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 2015  aprile 11 Sabato calendario

L’ERA DI QUINTO FABIO DRAGHI

Quando si parla della Bce bisogna fare più propriamente riferimento al Sistema europeo di banche centrali, comprensivo dell’Istituto anzidetto, che è al centro, e delle banche centrali nazionali che attivamente lavorano per il Sistema e negli organismi della Bce, oltreché nella collaterale funzione di Vigilanza, in particolare nel Supervisory Board, facente capo, in ultima istanza, alla stessa Banca centrale.
La figura di Mario Draghi, presidente dal 2011, ha confermato credibilità e autorevolezza. Non sono, tuttavia, mancati, in questo primo tratto di strada che a novembre prossimo raggiungerà la metà del mandato, momenti di scontro con qualche membro del Consiglio direttivo come nel caso del tedesco Jens Weidmann, anche se attutiti dalle dichiarazioni dei contendenti che, peraltro, si confrontano nel modo tipico dei rapporti tra banchieri, ancorché centrali, con argomentazioni sottili e riferimenti indiretti, pronti a dichiarare, poi, che non sussistono motivi di contrasto.
Draghi, in una recente intervista che per la verità ha avuto una eco limitata, coerentemente con quello che disse una volta un altro importante banchiere centrale, Stanley Fisher, che qualificò il suo comportamento come «bilanciato», ha dichiarato, a proposito delle sue simpatie politiche, di non essere né di destra, né di sinistra, ma piuttosto di vedersi come un liberalsocialista, partiticamente non etichettabile, dunque, e, anche in questo caso, con un certo sforzo di bilanciamento, quasi il tentativo di una coincidentia oppositorum à la Cusano (diverso, però, dal social-liberismo del ministro francese Emmanuel Macron).
A ben vedere, ci si poteva attendere dall’ex governatore della Banca d’Italia, per la sua nota abilità nello scegliere la via lungo la quale meno sia esposto ad attacchi e più fruttuoso sia il suo agire, che avesse detto di essere per l’economia sociale di mercato, rendendo anche un favore in tal modo ad Angela Merkel ed esercitando una certa captatio benevolentiae nei confronti di una parte elettoralmente maggioritaria di tedeschi. Ma, evidentemente, egli ha capito che ciò sarebbe potuto risultare eccessivo e, dunque, ha evitato di impelagarsi in una collocazione che avrebbe potuto avere una diretta valenza politica. Se, però, avesse ricordato l’insegnamento di Einaudi, che prediligeva i banchieri – e, a fortiori, quelli centrali – «senza aggettivi», allora probabilmente avrebbe evitato di identificarsi nel modo anzidetto.
Quanto alle precedenti esperienze, Draghi è passato, dopo una pausa, alla Goldman Sachs, una volta ritenuto concluso l’incarico di direttore generale del Tesoro in cui si illustra per le privatizzazioni, parziali o totali, sulle quali il giudizio è discorde fra gli addetti ai lavori, soprattutto perché esse furono realizzate nel presupposto che la fissazione delle regole non avrebbe potuto precedere le dismissioni perché difficilmente allora queste si sarebbero fatte, come ebbe a dire un autorevolissimo esponente di quel tempo e degli anni successivi.
Dopo l’incarico nella Goldman Sachs – che a volte è stato oggetto di polemiche postume – Draghi è approdato, in una situazione assai difficile, al vertice della Banca d’Italia, con una preparazione che metteva insieme l’esperienza nel pubblico e quella nel privato. Sono passati solo pochi anni da quando egli ha portato a termine questo nuovo incarico per poter dare un giudizio. Ci penseranno gli storici; così come agli storici resta affidata la valutazione delle vicende che precedettero quell’incarico, molto spesso avvolte da una «canea» – come ben si disse – di iniziative e commenti decisamente pregiudiziali, mirati a colpire la Banca e, nell’imminenza della nuova nomina, a prevedere sorti magnifiche e progressive che puntualmente vennero smentite.
Fu, quello, il periodo delle invenzioni di carriere, fondate su eroismi di panna montata, e di promozioni sul campo che guardavano più agli effetti «che facevano» fuori della Banca che a profonde ragioni funzionali. Gli storici valuteranno, sine ira ac studio, le innovazioni introdotte a Via Nazionale, ma anche gli stridii avvertiti nelle tradizioni e nei comportamenti consolidati che sono l’anima di una istituzione la quale certamente non vive sulla damnatio memoriae; considereranno l’esercizio delle principali funzioni, in specie della Vigilanza nei diversi e assai problematici casi, e dei risultati; presteranno attenzione al modo in cui l’Istituto ha difeso la propria autonomia e indipendenza, un bene per la democrazia economica, anzi per la democrazia tout court.
