Piero Melati, il Venerdì 10/4/2015, 10 aprile 2015
IO, MUSICISTA FIGLIO DEL BOSS DI SCAMPIA
[Antonio Prestieri, in arte Maldestro]
ROMA. Scampia, dannato amore. In quattro versi ci stai tutta. Sei la prova che anche a Napoli c’è un nord. Periferia nord, costruita nel maledetto ventennio 70-90, invasa dagli scappati del terremoto. Scantinati, ballatoi, abusivismo. Li chiamarono Le Vele. Le famigerate Vele. «Io sono nato qui, dove è più facile star zitti, dove la pioggia lava il sangue, dove il coraggio non uccide la paura, dove anche il vento non si muove sulle vele». Che importa parlare. Basta cantare, certe volte. E racconti l’Italia anche meglio di un editorialista. Basta mettere in un pezzo una frase come «il tamburo freddo di una pistola» e hai detto tutto. O quasi tutto, di dove sei nato.
Poi ci devi solo aggiungere che ti chiami con un nome pesante, che fa Prestieri. Ma tu sei Antonio, hai 31 anni e tua madre, una mamma coraggio, ti ha strappato dalla casa paterna di Scampia a due anni. Quella casa, come dice un’altra tua canzone, «recintata dall’inferno». Tu sei Antonio, non Tommaso. Tommaso è tuo padre, il boss di Secondigliano, odiato e temuto. Tu ora ti chiami Maldestro, sei diventato un cantautore, hai appena vinto i premi Ciampi e De André, nel tuo fortunato 2013, hai suonato a Livorno con Roberto Vecchioni, il tuo mito, e hai appena stampato il primo disco, che si chiama Non trovo le parole.
Le parole, alla fine, le hai trovate. Fino a diventare persino un cantante «anticamorra». Anche se tu così non ti definiresti mai. Racconta Maldestro: «Mamma Michela ci ha strappato via da quella casa, a me e mia sorella. Era non vedente, la mamma. Mia zia se la portava a pulire gli edifici ristrutturati. “Ma che ti trascini dietro, una cieca?” dicevano alla zia. E mamma, per dimostrare di essere brava, nonostante il buio degli occhi, cercava di pulire sempre gli angoli più nascosti. Poi è diventata centralinista e ha cresciuto noi figli da sola. Mi ha cambiato la vita con due cose: il computer e un piano. Li ho avuti a nove anni. E ho scoperto un mondo nuovo. Mamma riempiva sempre casa nostra di cultura. Cultura, cultura, cultura a fiumi. E ci ha insegnato la ricerca incessante della libertà, dell’indipendenza, della ribellione. Sì, mia mamma è una ribelle. Pensate a cosa è stato per lei divorziare da mio padre, in quell’ambiente, nell’87. Era condannata da tutti. Gli offrirono anche una montagna di soldi, per rinunciare. Ma lei diceva: ai soldi, preferisco la libertà».
Il padre Tommaso, invece. Boss atipico, re della cocaina, poeta e pittore, impresario di cantanti neomelodici, manager della seconda moglie, la cantante Rita Siani, guest star per la festa di San Gennaro a Los Angeles nel 2005, quando Tommaso dettava ancora legge. Ammiratore di De Chirico, si era fatto arrestare a teatro, mentre da latitante assisteva a un concerto. Condannato a 23 anni, è stato uno dei protagonisti della lunga faida di Scampia. A un certo punto, il suo intero clan ha corso il rischio di essere sterminato.
«Di lui mamma mi ha sempre detto: è tuo padre, non posso negarti di averci un rapporto, crescendo capirai di più, ti farai le tue idee. In tutta la mia vita l’avrò visto, proprio assai assai, una cinquantina di volte. Da bambino mi è mancato molto. Ma il 19 marzo, festa del papà, ho chiamato mamma per gli auguri. Le ho detto: tu per me hai fatto sia questo che quello. A mio padre ho sempre detto quel che pensavo di lui. Sono sempre stato diretto, nonostante provassi rabbia. Non è stato facile dirgli in faccia cose che magari diresti con più facilità a un estraneo. Era doloroso. Comunque è mio padre, pensavo. Ma più di questo era più forte il senso di libertà. Devo però dire la verità: lui è sempre stato orgoglioso di me. È indifendibile, certo, ma ho saputo che nei processi si è vantato di avere un figlio che gli andava contro, e che studiava. Non ha mai provato a coinvolgermi. Mai. Ma io resto sempre ferito. Sono sempre ferito, quando si parla di Napoli solo ed esclusivamente sotto questa luce cattiva».
