varie 11/4/2015, 11 aprile 2015
ARTICOLI SULLA CANDIDATURA DI HILLARY CLINTON DAI GIORNALI DI SABATO 11 APRILE 2015
PAOLO MASTROLILLI, LA STAMPA -
Al numero uno di Pierrepont Plaza sembra una normale giornata uggiosa di timida primavera, ma negli uffici di Brooklyn che Hillary Clinton ha scelto per lanciare il secondo assalto alla Casa Bianca i suoi collaboratori sono già tutti ai posti di lavoro. La campagna comincerà domani, con un annuncio sui social media e un video, seguito da due visite in Iowa e New Hampshire.
Un posto nella storia
Qui però è già partita, e una fonte interna assicura: «Stavolta non sbaglieremo. Hillary non proietterà l’immagine imperiale del 2008, quando sembrava che gli americani dovessero offrirle la presidenza sopra un piatto d’argento. Lavorerà duro per conquistare la classe media, e convincerla che può risolvere l’emergenza della diseguaglianza economica, senza abbandonare il centro vitale dello schieramento politico».
Come Napoleone, Hillary è stata due volte nella polvere e due volte sugli altari, ma è la terza che farà la storia, in un senso o nell’altro. Da giovane, ex repubblicana, carriera da avvocato davanti dopo la laurea a Yale, si era lasciata affascinare da un ragazzone dell’Arkansas di nome Bill, che le aveva cambiato la vita. Era finita sull’altare come first lady, prima nello Stato del marito e poi alla Casa Bianca, ma anche nella polvere dei suoi tradimenti, da Jennifer Flowers a Monica Lewinsky, e dell’odio politico suscitato, soprattutto con la fallita riforma sanitaria. Forte, determinata, aveva scelto di restare al fianco di Bill, salvandolo prima dalla sconfitta nelle primarie del 1992 e poi dall’impeachment. E così, nell’umiliazione, aveva finalmente conquistato il cuore degli americani, o almeno dei newyorchesi, che l’avevano eletta come prima first lady diventata senatrice.
La sconfitta e la rinascita
Nella polvere ci era tornata nel 2008, quando si era candidata alla Casa Bianca convinta di avere il diritto di entrarci, e invece si era vista sbattere la porta in faccia da Barack Obama, il primo nero presidente venuto dal nulla. Anche lì la forza e la determinazione, aiutate dalla sagacia del sodalizio politico con Bill che aveva rimpiazzato l’amore di gioventù, l’avevano aiutata a rialzarsi. Aveva fatto pace con Obama e accettato di diventare segretario di Stato, legittimandone l’elezione che sul piano della politica estera era venuta nel nome dell’opposizione alle guerre in Iraq e Afghanistan. Ora i critici diranno che la capitolazione di Hillary, culminata nel mortale attacco al consolato di Bengasi, è stata una ragione che ha favorito la linea debole dove hanno trovato spazio prima Assad e poi il califfato dell’Isis. Lei però era tornata sugli altari, quando stava al dipartimento di Stato, e forse ne è uscita abbastanza in tempo per non portare la responsabilità delle crisi degli ultimi due anni, e condividere il successo ancora incerto dell’accordo con l’Iran.
Ostacoli e (pochi) rivali
I sondaggi dicono che Hillary non ha rivali fra i democratici, ma anche fra i repubblicani. È presto però, e nuovi scandali, come quello delle mail private usate da segretario di Stato, l’hanno già indebolita. Per rispondere a queste critiche, e raccogliere i finanziamenti di una campagna che costerà intorno ai 2 miliardi di dollari, i suoi consiglieri hanno deciso di lanciare subito la corsa. In sordina, però, per non ripetere gli errori del 2008.