In quest’ultimo campo si può sin d’ora affermare che Draghi fu hombre vertical nella confrontation continuamente inseguita dall’allora ministro Tremonti che, puntualmente, ne risultò sconfitto. Un cedimento avrebbe significato la perdita di indipendenza per allora e per il futuro. Soprattutto, gli storici si dovranno chiedere quale eredità egli ha lasciato a Via Nazionale, sia nell’esercizio delle funzioni istituzionali sia nell’amministrazione e organizzazione interne, dopo che la sua candidatura per il vertice della Bce era apparsa subito forte anche se fino all’ultimo non mancarono oppositori pure in Italia. Con la sua uscita, è ritornata l’alimentazione dall’interno – un fatto positivo – della carica di vertice, con la nomina di Ignazio Visco, e così ci si è riallacciati alla tradizione affermatasi da Donato Menichella in avanti (anche Carli fu per un anno Direttore generale prima di essere nominato governatore).
Nell’Istituto di Francoforte, l’immagine del presidente, come si diceva, è cresciuta. In questa carica egli ha potuto mettere a frutto, più che la sua ovvia competenza tecnica non insuperabile, le doti di policy, le capacità nelle relazioni istituzionali, il fiuto e il tempismo nelle scelte, nonostante, in alcuni casi, una opzione inopportuna per il temporeggiamento, non sempre con una perfetta imitazione, nell’oggi, di Quinto Fabio Massimo.
Le innovazioni funzionali e operative sono state rilevanti. Ha concorso in maniera molto significativa la crisi che le ha rese ancor più necessarie; il vincolo statutario sul mantenimento della stabilità dei prezzi da parte della Bce le ha rese ineludibili, pena la violazione della legittimità. Un aspetto, questo, che pochi hanno sottolineato, preferendo presentare Draghi come un demiurgo infallibile. Bisogna distinguere, in questi come in casi similari, tra le capacità e la bravura degli esponenti di vertice, oltreché del personale tutto che lavora con dedizione, e la forza che l’Istituzione ha di per sé. Fondamentale è il ruolo svolto nel «Sistema» dalla Banca d’Italia.
La pubblicazione, sia pure in forma riassuntiva e senza nomi, dei resoconti delle sedute del Consiglio direttivo è un importante progresso sulla strada della trasparenza e dell’accountability, così come a queste ultime due esigenze corrispondono il modo di prepararsi e di rispondere nelle audizioni parlamentari alle quali Draghi è chiamato. La scelta di sostenere e perfezionare la foward guidance è un altro passo avanti. La promozione, da ultimo, del Quantitative easing, ancorché non si tratti di una scelta originale ha ulteriormente rafforzato l’immagine della Bce. Restano, però, le limitazioni istituzionali sulle quali Draghi non si è mai pronunciato, in specie con riferimento al sostegno, da parte della Banca, dell’economia e dell’occupazione che andrebbe collocato su di un piano di parità con il mantenimento dei prezzi stabili. Così come non si è mai espresso sull’eventualità di accordare alla Bce il governo del cambio in maniera diretta. Poi c’è il duro scoglio della Vigilanza, che è decollata da poco, ma che dimostra incertezze e unilateralismi che vanno decisamente corretti.
Non è nell’interesse di Draghi essere seguito in Italia da una folla di plauditores qualsiasi cosa egli faccia e che di ogni azione, che pure umanamente ha qualche punto critico, si vedano solo gli aspetti positivi, in una sorta di agiografia laica. Certo, molto è legato anche alla nostra situazione politica: basti pensare allo strombazzamento del suo nome in occasione della preparazione delle candidature per il Quirinale che Draghi stesso fermò dichiarando fermamente di non sentirsi affatto candidato ed essendo intenzionato a concludere gli otto anni dell’incarico al vertice della Bce.
Per fortuna, si passò poi alla elezione di Sergio Mattarella. È sulla Vigilanza che il presidente della Bce è chiamato a segnare progressi e, prima ancora, a correggere impostazioni e stili di regolazione e controllo; è la par condicio normativa delle banche soggette alla stessa Vigilanza nei diversi Paesi che deve contribuire a promuovere, prima ancora di sostenere la necessità di modifiche nelle sovranità nazionali, sulla base dell’assunto, nel quale si avverte fortemente la scuola dei Gesuiti, che non si tratterà di cessioni, bensì di messa in comune e di condivisione di sovranità: che però avverrebbe senza adeguate garanzie, con il rischio di ripetere l’esperienza, non proprio esaltante, dell’introduzione della moneta unica, nell’illusoria speranza che le salmerie sarebbero poi arrivate: fuor di metafora, con la politica economia e quella di bilancio uniche (altro che salmerie). Occupandosi della prospettiva e dell’integrazione fiscale e, poi, di quella politica, Draghi non esce dai suoi compiti, come sostengono alcuni tedeschi, rientrando questi temi nell’alta opera di consulenza di un banchiere centrale. Ma è il merito delle proposte che è discutibile. La presunta taumaturgia di Draghi sarà comunque messa alla prova di qui in avanti.
Angelo De Mattia, MilanoFinanza 11/4/2015