Virginia Della Sala, il Fatto Quotidiano 11/4/2015, 11 aprile 2015
CONTRORDINE: JOBS ERA UMANO
Se l’universo costruito da un genio sopravvive alla sua morte, il suo compito può dirsi compiuto. Se invece, dopo quattro anni dalla sua morte, l’universo creato da Steve Jobs è ancora in crescita e ha superato i 74,6 miliardi di euro di fatturato nel primo trimestre del 2015, il suo genio paradossalmente si ridimensiona. La Apple e Jobs sono sempre stati sinonimi.
Jobs aveva fatto storia, aveva spinto il suo amico Wozniak, mago dell’ informatica, a realizzare calcolatori potenti, aveva creduto tanto nel proprio intuito da vendere il furgoncino Volkswagen per fondare la Apple, si era opposto al dominio di Microsoft. Aveva cambiato la storia e la tecnologia e creato un impero su un’idea.
Il primo spot al suo ritorno in Apple nel 1997, dopo essere stato cacciato e poi richiamato per sventare la bancarotta, era una pubblicità che mostrava in sequenza Einstein, Bob Dylan, Martin Luther King, Branson. A chiuderlo, due parole e nessun prodotto: “Think different”, pensa in modo diverso. Poi, biografia dopo biografia, il mito del suo carattere dispotico, sociopatico e dittatoriale si è sgretolato.
Poco dopo la morte di Jobs, nel 2011, il giornalista Usa Walter Isaacson si affretta a pubblicarne la biografia autorizzata (Steve Jobs, Mondadori). Venderà più di tre milioni di copie in tutto il mondo. Era stato Jobs a scegliere Isaacson, gli aveva concesso di parlare con tutti, lo aveva lasciato libero di muoversi. Gli aveva raccontato, in più di 40 interviste, dell’elogio dell’Lsd, degli episodi di bullismo, dell’odio per Android, del rifiuto di riconoscere la figlia naturale, dell’iniziale repulsione nei confronti delle pratiche mediche occidentali per curarsi dal cancro.
Scelta, questa, di cui si sarebbe pentito. Emergeva la figura dell’eroe negativo, quella dello scienziato pazzo ma giustificato dalla sua genialità: interrompeva le persone definendone le idee “stupidaggini”, licenziava i dipendenti in pochi secondi, non distingueva tra amici e nemici ma, tutelato dalla sua consapevole intelligenza, allontanava chi non poteva aiutarlo a far crescere l’azienda e a compiere così la missione della sua vita.
L’attuale ad di Apple, Tim Cook, il vicepresidente Eddy Cue e il vicepresidente del settore design Jonathan Ive hanno concordato su un aspetto: che quella biografia, che Jobs forse non ebbe il tempo di rivedere (salvo discutere per mesi su quale fosse la migliore immagine di copertina) non rispecchiava la sua identità. Jobs, in fondo, non era così tanto spietato.
Un altro libro ha contribuito a umanizzare il genio ribelle. Yukari Iwatani Kane, giornalista del Wall Street Journal, nel marzo del 2014 pubblica Dopo Steve Jobs (in Italia nel febbraio del 2015, edizioni Piemme). E dopo, e dietro, Steve Jobs c’è Tim Cook. Il giorno e la notte. Jobs intuitivo, creativo e volubile, Cook pragmatico, efficiente, operativo e razionale. È la prova che la Apple viveva grazie all’efficienza di chi era in grado di gestire la produzione e la catena industriale, pretendendo che i dipendenti lavorassero anche a Natale. Cook è il genio tenue, nascosto.
Sarà scoperto, assieme all’umanità e alla malattia di Jobs, nel 2009. È stato lui a rassicurare gli azionisti, preoccupati per il futuro della Apple dopo la morte di Jobs. Lui a mantenere alti gli standard nonostante la pressione di azionisti e analisti. Lui a lanciare l’Apple Watch. Jobs, intanto, mostra le sue debolezze. Per i dipendenti, l’assenza di scatti d’ira, il fatto che li lasciasse parlare ai meeting e che, durante un incontro riservato a 100 prescelti fosse salito sul palco e avesse detto “Avete Steve Jobs davanti a voi. Siete i miei uomini, potete chiedermi quello che volete” era segno dell’aggravarsi delle sue condizioni di salute. Come quando, per l’anniversario dei 20 anni di matrimonio, impara a disegnare i cuori. Pretende di farlo in modo “perfetto”, ma si commuove a lavoro finito.
L’ultima evoluzione del personaggio è in Steve Jobs Confidential, la biografia non autorizzata pubblicata in Italia il 7 aprile da Sperling & Kupfer, il 24 marzo scorso in Usa. A scriverla, due giornalisti: Brent Schlender del Wall Street Journal, che racconta in prima persona dei suoi incontri con Jobs, e Rick Tetzeli, editor di Fortune. Il titolo è Becoming Steve Jobs, “diventare Steve Jobs”: l’intenzione è spiegare l’evoluzione del genio in quattro macro sezioni. La fondazione di Apple, l’esperienza di NeXT e Pixar, il ritorno in Apple e la malattia. Tim Cook l’ha definita “la vera storia di Steve Jobs”: in realtà è il libro riparatore all’impietosa biografia di Isaacson. Il racconto è lo stesso, ma per la prima volta emerge una figura positiva, umana. I fantasmi sono rinchiusi in soffitta, nell’ultimo capitolo.
Schlender racconta che Cook si era offerto di donare a Jobs una parte del fegato per aiutarlo a guarire. “Tagliò corto prima ancora che avessi finito di parlare, scattò sul letto e mi disse no, non ti permetterò mai di farlo”. E, a pagina 425, quasi senza che il lettore se ne accorga, sta nascendo il nuovo eroe di Apple: Tim Cook. “Penso che il libro di Isaacson abbia reso a Steve un pessimo servizio – dice in un’intervista – Si ricava l’impressione che fosse un uomo meschino, egoista ed egocentrico. Non è certo qualcuno con cui avrei accettato di lavorare per tutti quegli anni (13 ndr). La vita è troppo breve”. Ma la conquista dell’impero vale tutta la pazienza del mondo.
Virginia Della Sala, il Fatto Quotidiano 11/4/2015