La sinistra del Partito democratico l’accusa di essere troppo vicina a Wall Street e vorrebbe al suo posto la senatrice Elizabeth Warren, che tuttavia non vuole correre. Hillary allora l’ha incontrata per depotenziarla, promettendo di assorbire nel programma i suoi temi, e magari dandole il ruolo chiave di garante dei liberal nell’eventuale amministrazione. Quindi ha aggiunto un nuovo capitolo alla biografia «Hard Choices», basato sulla nascita a settembre della nipotina Charlotte: «La nozione dell’eguaglianza delle opportunità è stata al cuore dell’esperimento americano fin dall’inizio. Io sono sempre più convinta che il nostro futuro nel 21° secolo dipenderà dall’abilità di assicurare che un bambino nato sulle colline degli Appalachi, il Delta del Mississippi o la valle del Rio Grande, cresca con le stesse possibilità di successo di Charlotte».
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FEDERICO RAMPINI, LA REPUBBLICA 11/4 -
E ora il nemico da battere si chiama: ineluttabilità. Ieri lo staff di Hillary Clinton ha annunciato quel che tutti sapevano. Sette anni dopo il terribile 2008, quando la favoritissima in campo democratico fu battuta alle primarie dal giovane outsider Barack Obama, lei ci riprova. Domani parlerà alla nazione, con un video diffuso attraverso i social media: YouTube, Facebook & C. Già in quel messaggio cercherà un tono umano, simpatico, seducente, motivante. Per dare il “la” a una campagna che deve essere molto diversa dalla precedente. Clinton parte, di nuovo, in pole position. Ma sa quanto sia pericoloso fare la corsa in testa, lo ha provato sulla sua pelle. Non ha un solo rivale che si sia dichiarato in campo democratico: c’è tempo, però questa solitudine in vetta dà un’idea della sua forza.
I movimenti della sinistra di base scalpitano e si agitano: MoveOn, Democracy for America, hanno lanciato Elizabeth Warren come possibile concorrente, ben più radicale. Per ora la Warren non ci sta. E tuttavia Hillary prende sul serio questa sfida alla sua sinistra. Parla sempre più spesso di diseguaglianze sociali, salari che ristagnano, mobilità bloccata, arroganza dei privilegiati: proprio i temi che hanno reso celebre la Warren che fu vicina al movimento Occupy Wall Street.
Calibrare un messaggio e un programma più spostato a sinistra — soprattutto in confronto al centrismo con cui governò suo marito Bill — è parte di questa costruzione di una Hillary 2.0. La “nuova Hillary Clinton” deve riuscire a ripetere i due exploit di Obama: le vittorie del presidente nel 2008 e nel 2012 furono costruite su una inedita “coalizione arcobaleno”: donne, giovani, neri, ispanici, asiatici, gay. A parte le donne, che verso Hillary avranno un occhio di riguardo, le minoranze che diedero una spinta decisiva a Obama, sono tutte da riconquistare. Giovani, immigrati, neri: non è detto che si sentano trascinati da una signora 67enne, una professionista della politica di lungo corso, legata a doppio filo all’establishment, con il tocco “dinastico” che le viene dal cognome del marito ex-presidente. Questa era la vecchia immagine della Clinton. Quella nuova, va costruita pezzo per pezzo a partire dal video-annuncio di domani.
In America, da tempo le elezioni si vincono anzitutto sulle percentuali di affluenza alle urne. La regola è abbastanza semplice: se sale l’astensionismo, vuol dire che votano soprattutto i bianchi anziani, la componente più disciplinata e fedele, cioè un elettorato a maggioranza repubblicano. Perché vinca un democratico devono andare alle urne in massa tutti gli altri: la Nuova America, cioè le minoranze etniche e i giovani. Hillary deve concentrarsi su di loro, visto che il Tea Party ha già una solida presa sull’America Wasp (white anglo saxon protestant) di mezza età. Ma proprio la mancanza di rivali — almeno per ora — in campo democratico rischia di rendere il suo compito paradossalmente più difficile. Un vivace dibattito interno nelle primarie genera attenzione, alimenta passioni, quindi crea una dinamica che può alzare l’affluenza alle urne. L’ineluttabilità, se trasforma la prima parte della campagna di Hillary in una tranquilla passeggiata verso l’incoronazione del suo partito, susciterà più sbadigli che entusiasmi. Per fortuna ci penseranno i repubblicani a concentrare su di lei il fuoco nemico, in modo da creare almeno un po’ di eccitazione. Dall’affaire Bangasi alle email distrutte, hanno già cominciato a sollevare scandali. Su una cosa dovranno essere cauti: la tentazione del sessismo. Guai se gli attacchi contro Hillary dovessero apparire come un’offensiva contro di lei in quanto donna, questo errore potrebbe essere fatale nell’America del 2016.
