Matthieu Aikins, Rolling Stones 4/2015, 10 aprile 2015
IRAQ CONTRO ISIS
Al Ministero dell’interno di Baghdad, in un ufficio decorato da mappe e poster sciiti, mi aspetta l’uomo con il lavoro più difficile del palazzo: il colonnello Riyadh al-Musawi, capo degli artificieri. Lo stato islamico dell’Iraq e della Siria, altrimenti noto come Isis, ha tenuto la città sotto attacco per mesi, costringendo Musawi e i suoi uomini a un compito sempre più pericoloso – tra autobombe, attacchi suicidi e colpi di mortaio su mercati e moschee.Questa mattina Musawi sembra più sciupato del solito. Ha delle borse sotto gli occhi che arrivano quasi alla sua barba felpata. Ha trascorso la notte a districare, per conto di una milizia sciita, un groviglio di ied (ordigni artigianali) che l’Isis ha lasciato dietro di sé durante una ritirata. «Li hanno seppelliti nel deserto, erano tutti collegati», dice, «non ho chiuso occhio per tutta notte». Musawi è un militare di lungo corso e un patriota, eppure passa le notti al servizio di una milizia religiosa. Basterebbe questo per capire il problema che toglie il sonno al Presidente americano Barack Obama: l’Iraq è uno Stato diviso tra milizie, che ha un esercito comandato da filo-iraniani che un tempo combattevano contro gli americani. Le milizie sono riuscite a respingere l’Isis, ma hanno anche esasperato il conflitto settario che divide l’Iraq: quello tra musulmani sciiti e musulmani sunniti. Ora che il governo iracheno (con l’aiuto di quello americano) sta per iniziare la campagna definitiva contro l’Isis, gli Stati Uniti sono in una posizione complicata: hanno mandato armi che, lo sanno bene, sono già finite nelle mani di milizie note per i peggiori abusi. Così facendo rischiano di alimentare la stessa violenza e la stessa corruzione che hanno favorito l’incredibile crescita dell’Isis l’anno scorso.
Si apre la porta ed entra il capo di Musawi, che mi presenta Sheikh Sayed Maher, il leader dell’Asaib Ahl al-Haq (“La lega dei giusti”), uno dei gruppi più noti di quelli che combattono l’Isis. Maher, almeno, è contento di vedermi. Prende il telefonino e mi fa vedere dei video di lui in mimetica e mitragliatrice: «Stiamo combattendo il Daesh», mi dice, usando il termine dispregiativo per Isis, derivato dalla sigla in arabo. Mi invita ad andare a trovarlo e se ne va. Chiedo a Musawi se andare dal malfamato gruppo di Maher possa essere una buona idea. Mi risponde: «Se ci vai forse ti vendono al Daesh».
È difficile immaginarlo, ma cinque anni fa la situazione in Iraq sembrava in via di risoluzione. «Grazie ai sacrifici delle nostre truppe e dei nostri diplomatici siamo ottimisti per il futuro dell’Iraq», diceva Obama nel marzo 2011, qualche mese prima del ritiro delle truppe americane dal Paese. Ma un accordo politico troppo fragile tra sciiti e sunniti e un livello di corruzione incredibile hanno tolto a quell’ottimismo ogni base sensata. Alle elezioni del 2010, l’uscente Nouri al-Maliki è riuscito a tenere il potere nelle mani del suo partito religioso sciita anche se aveva perso al voto. A ogni fazione è stato dato un ministero, le istituzioni sono diventate una parodia. Un professore di un’università di Baghdad mi dice che nel suo ateneo ha dei dottorati disponibili per 10mila dollari l’uno. La primavera araba è arrivata anche qua, il 25 febbraio 2011. «Volevamo occupare anche la nostra piazza Tahrir, come in Egitto», mi dice Ali Sumery, direttore di una tv, «ma il governo ha risposto in modo brutale».
Il fallimento iracheno ha messo le sue radici nei giorni dopo l’invasione americana, quando L. Paul Bremer, incaricato dall’amministrazione Bush di gestire l’occupazione, sciolse l’intero esercito iracheno. Provare a ricostruire un corpo militare nel mezzo di una guerra civile è costato 25 miliardi di dollari ai contribuenti americani in 9 anni. È nato il fenomeno dei fadhaiyin,gli “astronauti”, i soldati che esistono solo sulla carta, i cui stipendi finiscono in tasca agli ufficiali. «È solo una questione di soldi», mi dice Hosham, un negoziante di Baghdad che si è arruolato nel 2006. Il suo battaglione sarebbe nell’ovest dell’Iraq, ma ci va solo quando arriva un nuovo ufficiale e deve andare a rinegoziare la sua paga (circa 1.200 dollari al mese). I gradi si vendono e i soldati hanno armi scadenti. Il caso più imbarazzante è “l’asta per il rilevamento di ordigni”, acquistata dall’esercito. Era un radar cerca palline da golf modificato da un imprenditore inglese (arrestato poi per frode).
