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 2015  aprile 10 Venerdì calendario

«CORRERE E’ UNA FEDE, MA SERVE PIU’ CULTURA»

Della maratona Stefano Baldini sa tutto. Ne ha corse 26 vincendo quella più importante, l’olimpica di Atene 2004. E non ha smesso di correre: a novembre ha corso ancora a New York, a 43 anni. «Per il piacere di correre nel gruppo, di vedere la città dal centro della scena», dice. Domenica a Milano Stefano sarà alla partenza, poi infilerà la cuffia di Radio DeeJay e la racconterà con Linus e Davide Cassani.
Un nuovo percorso. Le piace?
«Forse non tutti lo ameranno perché ci sono molte curve, ma io lo preferisco. Prima si partiva dalla Fiera di Rho, tanto rettilineo, ma strade deserte. Propendo per la città perché ai lati c’è la gente, il paesaggio cambia più in fretta. Non è facile disegnare un percorso rispettando le esigenze della gente, il fatto è che bisogna poter aprire le strade appena passa l’ultimo concorrente».
Scusi Baldini, ma ad esempio a Berlino per la maratona chiudono il centro per due giorni.
«Altra cultura... Ma c’è una cosa che cambierei, l’ora della partenza. Domenica la maratona di Milano parte alle 9.30. Io la anticiperei di un’ora o anche più. Perché si riaprono prima le strade e poi chi chiude in quattro ore ha almeno metà gara sotto un grande caldo» .
Parlava di cultura. Cosa ci manca?
«Molto, e il nostro Paese ne sta perdendo ancora. Anche nella corsa manca cultura. Vedo troppa gente fra gli amatori inseguire il cronometro. Sbagliato. La corsa va goduta, serve a migliorare la salute. La gente si consuma per affrontare la maratona. Ma ci può essere agonismo anche senza sfidare il tempo. In altri paesi è diverso, ci sono ad esempio molte più 10 km».
Per questo non abbiamo un nuovo Baldini?
«E’ un discorso complesso. C’è la scuola, dove vedo però che lo sport tende più a uscire che ad entrare. In atletica il futuro è nel privato, le società. E pure la scuola deve sfruttare il privato, i suoi tecnici. Penso che lo sport a scuola debba essere obbligatorio. Mancano i soldi? Leviamolo dall’ultimo triennio delle superiori, dove un ragazzo è già indirizzato, e pratichiamolo alle elementari. La nostra sta diventando una malattia sociale, i ragazzi soffrono di incapacità motorie e poi si tende all’obesità. Una giusta dose di movimento, quindi una popolazione più sana, limita in prospettiva anche le spese sanitarie. E scusate se è poco...»
La realtà è che dopo il suo ritiro fatichiamo a trovare maratoneti. La fatica fa paura?
«Non è vero, a tanti ragazzi piace faticare. E, come responsabile dell’atletica giovanile, vi dico che esprimiamo talenti, anche come numeri, ma poi non sappiamo valorizzarli».
Qualche anno fa i bianchi avevano rinunciato alla corsa resistente davanti allo strapotere africano. Ora Paesi come Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti hanno rialzato la testa.
«La federazione francese ha più di 100 allenatori distaccati e pagati dal ministero della Pubblica Istruzione, i britannici hanno sfruttato al meglio la spinta ed i fondi stanziati per l’Olimpiade di Londra, gli Stati Uniti hanno ancora il loro punto di forza nel sistema scolastico. Noi dobbiamo fare un passo indietro, ripensare il lavoro di programmazione a lungo termine, mettere insieme i migliori perché si stimolino a vicenda in un luogo adatto. Ma non ci possiamo lamentare, abbiamo il campione europeo Meucci e Lalli, che penso possa fare buone cose sulla maratona. E poi le donne, anziane forse, ma veloci. Certo, ci vorrebbe qualche giovane in più».
Ci mancano i «nuovi italiani».
«Stanno arrivando, siamo solo alla seconda generazione, la Francia è già alla terza. Ma c’è pure un fenomeno nuovo, quello degli italiani che vanno a studiare negli Stati Uniti, dove è decisamente più facile conciliare scuola e sport. Sono già una dozzina. Luca Cacopardo ad esempio è al Mit di Boston, Jacopo Spanò, il velocista, a Washington. Questa estate almeno 5 nostri atleti che parteciperanno agli Europei juniores andranno a studiare oltre oceano».
Torniamo alla maratona. Qual è l’età migliore per iniziare?
«La maratona ce l’hai già dentro. Quando vidi alla televisione Bordin vincere all’Olimpiade di Seul avevo 17 anni, ma capii che quella sarebbe stata anche la mia strada. Corsi per anni in pista, ma sapevo che sarei finito su quella distanza».
La sua è stata una carriera immacolata, ma l’hanno convocata anche per il caso Schwazer.
«Sono stato convocato due volte, la prima a Firenze e poi a Bolzano. Ero stato chiamato come testimone e la stampa mi ha trattato come fosse imputato. No, non è stato affatto piacevole e ho letto falsità e sospetti lanciati a caso. Potrei anche adire alle vie legali, ma per il lavoro che sto facendo preferisco stare zitto per il bene dell’atletica leggera e del ruolo che ho nei confronti dei giovani».