La missione più importante per Hillary è proprio questa: dimostrare che si può infrangere l’ultimo “soffitto di vetro”, come gli americani chiamano quel limite invisibile eppure reale che ostacola l’ascesa delle donne. Questo è l’aspetto più entusiasmante della sua campagna: le dà una dimensione storica, la corsa per abbattere l’ultima barriera.
Mentre il suo video-annuncio verrà diffuso, domani Hillary sarà già sul terreno: nello Stato dell’Iowa, il primo ad ospitare le primarie (in forma di “caucus”), quello che nel 2008 la costrinse ad un umiliante terzo posto dietro Obama e John Edwards. Questa volta Hillary non vuole correre rischi, non lascerà nulla al caso, starà attenta a non snobbare nessuna constituency. Il suo programma elettorale guarderà in particolare ai temi economici, per tentare di riconquistare quella middle class impoverita, impaurita e scontenta, che perfino dopo cinque anni di ripresa e 15 milioni di posti di lavoro creati, continua a soffrire d’insicurezza: il suo potere d’acquisto ristagna da trent’anni. Intanto il suo stratega elettorale John Podesta ha inaugurato un nuovo stile anche con la stampa: preparando spaghetti alla puttanesca per i giornalisti. Un’altra “constituency” che in passato non ha avuto rapporti facili con il clan dei Clinton.
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MARIA LAURA RODOTA’, CORRIERE DELLA SERA -
Hillary Clinton annuncia domani di essere in corsa per la Casa Bianca. È in corsa, di fatto, dal 2000. È la corsa finale, per la politica americana più famosa di sempre, per la donna al tempo stesso formidabile e delusionale che dal 1992 al 2000 è stata alla Casa Bianca da first lady e dal 2000 a oggi ha lavorato per tornarci da presidente. È stata senatore, candidata partita favorita sconfitta alle primarie, segretario di Stato, e negli ultimi quattro anni richiestissima oratrice a pagamento (cara) per la Clinton Foundation. Della fondazione di famiglia, che ha ricevuto milioni di dollari da governi stranieri quando Hillary era il capo della diplomazia americana — e che continua a riceverne — si parla e si parlerà. Come della famiglia, di Chelsea che l’ha resa nonna, e dalla nascita di Charlotte Hillary si comporta e twitta come la prima nonna dell’umanità; del marito Bill. Che, pare, stavolta sarà meno presente in campagna elettorale. E, quando ci sarà, sarà sorvegliato da un consulente-badante. È una delle novità nella strategia di Hillary.
La quarta
guerra clintoniana
Il quartier generale della candidata è a Brooklyn Heights, a Montague Street, citata nella canzone Tangled Up in Blue di Bob Dylan: «Vivevo con loro a Montague Street/in un sottoscala seminterrato/c’era musica nei caffè la sera/e rivoluzione nell’aria». Proprio rivoluzione, no. Nell’aria, pronto da giorni, c’è l’annuncio della discesa in campo con un video, tipo Silvio Berlusconi, però sui social network. E delle tappe classiche, i viaggi in Iowa e New Hampshire, gli stati delle prime primarie, dove Hillary minaccia una guerra-lampo non tanto lampo, si vota nel gennaio 2016. Nel frattempo, dicono, si dedicherà a raccogliere «un’insana montagna di soldi», più soldi di sempre. E il 23 aprile terrà il primo discorso pubblico importante al Women In The World Summit di New York. Per ribadire il suo impegno in favore delle donne che sarà un suo tema centrale (e per lei sarà cruciale il voto femminile).
