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 2015  aprile 10 Venerdì calendario

COME TI SMONTO RIFIUTI E PREGIUDIZI (PARTENDO DAI BOTTI DI CAPODANNO)


ROMA. La prima cosa, parlando di rifiuti, è saper distinguere. La seconda è non lasciarsi abbindolare dal folklore. Dunque, preferireste vivere vicino a una pizzeria o a un inceneritore? Con ogni probabilità state per dare la risposta sbagliata. «Perché i duemila forni a legna in funzione in una città come Napoli emettono, in un giorno, quasi la stessa quantità di diossina di un inceneritore in un anno. Con l’aggravante che non se li sognano nemmeno i filtri e gli innumerevoli dispositivi di sicurezza imposti per il secondo». Parola di Daniele Fortini, oggi amministratore di Ama, l’azienda dei rifiuti romana, dopo aver compiuto un titanico repulisti a Napoli ai tempi dell’emergenza in mondovisione e dopo essere stato presidente di Federambiente e sindaco di Orbetello.
Lo dice presentando in una libreria romana La raccolta differenziata (Ediesse, pp. 350, euro 15), scritto insieme alla consulente ambientale Nadia Ramazzini, in una girandola di fatti e fattoidi che riescono a trasformare il viaggio nei nostri scarti in un appassionante percorso di autoscoperta.
Questo libro è, prima di tutto, un «manuale di smontaggio», copyright Antonio Pascale, il moderatore-romanziere e divulgatore scientifico tra i più solidi e meno codini (tra le sue campagne, la riabilitazione degli Ogm quando ancora sembrava eresia). Fortini comincia infatti facendo capire l’immane complessità di decostruire quello che più o meno inconsapevolmente destiniamo nell’immondizia. Intanto un paio
di dati: il 40 per cento dei rifiuti urbani finisce in discarica. Del 70 per cento dei rifiuti speciali (industriali, di costruzioni, ecc.) si perde traccia («Salvo poi imbattersi in una nave piena di robaccia al largo della Calabria o in rotta verso l’Africa»). E circa il 50 percento della plastica viene incenerita. Pascale insorge: «Vuol dire cinque delle dieci bottiglie che io amorevolmente infilo nel cassonetto dedicato? La metà di quella fatica va sprecata?». No, lo tranquillizza Fortini: «Esistono circa 400 famiglie di plastiche. La pet di cui è fatta la bottiglia è totalmente riciclabile. Questo vale anche per la hdpe del tappo. Mentre i polimeri leggeri del sacchetto del supermercato devono seguire un processo distinto. In ogni caso bisogna prima togliere l’etichetta, triturare tutto separatamente e, attraverso un processo di estrusione (il materiale viene mescolato e si scalda moltissimo grazie all’attrito, ndr) si otterranno dei granuli, la cosiddetta materia prima-seconda, che verrà stampata per realizzare altri oggetti». Discorso diverso vale per le plastiche dure, tipo quelle per fare sedie, paraurti, giocattoli. «Da quelli generalmente si può ricavare il cosiddetto plasmix, un granulato di plastiche eterogenee che è stato riutilizzato in laminati, con risultati non sempre entusiasmanti. Tipo barriere fonoassorbenti che non assorbono o panchine che si crepano e si scoloriscono». Per non dire delle ragioni dell’ecologia contro quelle dell’economia. Perché se la scocca anteriore di uno scooter in questo materiale costa a Piaggio, che lo sta testando, migliaia anziché centinaia di euro, allora non ha senso.
Il vetro è il più virtuoso. Al netto di inevitabili perdite di processo, se ne salva tra l’88 e il 90 per cento. Il cartone, il peggiore. «A ogni passaggio, che prevede la rimozione dei collanti e degli inchiostri, si recupera circa il 70 per cento. Il che significa che al più se ne possono fare tre giri prima che divenga inservibile». Quello che resta da ogni trattamento è una pasta nauseabonda, piena di residui di metalli pesanti e plastiche, che viene chiamata pulp. «Ne sanno qualcosa gli abitanti di Capannori, vicino Lucca, uno dei pochi distretti cartari sopravvissuti. La pestilenziale lavorazione è consentita solo di notte, ma basta passare da quelle parti in autostrada con i finestrini abbassati per essere investiti dal puzzo».
Più che olfattivo, però, il problema è strategico. La guerra ai rifiuti non si può vincere senza aver prima sconfitto gli imballaggi. Che, invece, non mostrano alcun segno di debolezza. «Dal 2007, inizio della crisi, registriamo una riduzione del 25 per cento dei consumi energetici. Meno produzione, meno elettricità. Tutto aveva segno negativo tranne la produzione di imballaggi: +1,4 per cento». Miracolo economico? No, paradosso politico. «Mentre in Germania le aziende devono prendersi totalmente in carico il loro smaltimento, da noi il decreto Ronchi è riuscito a imporlo solo nella misura del 30 per cento. Il resto lo paga lo Stato, ovvero noi. Così le nostre aziende di imballaggi operano con costi del 70 per cento inferiori rispetto alla concorrenza internazionale, e sono diventate leader mondiali». Con l’aiutino gentilmente offerto dal nostro 740.
L’ultimo tabù riguarda i termovalorizzatori. Grossi, costosi, fumanti: hanno il physique du rôle per terrorizzare le masse. La realtà è più complessa. Ramazzini, la coautrice, è nata a Brescia, che ne ospita uno dei più grandi, e ha lavorato in quello di Acerra, tra i più discussi e mitopoietici. Interroga il pubblico: «Chi di voi sa che a Parigi ne è in funzione uno per 1.300.000 tonnellate?». Silenzio. «E che la Danimarca si riscalda solo con l’energia prodotta in quel modo?». Sottotitolo per i distratti: non sono il marchio di Caino del Terzo Mondo, ma apparentemente l’identificativo del primissimo. Giura che i limiti imposti dall’Unione Europea sono strettissimi ed è per ciò che questi leviatani tecnologici costano così cari (500 milioni a Brescia, 350 ad Acerra), «mentre certi cementifici bruciano rifiuti in libertà» solo che noi non lo sappiamo.
Interviene Fortini, con il gusto dei tempi teatrali e dell’aneddoto croccante: «Il Capodanno 2005, anche per gli standard napoletani, rimase nella storia. Spararono botti per quasi sei ore. È stato calcolato che la diossina prodotta in quella singola occasione è stata pari a quella generata da 120 inceneritori in un anno intero». Ovvero, l’ennesimo replay dell’ossessione per il dito, quando sullo sfondo c’è una Luna piena. Restano veri alcuni classici. Tipo il deprimente 7 per cento di differenziata della Sicilia, la grottesca inversione a U di Reggio Calabria (dal 16 all’8 per cento negli ultimi cinque anni) e le consuete eccellenze nella valorizzazione della materia (in italiano corrente: cavare energia da quel che si butta) di Toscana, Emilia Romagna, Lombardia e Veneto. Dove, fino a un mese fa, il Centro Riciclo Vedelago riusciva, grazie a intuito trevisano e manodopera immigrata, a riciclare il 99 di tutto. La volta che c’ero stato ospitavano una delegazione giapponese, l’indomani sarebbero arrivati gli svizzeri. Crisi, debiti, investimenti sbagliati e i libri sono finiti in tribunale. Un gran peccato. Ma pare che la vecchia società sia già stata rilevata: da quelle parti si ricicla tutto, anche i fallimenti.