Nel frattempo, nel 2011, in Siria è scoppiata una guerra tra sciiti e sunniti più violenta di quella in Iraq. E nell’aprile 2013, Al Qaeda in Iraq ha rinnovato il suo brand: è nato l’Isis. La leadership del movimento era fatta da miliziani sunniti che erano sopravvissuti all’occupazione americana. In quei mesi il primo ministro al-Maliki, per consolidare la sua base di potere, ordinava una repressione feroce delle rivolte sunnite nella provincia di Anbar. L’Isis aveva colto l’occasione e si era stabilito in zona. Più a nord c’è Mosul, dove il potere era nelle mani di un generale sciita noto per la sua crudeltà. Più l’Isis cresceva, e più lui chiamava sicari sciiti: «Arrivavano da Baghdad, in abiti civili», mi dice Khalid, un colonnello di polizia, «si facevano dare una lista di nomi e li uccidevano».
Nelle prime ore del 6 giugno dell’anno scorso l’Isis ha lanciato un attacco sugli edifici governativi di Mosul. Doveva essere solo un raid, ma le forze locali hanno abbandonato le loro posizioni, di fronte a una forza molto inferiore di numero. La caduta di Mosul ha innescato un crollo a catena nel resto del Paese. In meno di due mesi, milioni di cittadini si sono trovati a vivere in territori dell’Isis – che ha requisito carri armati, artiglieria, quantità di munizioni incredibili arrivate dagli Stati Uniti per l’esercito iracheno. Intere divisioni hanno abbandonato le loro postazioni, lasciando larga parte del confine con la Siria senza sorveglianza. A Camp Speicher, ex base americana, reclute e cadetti sono scappati, ma sono finiti nelle mani dell’Isis, che li ha fucilati e scaricati nelle fosse comuni – una crudeltà esibita in video: crocifissioni, torture, decapitazioni. L’Isis è post-moderno: ha capito che lo spettacolo può prendere il posto della realtà e dilagare in tutto il mondo, risvegliando quel conflitto di civiltà che gli jihadisti hanno sempre disperatamente cercato. Ce l’ha fatta, perché ha costretto l’Occidente in uno sdegno impanicato e incoerente.
Con l’esercito in fuga, l’Isis ha puntato su Baghdad. «La gente in città è impazzita, tutti compravano armi e munizioni come matti», mi dice Mohammad (non è il suo vero nome), che ha combattuto nel 2008 nell’armata sciita del temuto Muqtada al-Sadr, rimasta in stato dormiente, e che per Baghdad si è mobilitato di nuovo. «Un Kalashnikov è passato da 600 a 3.000 dollari. Un razzo Katyusha da 200 a 1.200 dollari». Sadr ha ordinato una parata, da organizzare in 6 giorni, per esibire il maggior numero di armi possibile. Il messaggio doveva essere chiaro: lo Stato non può difendere Baghdad, ma le milizie sì. «Erano tutti contenti di poter usare di nuovo le loro armi», dice Mohammad. L’arco difensivo attorno alla capitale, dopo mesi, ha fermato e respinto l’avanzata dell’Isis.
Decido di accettare l’offerta di Sheikh Maher, il comandante che avevo incontrato nell’ufficio degli artificieri. Nella sua carriera c’è la storia dell’Iraq: dopo l’invasione americana si è arruolato nelle forze di sicurezza. Poi, con l’avvento di al-Sadr, si è unito alle sue milizie sciite: ha iniziato l’educazione religiosa nel 2008, ha raggiunto un livello di comando e nel 2012 si è unito alla brutale milizia Asaib. Nel 2013 è andato a combattere i ribelli anti Assad in Siria, per riportare la situazione in favore del regime. «Sempre le solite tattiche: cecchini e ied». Ora è fuori Baghdad a presidiare il fronte orientale. «Quando arriva l’esercito segue i nostri ordini», mi dice, «e se ci servono armi gliele prendiamo». Uccidono gli uomini dell’Isis che catturano. «Perché, cos’altro dovremmo fare?». Un chihuahua entra dalla porta. «Katyusha!», esclama Maher mentre allunga la mano, grande più o meno come il cane. «Ha appena partorito dei cuccioli». Mi mostra un video della cagnetta che gioca con una scimmietta peluche. Il futuro dell’Iraq dipende da uomini come Maher. Mi dice che gli hanno offerto un posto da colonnello e che ci sta pensando: «Vorrei aiutare il mio Paese in modo legale». Ha tre mogli qui e una nel Regno Unito, che però non raggiungerà: «Con questa barba, mi prenderebbero per uno del Daesh. L’Iraq è terribile, ma è casa mia».