Ma poi, dicono i suoi, nella quarta guerra clintoniana — dopo due campagne presidenziali per Bill e una per Hillary — ci saranno meno grandi battaglie/eventoni e più guerriglia sul territorio: tanti incontri con piccoli gruppi di elettori, molto ascolto, minore uso del pronome «io». E — novità assoluta — Clinton tenterà di trattare bene i media. Giovedì sera, prima dell’annuncio dell’annuncio, il suo «campaign chairman» John Podesta ha invitato a cena a casa sua due dozzine di giornalisti. Non si sa quanto durerà, però.
Clinton-La serie
Paragonati a Bill e Hillary, gli shakespeariani coniugi Macbeth paiono Clemente e Sandra Mastella, discussi ma bonari. Paragonarli a Frank e Claire Underwood della serie House of Cards ha più senso, tenendo conto che Bill è simpaticissimo e il personaggio di Kevin Spacey no, che Hillary non è un’ex debuttante ma un ex mega-avvocato. E che — parole di Bill — «House of Cards è vera al 99 per cento». E quel 99 per cento di certo valutato dal Big Dog fa pensare al Lato Oscuro clintoniano. Molto oscuro, la loro coppia di potere — è difficile pensare l’uno senza l’altra, anche se fanno vite separate da quindici anni — è fondata su tanti misteri. Le beghe dell’Arkansas, dove Clinton era governatore, il Troopergate (forze dell’ordine più amanti di Bill) al Whitewater (bancarotta immobiliare, amici in galera, un socio di Hillary portato alla Casa Bianca, Vince Foster, suicida). Le amicizie di Bill nel mondo della finanza molto importante o molto cialtrona. La fondazione e le migliaia di email cancellate quando, per gli affari di Stato e quelli di famiglia, Hillary usava la posta di casa. E poi lo scandalo più famoso, le bugie di Bill sulla stagista Monica Lewinsky. Hillary fu solidale in pubblico; in privato, si legge nel nuovo libro pettegolo sulla Casa Bianca The Residence , la first lady disse di tutto al presidente, anche giustamente.
D’altra parte,«gli elettori più giovani non ricordano i “Clinton scandals”, e per lei è una fortuna» nota il National Journal . E Hillary è di nuovo favorita, ma, di nuovo, il risultato non è scontato.
Il fantacalcio elettorale
Le elezioni americane sono, per gli appassionati di politica, un gran campionato da seguire. Gli esperti più ascoltati, ormai, sono gli specialisti di statistica sportiva alla Nate Silver. I candidati democratici alle primarie, allo stato attuale, non hanno una chance contro Hillary. Qualche repubblicano — per ora, poi chissà, comunque lo spettacolo deve andare avanti — potrebbe darle fastidio negli stati in bilico. In alcuni, secondo i sondaggi, potrebbe perdere contro Rand Paul (che non avrà la nomination), o Scott Walker (che potrebbe anche vincerla). Ovunque, inizia la partita di Hillary (ultima ma anche penultima, se vincesse, certo coi Clinton non si sa mai).
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MARIO DEL PERO, IL MESSAGGERO –
Pochi lo avrebbero immaginato, dopo la cocente sconfitta alle primarie democratiche del 2008. Ma ai Clinton non fanno difetto né l’ambizione né la tenacia. Alle quali, nel caso di Hillary, va aggiunta anche una straordinaria auto-disciplina che l’ha portata ad attendere pazientemente per otto anni la sua seconda chance di essere eletta alla Presidenza. Hillary ha scelto di spendere la prima metà di questi servendo Obama come segretario di Stato.
