tre morti. E fa niente se Claudio Giardiello non partecipa all’udienza di convalida. Gli atti, i suoi atti oltre a quelli giudiziari, parlano da soli. Il giudice convalida l’arresto. L’interrogatorio in carcere a Monza slitta a questa mattina. Ma intanto il fascicolo giudiziario del conte Tacchia cresce sempre più grande. Nel 2008 c’era stato il crac della immobiliare Magenta. Poi la denuncia dei suoi soci. Nel 2011 la prima condanna a 8 mesi di carcere poi sospesi. Per «soppressione di atti», per aver distrutto i documenti del casinò di Campione che comprovavano un prestito della casa da gioco. Trentamila euro mai restituiti. Il suo avvocato allora propose una perizia psichiatrica. I giudici dissero che non era necessario.