Tino Oldani, ItaliaOggi 11/4/2015, 11 aprile 2015
CON LA FINE DELLE SANZIONI ECONOMICHE, ANCHE L’IRAN ENTRA NEL RISIKO EUROPEO DEL GAS COME POSSIBILE AZIONISTA DEL TAP
Tra i fattori strategici che influenzano la politica estera dei big mondiali, subito dopo le armi nucleari, vi sono le risorse energetiche, petrolio e gas in testa. Non sembra dunque un caso se, a pochi giorni di distanza dal preaccordo sul nucleare siglato in Svizzera tra Stati Uniti e Iran, viene annunciata ora la possibilità che anche l’Iran possa entrare tra gli azionisti del Tap (Trans Adriatic pipeline), il gasdotto che entro il 2020 porterà il gas dell’Azerbaijan in Europa. Che il Tap sia un’infrastruttura strategica, di portata mondiale, sembrano averlo capito tutti in Europa e nel mondo, tranne l’ex sindaco di Bari, Michele Emiliano, candidato a guidare la Regione Puglia, che è sceso in guerra a fianco di ambientalisti e grillini per impedire l’approdo del gasdotto a San Foca-Melendugno, in provincia di Lecce (vedi ItaliaOggi di ieri).
Qualche dato: il punto di partenza del gasdotto è Shah Deniz II nel Mar Caspio (Azerbaijan), considerato il maggiore giacimento di gas al mondo. Da lì, una pipeline lunga 870 chilometri attraverserà Turchia, Grecia e Albania, per approdare in Italia. L’obiettivo è di trasportare 16 milioni di metri cubi di gas all’anno entro la fine di questo decennio, per poi aumentare la portata, fino a raddoppiarla. Gli azionisti attuali sono Bp (20%), Azerbaijan’s state company (20%), Norway’s Statoil (20%), Belgium’s Fluxys (19%), Spain’s Enagas (16%) e Swiss-based Axpo (5%).
L’unione europea ha dichiarato più volte il valore strategico del gasdotto, e ne ha apertamente raccomandato la realizzazione come alternativa al South Stream, il gasdotto che Vladimir Putin voleva costruire insieme all’Eni per aggirare l’Ucraina. Un’iniziativa osteggiata con vigore dal presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, che nel 2014 è riuscito a bloccarla e a farla fallire, con lo scopo dichiarato di sottrarre risorse finanziarie a Putin e indebolirne così l’influenza politica. Al medesimo disegno sembra ora riconducibile l’apertura all’Iran come nuovo azionista del Tap, che difficilmente può avere avuto via libera senza il consenso Usa. L’annuncio è stato dato da Lisa Givert, portavoce del Tap, che a Baku, capitale dell’Azerbaijan, interpellata su un eventuale interesse dell’Iran dopo la rimozione delle sanzioni economiche, ha dichiarato ieri: «Il Tap è aperto a nuovi azionisti, che potranno apportare valore strategico al progetto». Si noti la finezza politica: «valore strategico». Ancora più esplicito il commento di Rovnag Abdullayev, presidente della Azeri state energy company (Socar), riportato dal sito euractiv.com: «Se l’Iran avrà in futuro del gas da vendere, non dovrà fare altro che usare la nostra pipeline per fornire il suo gas agli altri mercati». Dunque, un punto a favore di Obama.
Ma Putin, da combattente vero, è già passato al contrattacco. Morto il South Stream, che doveva entrare in Europa passando per il Mar Nero e la Bulgaria, l’ha rapidamente sostituito con il Turkish Stream, che attraverserà il Mar Nero e approderà in Turchia, per poi arrivare in Grecia, individuata come il nuovo hub del gas russo destinato all’Europa del Sud. Guarda caso, sia il governo di Ankara (con cui Putin si è accordato in dicembre) che quello di Atene, per motivi diversi, non sono in rapporti eccellenti con l’Unione europea. E a Bruxelles, ovviamente, non hanno visto di buon occhio i loro accordi sul gas russo, ma non hanno potuto impedirli.
Vi è poi da considerare che neppure tra Grecia e Turchia vi sono relazioni di buon vicinato, per ragioni antiche. Se ne è avuta una curiosa conferma anche durante la conferenza stampa che Putin e il premier greco, Alexis Tsipras, hanno tenuto insieme a Mosca per annunciare l’accordo sul gas. Quando Putin ha detto che il Turkish Stream sarebbe arrivato in Grecia, Tsipras l’ha immediatamente corretto, spiegando che quando la pipeline arriverà sul territorio greco, dovrà cambiare nome e chiamarsi Greek Stream. Con un gesto teatrale, Putin si è dato uno scappellotto in testa per scusarsi, ed è corso ai ripari spiegando che il nuovo gasdotto porterà alla Grecia «centinaia di milioni di euro ogni anno come tassa di transito, il che consentirà di creare nuovi posti di lavoro».
Oltre che dalla Grecia, l’unità europea sul gas in chiave anti-Putin è stata rotta da Ungheria, Serbia e Macedonia, i cui ministri degli Esteri si sono incontrati il 7 aprile a Budapest per concordare una comune adesione al Turkish Stream. Un minivertice che, insieme alla missione di Tsipras a Mosca, sembra avere rimesso in gioco Putin nel risiko europeo per il gas. La partita continua.
Tino Oldani, ItaliaOggi 11/4/2015