Un segretario di Stato straordinariamente attivo e dinamico e al contempo leale e fidato: attento a non oscurare in alcun modo il presidente e a evitare polemiche e controversie. E attento, quindi, a ricostruire i rapporti con quei settori del Partito Democratico che non le avevano perdonato le asprezze e, anche, i colpi bassi della campagna del 2008. A quest’opera di mediazione politica è corrisposto il consolidamento di un’immagine di statista che l’esperienza al dipartimento di Stato ha ulteriormente rafforzato.
Completato questo processo, la Clinton è uscita dall’amministrazione e ha attentamente preparato il lancio della sua candidatura. È scomparsa dalla scena pubblica per ritemprarsi dagli sforzi di un quadriennio davvero faticoso. Ha scritto l’autobiografia – piatta, convenzionale e moderatamente auto-ironica – di circostanza. Ha iniziato a raccogliere finanziamenti e costruire quella che si prospetta essere come una straordinaria macchina elettorale. Ha, con attenzione e abilità, preso le distanze dalla politica estera di Obama e da una visione strategica giudicata passiva e insufficientemente ambiziosa.
Le elezioni possono sempre riservare delle sorprese e l’esempio del 2008 è lì a ricordarcelo. Ora come ora, però, è davvero difficile che qualcuno possa contestare a Hillary Clinton la nomina democratica. Troppo potente e capillarmente radicata sul territorio l’apparato elettorale costruito; troppo ingenti le risorse a disposizione, con tutti i maggiori finanziatori democratici pronti a sostenerne la campagna; troppa l’aura d’inevitabilità che circonda la candidatura. Le candidature emerse finora, su tutte quella dell’ex governatore del Maryland Martin O’Malley, non dispongono dei mezzi, della notorietà e del peso politico necessari per essere competitive.
L’unica vera alternativa potrebbe essere rappresentata dalla nuova icona della sinistra democratica, la senatrice del Massachusetts Elizabeth Warren, che però non sembra avere intenzione di correre e partirebbe comunque ad handicap, dovendo costruire una campagna (e una struttura nazionale) praticamente da zero.
Con il suo profilo e le sue risorse, Hillary Clinton sarebbe favorita per la stessa Presidenza. Anche perché potrebbe mobilitare appieno un voto femminile che già nel 2012 risultò decisivo, visto che andò per il 56% a Obama e per il 44% a Romney (nel voto maschile, invece, Romney prevalse 54 a 46). E un voto femminile che pesa di più perché maggiore in termini assoluti e perché contraddistinto da una minore propensione all’astensione (nel 2012 il tasso di partecipazione al voto delle donne fu di 4 punti percentuali superiore a quello degli uomini).
Ecco perché Hillary Clinton appare favorita in prospettiva 2016. Ma nell’anno e mezzo che la separa dal voto dovrà fronteggiare ostacoli non da poco che potrebbero farne deragliare la candidatura. Innanzitutto gli scandali che, assieme al successo politico, hanno scandito la storia dei Clinton. Scandali oggi legati all’uso assai disinvolto che Hillary Clinton ha fatto dei protocolli in materia di utilizzo e conservazione delle fonti elettroniche durante il suo periodo al dipartimento di Stato Usa, quando invece di usare il normale account governativo (che archivia automaticamente tutte le comunicazioni) si affidò a una e-mail privata della quale, però, mancano oggi molti messaggi.
In secondo luogo potrebbe pesare, come già nel 2008, un desiderio di novità e cambiamento che una candidatura come quella di Clinton non può – per storia personale ed anagrafe (68 anni) – intercettare. Infine, l’eventuale capacità repubblicana di trovare un candidato giovane, capace e dinamico potrebbe sparigliare le carte. Ma questa appare oggi ipotesi davvero molto remota.
