Ferdinando Camon, Avvenire 10/4/2015, 10 aprile 2015
RIABILITARE I SOLDATI GENERALI DEGRADATI
È diventata una proposta di legge la richiesta partita da questo giornale con gli articoli di Giovanni Grasso (26, 27 e 31 luglio 2014) per una riabilitazione dei nostri soldati della Prima guerra mondiale fucilati dai plotoni d’esecuzione dopo sentenze sbrigative, spesso non giustificate dal punto di vista della giustizia e neanche da quello militare. La previsione è che la riabilitazione ci sarà. Lo Stato riconoscerà (lo speriamo), riesaminando le condanne una per una, che molte furono ingiuste, mal documentate, incomprensive verso gli uomini e gli atti che giudicavano. Non miravano ad attuare una forma di giustizia, cioè a punire qualche indisciplina, disobbedienza, diserzione, tradimento, codardia, ma a imporre subito a tutti, con la paura, un ritorno all’obbedienza cieca agli ordini. A tutti gli ordini. Se questo accadrà, se la Commissione nominata dallo Stato così deciderà, la ’riabilitazione’ potrà dirsi avvenuta. Sarà stato tolto il ’disonore’ dalla memoria dei condannati e fucilati. Ma non credo proprio che basti. Vorrei che chi mi legge avesse visto almeno una delle trincee sulle quali si è combattuto. Io ne ho visitato alcune, sull’Altipiano. È lì che è ambientato il diario Un anno sull’Altipiano di Emilio Lussu. E il film che ne derivò, di Francesco Rosi. Questo diario, e gli altri meno famosi, sono pieni di episodi di disobbedienza, rifiuto agli ordini, suicidi prima dell’assalto, fuga a metà dell’azione... Ho visto più volte le trincee dell’Ortigara. Di qua siamo noi, sul Caldiera. Di là sono i nemici, sull’Ortigara. Tra noi e loro c’è un vallone a strapiombo. L’ordine di attaccare gli ufficiali lo conoscono alla sera, la truppa lo apprende all’alba, quand’è ancora buio. Noi usciamo dai camminamenti, siamo esposti su una cengia, nel buio potremmo cadere giù, perciò lì sulla curva, dritto in piedi su una pietra, sta un ufficiale subalterno, un tenente, con il compito di guidare a voce la fila di soldati che arrivano. Il nemico sa dov’è in piedi quest’ufficiale, e gli tiene puntato addosso un fucile di precisione. Ogni tanto spara. L’ufficiale cade morto, immediatamente un altro tenente deve prendere il suo posto. La guida che ti spiega tutto della trincea ti mostra la roccia dove i tenenti dovevano salire, ti indica la postazione da cui il comandante dell’operazione seguiva col binocolo la nostra discesa lungo il pendio di qua e la nostra risalita lungo il pendio di là, e tu vedi che in tutto questo spazio noi siamo esposti al tiro delle mitragliatrici. Se visiti la trincea insieme con Mario Isnenghi, che allo studio della Prima guerra mondiale ha dedicato tutta la vita, ti mostra dove stavano i nidi di mitragliatrici nemiche. Nessuno arrivava vivo davanti a loro. E se qualche brandello di squadra ci arrivava, davanti a sé vedeva di colpo drizzarsi in verticale lo sbarramento dei reticolati. «Era un macello», dice Lussu. C’erano impazzimenti, fughe, diserzioni, suicidi, e quelle particolari forme di suicidio militare che erano gli autoferimenti, con cui i soldati pazzi o disperati si sparavano alle gambe per fermarsi lì. Adesso, dopo che questo giornale ha lanciato la richiesta, si muove l’operazione per riconoscere che tanti soldati arrestati o selezionati o estratti a sorte per un processo sommario o per la decimazione han diritto al loro buon nome. È giusto. Dobbiamo riabilitare i soldati. Ma scusate: e i comandanti? Non sarebbe giusto, insieme con la riabilitazione dei soldati, promuovere l’ignominia dei comandanti? Il soldato che riceve un ordine deve ’sempre’ avere una chance di salvezza. E qui non l’aveva. Questi non erano ordini, ma condanne a morte. Via le targhe e le statue dedicate a questi ufficiali, fino al comandante supremo, incapaci e immeritevoli. E disonore su di loro, nei testi di storia.