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 2015  aprile 11 Sabato calendario

PIAZZA AFFARI IS BACK

Proprio come sta inaspettatamente succedendo in Formula 1, con la Ferrari che ha agganciato la Mercedes, anche la borsa italiana ha riconquistato il gradino più alto del podio in Europa, con un guadagno del 25%, pari solo a quello della borsa di Francoforte, dall’inizio del 2015. In effetti una simile performance in un solo trimestre da parte delle blue chip di Piazza Affari non la si vedeva da tempo: si deve infatti risalire al 2009 per trovare due reazioni più sostanziose, la prima avvenuta in risposta al minimo del millennio raggiunto all’inizio di marzo, in piena crisi economico-finanziaria occidentale, quando la banca centrale americana ha varcato la soglia inesplorata del primo quantitative easing dopo aver portato il costo del denaro sostanzialmente a zero.
La seconda avvenuta a partire dalla metà di luglio dello stesso anno, dopo che il primo esuberante rimbalzo durato tutta la primavera (fino ai primi giorni di maggio, per l’esattezza) ha lasciato il posto a un andamento laterale fino a metà giugno, sfociando poi in una correzione vicina al 50% del terreno guadagnato in primavera. La seconda reazione, partita nel luglio 2009, si è protratta fino a metà ottobre, portando il recupero del Ftse Mib fino a quota 24.500, livello da allora mai più raggiunto e che costituisce quindi l’ostacolo grafico più importante da guadagnare affinché si possa parlare anche a Piazza Affari di inversione rialzista di più ampio respiro. Contemporaneamente, la significatività di questo livello può far supporre che costituisca un valido punto di approdo della spinta attuale partita a metà gennaio, sul quale far scattare un parziale realizzo dei guadagni per poi mettersi alla finestra in vista del possibile mese no, tradizionalmente maggio, seguendo l’adagio dei mercati anglosassoni «sell in may and go away».
Chi abbraccia questa ipotesi lo fa soprattutto con un occhio puntato su Wall Street, dal cui andamento le altre piazze occidentali non possono prescindere, e con l’altro sulla Grecia: nel primo caso l’argomento forte è la capacità del superdollaro di zavorrare la crescita degli utili delle grandi società del New York Stock Exchange a vocazione internazionale, i cui prodotti o servizi diventano progressivamente meno competitivi in termini di prezzo man mano che il biglietto verde si rafforza nei confronti dell’euro (+22% il cambio dallo scorso giugno a oggi, +23% il dollar index), dello yen e della sterlina inglese, ovvero delle valute dei principali mercati di sbocco del Made in Usa.
La prossima settimana, in cui cominceranno a essere snocciolati i risultati del primo trimestre dei gruppi americani, si potrà toccare con mano quali danni ha procurato l’ulteriore apprezzamento del 10% del dollaro nei confronti dell’euro da inizio 2015 (+8,7% per il dollar index), offrendo così la possibilità di valutare tramite il rapporto prezzo/utili (p/e) se il vicino record storico toccato a inizio marzo dall’S&P500 a quota 2.120 e praticamente bissato il 23 dello stesso mese, sia un livello sostenibile oppure sia eccessivo, varando in quest’ultimo caso una fisiologica correzione.
La prima avvisaglia in questo senso si ritroverebbe qualora l’indice delle 500 blue chip Usa scivolasse al di sotto del primo sostegno grafico a 2.040 punti, inviolato da inizio febbraio, il che aprirebbe immediati spazi di discesa fino al successivo importante supporto ben visibile a quota 1.980-1.970, livello che dallo scorso novembre ha arginato le tre fasi di debolezza susseguitesi in dicembre e gennaio: in un simile scenario l’S&P500 subirebbe una perdita di quasi il 6% rispetto all’ultima quotazione di chiusura della settimana appena conclusa, trascinando inevitabilmente verso il basso le piazze europee.