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GIUSEPPE DE BELLIS, IL GIORNALE -
E quindi Hillary Clinton si candida alla Casa Bianca. Ufficiale e scontato. Perché candidata lo è di fatto dal 4 gennaio 2008, da quando cioè perse le prime primarie in Iowa contro Barack Obama. Lei era lei, lui non era ancora lui. Hillary perse e cominciò una lunga agonia verso la rinuncia a una candidatura che alla vigilia e sulla carta pareva cosa fatta. Prima donna alla Casa Bianca, dicevano. Invece fu il primo afroamericano. Otto anni dopo la Clinton è lì, di nuovo. E di nuovo: prima donna presidente, ma anche prima First Lady presidente, prima dinastia orizzontale anziché verticale.
Sarà, anzi è, un referendum: o con lei o contro, perché oggi come allora parte da favorita. Unica di quelli che stanno pensando di provarci che alla Casa Bianca ci pensa quantomeno dal giorno in cui uscì da First Lady nel 2000. Fu allora che cominciò la lunga e lenta corsa verso la candidatura del 2008. Stessa persona, stesso personaggio, diversi il contesto e l’atteggiamento: non un annuncio con i fuochi d’artificio, ma un tweet e un video che saranno messi in rete domani. Hillary è Hillary, sempre. L’America è l’America. E quindi: sarà ancora come allora. Come si muove, come parla, come si comporta, come tratta Bill, chi sceglie. Le sue rughe e i suoi capelli. Candidata, moglie e madre e ora anche nonna. Hillary con tutti, contro tutti e contro se stessa. Il primo test arriva tra nove mesi, a gennaio in Iowa. Deve vincere prima contro gli sfidanti del suo partito, a cominciare dalla senatrice Elizabeth Warren, che è molto più a sinistra di lei: dicono che la Clinton avrà come punto forte della sua campagna la lotta alla diseguaglianza economica ricchi-poveri. Terreno difficile, per lei che oggi è la preferita di Wall Street. Poi toccherà agli avversari: tra i repubblicani sono candidati il libertario Rand Paul, il senatore Ted Cruz, arriveranno l’altro senatore ispanico Marco Rubio, poi probabilmente altri. Tra cui Jeb Bush. Hillary è davanti, per potenza economica, per preparazione, per attesa. Basta? In America non si sa mai se può bastare. Domani comincia una campagna elettorale lunga. Si vota a novembre del 2016. È una vita.
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ROLLA SCOLARI, IL GIORNALE -
Ha cambiato l’epilogo della sua autobiografia, venerdì: «Essere diventata nonna mi ha fatto pensare profondamente alle responsabilità che tutti condividiamo - ha scritto Hillary Clinton sull’Huffington Post, parlando della nipotina Charlotte - Piuttosto che farmi rallentare mi ha spinto ad accelerare». Hard Choices, le sue memorie, sono uscite a giugno, mentre si irrobustivano le speculazioni su una sua seconda candidatura alla presidenza.
Per mesi, Hillary ha fomentato la discussione nel dubbio, costruendo il più lungo «forse» della storia politica americana degli ultimi anni, che potrebbe trasformarsi in «certo» nelle prossime ore. Giornali americani e internazionali hanno rivelato, citando fonti interne alla squadra Clinton, che durante il week-end - a mezzogiorno ora della East Coast americana e via Twitter, secondo il Guardian - l’eterna indecisa metterà fine ad anni di meditazioni.
Che un annuncio sarebbe arrivato entro aprile lo si era iniziato a immaginare nei giorni scorsi, quando è emerso che lo staff di Hillary ha firmato un contratto d’affitto per spazi ufficio nella Brooklyn più hip, tra le vie chic di Brooklyn Heights, a pochi passi dalla passeggiata sull’East River con vista dello skyline di Manhattan. Secondo le leggi federali i candidati hanno un tempo limitato per pagare strutture e staff senza dichiarare prima le proprie intenzioni di presentarsi al voto.
Il «forse» di Hillary Clinton è iniziato nel 2013, al termine della sua avventura al Dipartimento di Stato. Da allora, la ex first lady ha attraversato gli Stati Uniti tenendo conferenze e discorsi, ha sostenuto i candidati democratici alla débâcle elettorale del voto di mezzo termine a novembre 2014, ha discretamente coltivato una folta schiera di donatori - presente già dall’era delle campagne del marito Bill e dalla sua corsa alle primarie nel 2008 - e costruito una squadra pronta a mettere in piedi una campagna elettorale.