Per Maldestro, questa storia non si esaurisce dentro i confini della sua persona. La battaglia individuale è abituato a combatterla. Già a 24 anni replicava sui siti web che parlavano del clan di suo padre, spiegando le personali perplessità sul pentimento dei suoi zii oppure le pressioni esercitate dagli inquirenti sul padre, perché diventasse anche lui collaboratore di giustizia. E, quasi ad ogni riga del testo, ripeteva a scanso di equivoci quanto la camorra fosse «una montagna di merda».
Però dire così non basta. «Non voglio fare del facile sentimentalismo. Ma sono ferito quando si parla solo male di Napoli. Hanno abituato i napoletani a sottostare sempre a un padrone, ci hanno imposto di sentirci sempre in difetto. Non è vero e non va bene. Io mi porterò sempre dietro la mia storia, per tutta la vita. Ma voglio portarmela dietro come dico io. Io voglio agire. Vado nelle scuole, nelle carceri, a Nisida, ai dibattiti con il giudice Cantone, a quelli con don Luigi Merola e Rosaria Capacchione. Lo faccio per amore, per dedizione e perché lo voglio fare. Poi c’è il mio lavoro e la mia musica. E infine c’è un aspetto di tutta questa storia, che è intimo, personale. Se scelgo di parlarne, voglio essere libero di farlo. E non costretto».
Anche perché, più che di se stesso, Maldestro vuole parlare di Napoli e della sua Scampia. Come fa nelle canzoni. «Ho sostituito mio padre con i cantautori: Gaber, De André, Vecchioni, De Gregori, Brel, sono stati i miei padri. Mi hanno insegnato a esprimermi, a non avere vergogna di farlo. Se mi fossi fermato all’esperienza della scuola, a quel che mi hanno fatto certi insegnanti, sarei stato perduto. I professori avevano tanti pregiudizi verso di me. Il mio compagno di banco faceva casino? Era irrequieto. Io facevo casino? Ero camorrista. A 12 anni ero sempre assediato da pregiudizi enormi».
Poi ha rotto il cerchio. «Ho capito che Napoli è misteriosa, bene e male vi confluiscono insieme. E la mia terra conta all’80 per cento in quello che sono. Compongo da quando avevo nove anni. È l’unica cosa che so fare: prendere una chitarra e cantare. La chitarra mi nasconde e mi dona la forza di raccontare. Alla fine ce l’ho fatta. Ma non sempre ce la fai. Io lo so, vengo da Scampia. E chi non ce la fa non ha colpa. Ci vuole più cultura. A Scampia è l’unica arma. Lo Stato non c’è ancora arrivato. Oppure non vuole arrivarci veramente. Oppure arriva solo con i carri armati. E non servono, i carri armati. Servono libri nelle scuole. I bambini guardano i militari e pensano alla guerra. Ed è una immagine che destabilizza».
Capire, dice Maldestro, è più difficile. Ma indispensabile. «A volte si condanna chi sta zitto. Anche io l’ho fatto. Ma crescendo certi pensieri cambiano. C’è gente che ha molta paura. E come fai a condannare per questo un operaio, che guadagna ottocento euro al mese, ha quattro figli, a malapena mangia e non ha nulla. Che gli dici se guarda ma poi sta zitto? Lui non ha più la forza di parlare neppure con se stesso, ha paura di perdere quel poco che ha, ha il terrore che poi si vendichino sui suoi figli. Quanti hanno parlato e poi sono stati lasciati soli? Bisogna porsi questi problemi. Sono quelli veri. E bisogna risolverli. Il resto è retorica. Eppure io ci credo che si può cambiare. Anche a Scampia».
A morte i retorici. Ma anche l’ottimismo, non è un difetto? «Cambiare non è facile. Ma lo scetticismo di chi crede che Scampia sia solo un Far West è assurdo. Poi vengono a vederci e scoprono che ci sono troppi luoghi comuni. Io odio chi dice che non si può cambiare niente. Non è vero. Se lo pensassimo ogni mattina, non sarebbe più vita. Si deve sempre pensare al cambiamento, anzitutto personale. Fermiamoci e chiediamoci: ma io cosa posso fare?».
I luoghi comuni sono ridicoli, sostiene Maldestro. «Per esempio nessuno sa, dati alla mano, che Scampia ha il record della raccolta differenziata. È stato il primo quartiere di Napoli ad avviarla. C’è un auditorium magnifico, un grande teatro, la palestra di Giovanni Maddaloni, che toglie i ragazzi dalla strada, campi di calcio gestiti da ottime persone. A Scampia c’è tanta brava gente. Ma tanta tanta. Così, quando dovevo girare il mio video, ho detto: basta con le Vele, facciamo vedere la bellezza accanto alla bruttezza. Facciamo almeno un 50 e 50. Giriamo il video con un pianoforte a coda». Che buona idea.
Piero Melati