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 2015  aprile 10 Venerdì calendario

IL PRIMO INCUBO COLLETTIVO DELL’ERA DIGITALE–LA MORTE DI KURT COBAINƒ RACCONTATA DA UNO DEI POCHI GIORNALISTI ITALIANI CHE SAPEVA CHI FOSSE


Tutto ebbe inizio con uno scambio di persona: “Un cadavere è stato trovato nell’abitazione di Kurt Cobain, leader dei «Nirvana»”. Nirvana tra virgolette. Al tempo era consuetudine dell’agenzia Ansa, che lanciò il dispaccio ai giornali verso le 7 e mezza di sera, l’8 aprile 1994, virgolettare i nomi dei gruppi rock meno noti. Il senso era, tra le righe: Nirvana non lo dico io che mi occupo di cose serie, ma lo dicono loro; e se volete saperne di più chiedete ai vostri figli, o ai redattori degli spettacoli nella stanza accanto. L’Ansa faceva il suo mestiere: riprese la notizia dell’Ap che citava una radio locale di Seattle, allertata dal capo dell’elettricista che trovò per primo il cadavere. In seguito, sarebbero state tramandate le parole esatte: “Ho per voi lo scoop del secolo. Mi dovete parecchi biglietti dei Pink Floyd per quel che sto per dirvi”. I Pink Floyd erano effettivamente in tournée in quei giorni negli Usa. E anche gli Eagles. Un testimone dei pochi giorni nei quali Cobain vagò tra Los Angeles e Seattle prima di uccidersi ricorda di aver incrociato una fila chilometrica di gente che comprava i biglietti per il concerto. E riferisce il commento di Cobain: «È come se non fossimo mai esistiti». Alle 21 ora italiana dell’8 aprile, ancora in assenza di conferme ufficiali, il servizio spettacoli dell’Ansa non potè far altro che ripetere: “Il cadavere di un giovane con un colpo d’arma da fuoco alla testa...”. Come se Cobain fosse davvero uno sconosciuto. Come se non fosse mai esistito. In un’aggiunta si ricordava che “il mese scorso (...) era stato ricoverato in coma in una clinica romana per un’«overdose» di psicofarmaci e champagne”. Overdose tra virgolette.
Già. La clinica romana si chiamava American Hospital, e pochissimi a Roma sapevano esistesse. Ci si ritrovò al pomeriggio nello spiazzo di un’ex periferia pasolinana in via di urbanizzazione: i cronisti italiani piuttosto spaesati, un gruppo di ragazzine che, sentita la notizia al tg, avevano preso l’autobus fin lì, i corrispondenti dei grandi network americani, altro stile. In teoria, tutto aveva un senso: Cobain aveva tentato il suicidio in una suite dell’hotel Excelsior in via Veneto, era stato trasportato d’urgenza nel vicino Policlinico per le prime cure, trasferito in una struttura meglio protetta dagli agguati dei fotoreporter. Con lui c’erano Courtney Love, la figlia Frances, il chitarrista Pat Smear, publicist e manager. In pratica, noi degli spettacoli poco avvezzi al giornalismo d’assalto avallammo con molta umana pietà la spiegazione del collasso accidentale per alcol e Roipnol. E, devo aggiungere, con delusione: l’immagine di Kurt Cobain tossico in una decadente suite dell’Excelsior era una tragica carnevalata rock, tra le peggiori. Ma Kurt Cobain, e anche questo lo abbiamo saputo dopo, cominciò a morire quel giorno. Nel primo take che annunciava l’incidente, un redattore aveva ribattezzato il musicista “Kurt Poupon”, il nome con cui si era registrato all’Excelsior. Un altro scambio di persona. Pensavamo di conoscere Cobain a memoria, come le sue canzoni. Non ne sapevamo quasi niente.
Un mese dopo, dunque, alle 21.23 e in orario di chiusura per le pagine degli spettacoli, l’Ansa: “Il cantante dei Nirvana Kurt Cobain si è ucciso con un colpo d’arma da fuoco, nella sua abitazione di Seattle, secondo una radio locale”. Neppure una virgoletta. L’incombenza di raccontare per sommi capi la notizia ai lettori passò ai corrispondenti dall’America e ai caporedattori in turno di chiusura. Cobain ebbe la prima pagina. A giornale chiuso, notte fonda, Telemontecarlo (sul canale oggi occupato da La7) switchava sulla diretta della Cnn. Faceva così fin dai tempi della vicina guerra del Golfo. Vedemmo le prime immagini della casa di Seattle circondata da gruppi di ragazzini con le candele in mano. In quella primavera del 1994 Internet non c’era ancora. I principali giornali americani sarebbero andati online alla fine dell’anno, con il lancio del browser Netscape. Il provider Aol contava 1 milione di iscritti, ai quali garantiva lo scambio di email e la partecipazione a un servizio di chat. Il 27 marzo Kurt Cobain scrisse il suo primo e ultimo messaggio su Aol: “Dunque questa è l’autostrada dell’informazione di cui chiacchiera tanto il nostro vicepresidente (Al Gore, ndr). Beh, il mio manager mi ha detto che quaggiù abbiamo una specie di gruppo di fan, di andare a dare uno sguardo. Eccomi. Mentirei se dicessi che non sono sorpreso di vedere la popolarità della band raggiungere anche le profondità del sottosuolo elettronico. Fico”. Di seguito: “Ci prendiamo un periodo di riposo, torneremo a lavorare in estate al nuovo album che uscirà nel 1995, ma sappiate che i Nirvana stanno cambiando, non aspettatevi le solite canzoni”. Una settimana prima di spararsi in testa.
Ho appena riletto, e lo cito con qualche imbarazzo, il mio pezzo scritto sul manifesto in morte di Kurt Cobain, il 10 aprile 1994. Il senso era questo: in un mondo che si proclama trasparente, istantaneo, rimpicciolito dai satelliti, attraversato dalle operazioni di polizia militare; in un mondo in cui la politica si è messa a vendere Sogni collettivi come fossero detersivi, chi vorrà ancora occuparsi degli Incubi degli scappati di casa? L’anno scorso un giornalista americano, Paul Squires, ha setacciato i messaggi che commentarono su Aol il suicidio di Cobain. Il primo è di un certo Paul Nazaroff: “Qualcuno mi ha detto che hanno trovato Kurt Cobain morto stamattina a casa sua. Spero che non sia vero. (...) Spero che non arriverà il solito branco di teste di cazzo a infangare il suo nome”. Ecco. Per qualcuno, la morte di Cobain fu il primo incubo collettivo dell’era di Internet (facile la profezia di quel che sarebbe accaduto, dopo). Per altri, la maggioranza del pianeta, l’ultimo lutto collettivo dell’era dei vecchi media. Come ha osservato una volta Simon Reynolds: “Cobain, indiscutibilmente l’ultimo rocker-ribelle-star, deve la sua crescita alla forza accentratrice dei vecchi media; con la sua morte si è dissolto nel disordine dei nuovi media emergenti”.