La scelta di annunciare la propria candidatura sui social-media, forse con un video, racconta gli errori del passato, quando Hillary si piegò all’abilità dello sfidante Barack Obama e del suo entourage a farsi strada tra elettorato e donatori con i new media. E la scelta di volare immediatamente dopo in Iowa, stato in cui al voto anticipato Clinton era arrivata terza dietro non soltanto a Obama ma al senatore John Edwards, è una mossa tattica. Il vero problema di Hillary, che potrebbe diventare il primo presidente donna degli Stati Uniti, è infatti il suo troppo passato. Non contano tanto gli errori nella campagna del 2008, quanto i suoi anni come first lady e quelli alla guida del Dipartimento di Stato. Ciclicamente risorgono le controversie: i fondi ricevuti dalla Fondazione Clinton da governi stranieri, l’uso poco trasparente di un account e-mail privato quando era segretario di Stato, le polemiche sulla gestione degli eventi tragici di Bengasi, quando nel 2011 fu ucciso l’ambasciatore Christopher Stevens.
Il nome Clinton pesa ma racconta ancora poco il personaggio, hanno spiegato diverse volte ai giornali figure dello staff di Hillary, che pare essere ora poco interessata agli enormi rally elettorali, ma punterebbe più su eventi ristretti dove possa essere in diretto contatto con la popolazione per riscrivere una diversa narrativa, più terrena e senza filtri, con la quale opporsi ai rivali. Per ora, gli sfidanti mancano però all’appello. Con il suo lungo «forse», Clinton ha infatti indebolito le velleità di altri politici democratici. La sua candidatura è sempre stata data per certa e i pochi democratici che hanno finora dimostrato interesse alla corsa - gli ex governatori Martin O’Malley (Maryland) e Lincoln Chafee (Rhode Island), l’ex senatore della Virginia Jim Webb - non sono (contro Hillary) pesi massimi del partito. Invece in campo repubblicano si sono già candidati Rand Paul (senatore del Kentucky), Ted Crutz (senatore del Texas) e lunedì è atteso l’annuncio della candidatura di Marco Rubio (senatore della Florida).
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LORETTA BRICCHI LEE, AVVENIRE 11/4
L’attesa sta per finire. Hillary Clinton si lancia nella corsa per le presidenziali 2016. La ex First lady dovrebbe annunciarlo ufficialmente domani. Secondo fonti vicine alla Clinton, l’ex Segretario di Stato americano intende fare tesoro del suo precedente tentativo presidenziale, terminato nel 2008 con la sua sconfitta per mano di Barack Obama. E vorrebbe far conoscere le sue intenzioni politiche attraverso i social media.
Una strategia – appunto utilizzata con successo da Obama quando era senatore dell’Illinois – mirata a posizionarla vicino all’elettorato più giovane. Ma utile anche a riempire le casse della campagna elettorale con un elevato numero di piccole donazioni. Indipendentemente da come verrà annunciata la candidatura – indiscrezioni parlano di un video, ma anche di un post su Facebook o di un messaggio su Twitter – l’obiettivo è presentare Hillary come una “comune” americana, vicina ai problemi quotidiani dell’elettorato. E per iniziare fin da subito a corteggiare i voti degli Stati chiave, è prevista presto una puntata personale – e in solitaria, senza la presenza del marito Bill – in Iowa e New Hampshire.