Sulla strada del ritorno passo per Ghazaliya, un quartiere costruito negli anni ’8o. Ci si viveva bene: c’erano caffè, negozi di vestiti. Ma durante la pulizia etnica che ha spazzato Baghdad a metà anni 2000, questa è diventata un’enclave sunnita controllata da Al Qaeda. Dopo la caduta di Mosul nelle mani dell’Isis i rapimenti in zona sono aumentati – per mano di milizie come l’Asaib, che spesso usano mezzi con targhe statali.
Nel soggiorno di una casa modesta, incontro Medhat Dhari, un ingegnere elettrico, sua moglie e suo figlio. Sono venuti qui per scappare dalle squadre sciite della morte durante le violenze tra sciiti e sunniti. Dopo aver perso 12 familiari, si sentivano come sopravvissuti a qualche apocalittica calamità. Poi i rapimenti sono ricominciati. La sera del 17 settembre scorso il suo figlio più grande, Mamdouheh, non è rientrato dal lavoro. Dhari, che ha subito pensato al peggio, ha passato la notte a cercarlo per le stazioni di polizia. Sua moglie ha continuato a chiamare al cellulare del figlio, sempre spento. Al mattino ha risposto uno dei rapitori: «Suo figlio ha confessato dei crimini», le ha detto, chiedendo 50mila dollari di riscatto entro le otto di sera e facendo parlare brevemente Mamdouheh, per dimostrare che era vivo. Dhari è corso al ministero della Sicurezza nazionale, ma dopo una giornata è riuscito solo a farsi dire: «Sappiamo chi sono i rapitori, ma non possiamo farci niente». Nel frattempo, il resto della famiglia era riuscito a raccogliere 15mila dollari. Per i rapitori poteva andare. Hanno dato a Dhari un indirizzo a cui presentarsi a mezzanotte. «Lascia i soldi e vattene, tra 10 minuti tuo figlio arriverà», gli hanno detto. Dhari se n’è andato, aspettando una telefonata che non è mai arrivata. Al mattino, la polizia ha suonato alla sua porta: avevano trovato il cadavere di suo figlio, in un edificio abbandonato, con mani e polsi legati.
La scorsa estate, mentre l’Iraq sprofondava nel caos, Obama diceva: «Non c’è una soluzione militare, di sicuro non una guidata da noi». Ma negli ultimi mesi l’America si è fatta coinvolgere sempre più. Dopo la caduta di Mosul, Obama ha ordinato dei bombardamenti contro l’Isis e ha spedito altro personale militare. Dopo la decapitazione del giornalista James Foley, lo scorso agosto, ha formato una coalizione contro l’Isis. Questa primavera il governo iracheno cercherà di riprendere i suoi territori. Gli Usa dovrebbero fornire addestramento e potenza di fuoco alle comunità locali. Per ora stanno mandando altre armi, al posto di quelle che l’Isis ha già sequestrato. Diverse milizie si sono già fotografate con forniture americane, carri armati inclusi. E il ruolo dell’Iran, nemico storico ma alleato contro l’Isis, è sempre più imbarazzante.
L’Iraq di oggi è l’insieme di tre Paesi: i curdi controllano il Nord, il Sud è del governo sciita, i territori sunniti sono nelle mani dell’Isis, che li ha chiamati Stato Islamico. I cittadini sunniti stanno nel mezzo, schiacciati tra l’Isis e le milizie sciite. Dopo diversi posti di blocco ne raggiungo una famiglia, fuori Ghazaliya. Umm Zohari, la matriarca, è seduta su un divano. La cognata, con il volto coperto dal velo, inizia a raccontare: suo marito Zohar, il figlio maggiore, aveva studiato, ma non aveva trovato di meglio che fare il tassista. Marwan, figlio minore, lavorava a giornata. Abbas, il padre, badava alle bestie. Un mese fa, degli uomini armati in uniforme sono arrivati nella notte e se li sono portati via. Da allora nessuno ha più saputo nulla dei tre uomini.
La casa è piena di bambini. Sono in braccio alle madri, giocano sul tappeto, troppo piccoli per cogliere la solennità della visita di uno straniero. Le donne cercano una traccia di speranza sul mio volto. In fondo, per loro, io sono “l’americano”, un rappresentante di quel potere cieco, che è entrato nella vita di ogni iracheno agitando salvezza e disperazione come un dio impazzito. Cosa posso dir loro della storia che condividiamo, del legame che ci tiene insieme anche mentre esco fuori, sotto i rami del melo, dove una bambina sta ancora giocando attorno alle ruote della mia auto? L’Iraq brucia e il suo destino ci resterà per sempre sulla coscienza.