Guido Salerno Aletta, MilanoFinanza 11/4/2015, 11 aprile 2015
ET VOILÀ, KEYNES 2.0
La politica monetaria, e soprattutto le banche centrali, non saranno più quelle che abbiamo conosciuto prima della crisi del 2008. Crisi che ha indotto le banche centrali a prendere atto delle conseguenze sistemiche derivanti dalla diffusione della banca universale e in particolare del modello di business denominato «originate to distribute», che ha consentito alle banche stesse di esternalizzare il loro rischio di impresa spostandolo sui mercati finanziari.
Questo modello consiste nella tradizionale erogazione di crediti alla clientela da parte della banca, che poi li cartolarizza cedendoli a società veicolo.
Queste, a loro volta, emettono sui mercati finanziari titoli che hanno come sottostante i crediti, segmentati per qualità. La banca funziona da mantice: aspira liquidità che trasforma in crediti e che poi espelle sotto forma di prodotti finanziari. Questi ultimi vengono venduti sul mercato in cambio di nuova liquidità, e così il ciclo ricomincia. Al momento della crisi, c’è stata un processo inverso: l’insolvenza dei debitori originari si è tramutata nella tossicità dei prodotti che li contenevano, anche se in piccola parte, innescando una reazione a catena.
Le banche centrali hanno finalmente capito di non avere più a che fare con le vecchie banche commerciali. Negli Usa, nel Regno Unito e in Francia sono state assunte decisioni legislative volte a ripristinare la precedente distinzione tra banca commerciale e banca d’investimento, seguendo la cosiddetta Volker Rule. I risultati sono stati scarsissimi, per via di una resistenza invincibile: vi è un differenziale, su rendimenti e rischi, tutto a sfavore della tradizionale attività bancaria ed a vantaggio delle restanti attività finanziarie. Si cerca ora di prevedere quando la Fed alzerà i tassi ufficiali e quale sarà l’effetto combinato sull’economia americana e mondiale, cumulandosi il rallentamento determinato dall’aumento dei tassi di interesse con quello di un ulteriore rafforzamento del dollaro per via dell’afflusso di capitali in cerca di rendimenti più alti. Le conseguenze sul mercato finanziario e sulla sostenibilità dei debiti contratti in dollari sarebbero in ogni caso considerevoli.
Anche in Europa sembrano essere saltati gli schemi operativi su cui si basava tradizionalmente l’azione della banca centrale nei confronti delle banche commerciali, che avevano il privilegio di approvvigionarsi di liquidità, scontando presso la Bce i titoli in portafoglio di alta qualità. In passato, la determinazione del tasso di sconto doveva servire ad equilibrare la formazione del risparmio e la propensione all’investimento, controllando la dinamica congiunturale dell’economia reale. Le operazioni sul mercato aperto regolavano, solo marginalmente, la liquidità al fine di raggiungere più velocemente l’obiettivo prefisso: mantenere la stabilità dei prezzi al consumo, accelerando o rallentando la dinamica economica. Ora lo schema si è ribaltato: le immissioni di liquidità, con il Qe, hanno preso il sopravvento mentre la manovra sui tassi sembra essere poco influente.
C’è un ulteriore elemento che va considerato: la crisi finanziaria, da cui l’America sembra essere uscita e di cui l’Eurozona vedrebbe ora la fine, ha lasciato dovunque una spaventosa eredità di maggiori debiti pubblici. Sono aumentati per via dei salvataggi bancari e del sostegno dato all’economia reale per lenire le conseguenze della recessione. Ai tassi di interesse consueti, questa mole di debito sarebbe quasi dappertutto insostenibile. Di fronte a un’ipotetica ripresa dell’economia americana che spingesse pericolosamente l’inflazione e al pericolo di un livello troppo alto delle quotazione azionarie, una manovra sui tassi di sconto non rappresenterebbe più lo strumento principale della politica monetaria.
Se le banche che hanno accesso alla liquidità della banca centrale sono diventate irreversibilmente universali, e non più solo commerciali, una vendita di asset sul mercato da parte delle banche centrali, l’inverso del Qe, rappresenterebbe uno strumento restrittivo molto più efficace e versatile rispetto all’innalzamento del tasso ufficiale di sconto. Agirebbe, infatti, sia sul versante dei mercati finanziari sia su quello del credito. Le banche centrali, dopo la crisi, hanno soppiantato gli Stati: il vero rischio sovrano, pari a zero, è ormai solo il loro. Stampando moneta liberamente, possono acquistare tutto ciò che credono, immettendo liquidità: anche titoli pubblici, per contenere il peso degli interessi.
Il default degli Stati va evitato, perché minerebbe il potere delle banche centrali, ma il loro pareggio di bilancio è inevitabile. La politica economica anticiclica degli Stati attraverso i loro bilanci viene sostituita dalla politica monetaria delle banche centrali, talora espansiva per sostenere la crescita, talora restrittiva per evitare l’inflazione: comprando e vendendo titoli, piuttosto che manovrando sui tassi di interesse. Le banche universali erogano credito e investono contemporaneamente sui mercati finanziari, bilanciando le due attività. Parimenti, le banche centrali tengono d’occhio sia i livelli generali dei prezzi, l’inflazione al consumo sia gli indici di borsa.
Siamo passati dal deficit spending dei bilanci pubblici al deficit printing delle banche centrali. Mentre in passato le banche commerciali e i bilanci pubblici si specchiavano, avendo come unico terreno di azione l’economia reale, con effetti sull’inflazione e la disoccupazione, le manovre sui tassi di interesse da parte delle banche centrali erano lo strumento principale per accompagnare il deficit spending alla erogazione del credito. Con le banche universali, il baricentro dell’economia è finanziario. Tutto cambia: è la quantità di moneta in circolazione, non il deficit dei bilanci pubblici insieme al credito bancario, a finanziare la crescita economica e ad assicurare la stabilità finanziaria. La sovranità economica degli Stati è stata soppiantata da quella monetaria delle banche centrali, passando dal deficit spending al deficit printing. Ancora una volta keynesiani, nonostante tutto.
Guido Salerno Aletta, MilanoFinanza 11/4/2015