Sebbene nessun membro del partito dell’Asinello abbia ancora lanciato la propria candidatura – tra i nomi dei contendenti ci sarebbero quello dell’ex governatore del Maryland, Martin O’Malley, dell’ex senatore della Virginia, Jim Webb, e della senatrice del Masachussetts, Elizabeth Warren – un sondaggio della Cnn dà la Clinton come vincitrice delle primarie democratiche. Invece, l’ex capo della diplomazia Usa sarebbe solo leggermente in vantaggio nei confronti degli sfidanti del Gop (Grand old party). Addirittura in pareggio con il senatore Rand Paul, uno dei due candidati alle primarie repubblicane insieme con il senatore Ted Cruz, nei cosiddetti swing states (quelli in bilico).
Questo scenario, però, potrebbe cambiare nei prossimi giorni, anche perché, secondo indiscrezioni di stampa, lunedì arriverebbe l’annuncio della discesa in campo del senatore repubblicano Marco Rubio, il beniamino del partito dell’Elefantino, che da protetto dell’ex governatore della Florida, Jeb Bush, potrebbe diventarne ora il diretto nemico nella corsa alla Casa Bianca. La posizione di forza di Clinton, però, è innegabile. Ne è riprova il fatto che i repubblicani hanno già sfoderato le unghie, svelando la campagna pubblicitaria «Stop Hillar» con cui intendono distruggere la sua credibilità. I brevi slogan al centro dell’iniziativa intrapresa dal Republican national committee riportano l’attenzione sui vari “scandali” che hanno coinvolto l’ex First Lady: «Ha usato la propria posta personale per affari ufficiali»; «Ha preso milioni di dollari da governi stranieri»; «Dalla Casa Bianca al Dipartimento di Stato, Hillary ha lasciato una scia di segretezza, scandali e politiche liberali fallimentari che nessuno esperto dell’immagine può cancellare». La sfida è aperta.
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CESARE DE CSRLO, QN 11/4/2015 -
Hillary Clinton ci riprova. La sua candidatura è «inevitabile», scrive il Wall Street Journal. Sarà annunciata presumibilmente online. Dunque domani occhi puntati sui social network. Non un atto di umiltà. Al contrario una dimostrazione di superiorità, destinata a sottolineare proprio quella inevitabilità. La signora, moglie d’arte prima di diventare senatrice e poi segretario di Stato, non ha bisogno di una folla osannante. Per battere i pochi e scoraggiati rivali nella lunga maratona delle primarie, farà a meno di fanfare, bandiere, telecamere. Almeno inizialmente. Le basteranno i 140 caratteri di Twitter o un post su Facebook. E in effetti il suo è il nome più prestigioso di cui disponga il partito democratico. Un partito prostrato dalla deludente presidenza di colui che, nel 2008, proprio alla Clinton aveva strappato la nomination. Ma sette anni fa gli elettori americani avevano voluto voltare pagina. Scartando i politici dell’establishment, si erano affidati al nuovo, anche se il nuovo nella persona di Barack Hussein Obama era un oscuro senatore del Midwest, un abile oratore che nella retorica dello ‘yes we can’ mascherava la sua inesperienza e la sua ideologia socialista. Fra un anno e mezzo la nomination rientrerà nella tradizione e nella prevedibilità.
Ma c’è qualche dubbio che la più nota e ambiziosa donna d’America torni davvero nel bianco villone sulla Pennsylvania Avenue, da dove il marito ha guidato la nazione dal 1993 al 2001. In primo luogo per gli scandali. I Clinton ci sono abituati. Bill subì anche l’impeachment. Secondo presidente dopo Andrew Johnson. Nixon si dimise prima. E quanto a Hillary, proprio in queste ultime settimane sono stati scoperti l’uso improprio delle sue e-mail per gli affari di Stato e i conflitti di interesse per le donazioni di governi stranieri alla fondazione del marito. Tuttavia non saranno gli scandali a renderla vulnerabile. Il candidato repubblicano, forse un altro Bush (ma si annunciano una dozzina di pretendenti), dovrebbe avere gioco facile. Hillary Clinton, 67 anni, è stata corresponsabile dei disastri della politica estera. Se il mondo è esploso nell’inerzia e nell’inettitudine del governo americano, è anche colpa sua.
Cesare De Carlo