Se questo scenario di breve non trovasse riscontro, cioè se l’indice americano mantenesse inviolato il primo livello di guardia a quota 2.040 nei momenti di debolezza, riuscendo magari a ritoccare i record storici in quelli di forza, allora continuerebbe a trovare espressione il potenziale rialzista in capo alle piazze azionarie dell’Eurozona, rimandando l’incertezza al momento in cui la Fed deciderà sul primo inasprimento del costo del denaro; oppure al successivo appuntamento con le trimestrali della Corporate America in agenda per metà giugno, dove si potrà valutare l’impatto di un cambio euro-dollaro sulla parità (questo il prossimo obiettivo verosimile secondo l’analisi tecnica). In realtà, oltre a guardare al di là dell’Oceano, gli investitori guarderanno anche alla Grecia. Il governo di Alexis Tsipras dovrà infatti presentare un programma economico, ma soprattutto finanziario, che possa essere accettato dall’Eurogruppo fissato per il 24 aprile e dunque dai creditori che possiedono gran parte del debito estero di Atene (Fondo salva Stati dell’Ue, Bce, Fmi), se vuole ottenere l’ultima tranche di aiuti concordata dal precedente governo per 7,4 miliardi di euro; in caso contrario non riuscirà nemmeno a far fronte ai due impegni finanziari dell’1 e del 12 maggio nei confronti del solo Fmi per un totale di 1 miliardo di euro, incappando tecnicamente nel default. Ma un piano (ancora una volta lacrime e sangue) gradito ai creditori esteri non è però sufficiente: l’altro passo indispensabile consiste nell’accettazione del programma nei giorni subito successivi da parte del Parlamento greco, con il rischio di una spaccatura dell’attuale maggioranza.
Nel caso in cui la Grecia riuscisse a dribblare queste due grandi insidie, scongiurando il rischio di uscita accidentale dall’euro, il rialzo dei listini proseguirebbe anche nel mese di maggio, Wall Street permettendo. Il Qe in atto nell’Eurozona sta infatti svolgendo in pieno il suo lavoro, così come lo hanno assolto a loro volta le tre fasi di allentamento quantitativo varate dalla Fed dal 2009 allo scorso autunno, fornendo sempre un potente sostegno al mercato azionario Usa anche attraverso la svalutazione del dollaro, oltre che con il mantenimento dei rendimenti obbligazionari ai livelli minimi, a prescindere dal flusso di vendite che le banche riversavano sul mercato in cambio di liquidità. In più, oltre alla svalutazione della moneta unica che sta rilanciando il pil attraverso l’export di Eurolandia, i mercati azionari dell’area possono trarre vantaggi aggiuntivi in termini di domanda grazie al prezzo molto basso del petrolio, che si trova in prossimità del punto di minimo del 2009 contribuendo sensibilmente all’avanzamento dell’economia europea; inoltre, i rendimenti obbligazionari sono vicini allo zero per tutte le scadenze, o perfino negativi sulle scadenze fino a 5-7 anni, per i Paesi core dell’Unione, mentre per gli Stati periferici lo spread si è compresso a un livello tale da non trovare più sostanziali spazi di discesa fino a quando non rientrerà definitivamente il rischio Grecia. Una simile situazione stimola l’attività economica attraverso i più bassi costi del debito e attraverso maggiori risorse a disposizione delle banche, mentre sul fronte degli impieghi rende molto più appetibile l’investimento in azioni rispetto agli inconsistenti ritorni offerti da quello obbligazionario, che ora non lascia nemmeno più intravedere guadagni aggiuntivi in conto capitale dopo la forte ascesa dei prezzi dei bond che ne hanno compresso i rendimenti (+3,6 i prezzi del decennale tedesco da inizio 2015, +4,9% quelli del Btp a 10 anni).
A questo punto sorge la domanda: se vendo azioni cosa compro? Non ci sono infatti valide alternative, al di fuori dei bond a breve scadenza (un anno circa) di alcune valute emergenti ad alto rendimento (real brasiliano, rand sudafricano, lira turca e peso messicano) in cui può essere diversificata una fetta non preponderante del portafoglio, affiancata da una parte quasi analoga di T-Bill Usa al massimo a un anno nell’ipotesi che il biglietto verde sia diretto verso la parità con l’euro. Anche tra le piazze emergenti le uniche di un certo interesse rimangono l’India e in seconda battuta la Cina, mentre tra i Paesi sviluppati l’interesse principale è per il Giappone e l’Eurozona: tra queste Piazza Affari è ancora quella indiscutibilmente più indietro in termini di quotazioni e quindi ha i maggiori margini di recupero. Il Ftse Mib rispecchia fedelmente la situazione del comparto bancario, e dunque ha la stessa necessità di tirare prima o poi il fiato dopo la corsa degli ultimi mesi, così come hanno corso molto alcuni segmenti del comparto industriale grazie al minieuro, per poi ripartire su basi più solide: varcato l’ostacolo a 24.500, l’indice italiano avrebbe il livello attorno a 29.000 punti come successivo target.
Massimo Brambilla, MilanoFinanza 11/4/2015