Mario Ajello, Il Messaggero 10/4/2015, 10 aprile 2015
DA TANGENTOPOLI ALLE OLGETTINE, QUEL PALAZZO TRA STORIA E FICTION
Questa volta non è fiction. È realtà terribilmente vera in un luogo - quello dell’ultima scena infiammata del “Caimano” di Nanni Moretti e ora della popolarissima serie televisiva “1992” - nel quale la storia e la finzione artistica si sono spesso inseguite, acchiappate e confuse. Rendendo il Palazzo di Giustizia di Milano un simbolo fisso, ma insieme cangiante a seconda delle epoche, nell’immaginario degli italiani.
LE IMMAGINI
In questo palazzone bianco, d’architettura fascista, opera di Marcello Piacentini, si è sempre entrati con estrema facilità. E comunque, dai tempi del terrorismo a quelli di Tangentopoli fino ai processi berlusconiani - ieri al settimo piano è cominciata la riunione dei giudici di sorveglianza per decidere sull’estinzione della pena all’ex Cav per la questione Mediaset - l’edificio su Corso di Porta Vittoria racchiude ed espone le tragedie di un Paese e le sue voglie di riscatto. Questo dark side e questo lato speranzoso della patria si ritrovavano simbolizzati nelle tre gigantografie pendenti tempo fa dalla facciata del tribunale. Ecco l’avvocato Giorgio Ambrosoli e i due giudici Emilio Alessandrini e Guido Galli. Tre martiri dell’Italia migliore, finiti assassinati (gli ultimi due per mano dei terroristi di Prima Linea tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80) e professionalmente molto legati a questo luogo. L’aula magna è intitolata ai due magistrati. E, venendo più in qua nel tempo, la stanza di Ilda Boccassini con la grande foto di Falcone? E quella volta che Berlusconi fu insultato nel corridoio dal girotondino Piero Ricca che gli gridó «buffone» o «puffone» e fu portato via dai gendarmi e non si capiva se fosse una comica o una tragedia, un cinepanettone pseudo combat o uno squarcio di realtà?
INCHIESTE E VERGOGNE
Avanti e indietro lungo la storia, questo s’é rivelato un palazzo-gogna: quella subita dal gentiluomo Enzo Carra durante Mani Pulite, il quale fu trascinato in aula con gli schiavettoni ai polsi suscitando le prime reazioni garantiste in un Paese diventato manettaro. È un palazzo-passerella, vista la sfilata delle Olgettine - proprio sotto l’affresco di Carlo Carrà dedicato a “Giustiniano che amministra la giustizia” - per il processo Ruby. È un palazzo-trampolino, considerando che da qui sono partite carriere politiche, in primis quella non brillantissima di Antonio Di Pietro. È un palazzo-tempio: dove si è celebrata più che altrove la religione della politica spettacolo. Ed è un palazzo-ipertrofico anche dal punto di vista dell’ego, se un genius loci quale fu Gherardo Colombo arriva a dire che l’omicidio Ciampi è collegabile a un clima politico anti-toghe.
Qui sembrò cominciare il riscatto etico, ma sempre qui vanno in scena le liti tra magistrati. Basti pensare al match Robledo-Bruti Liberati. In uno di questi uffici, a suo tempo, Di Pietro disse di Berlusconi: «Io a quello lo sfascio!». Qui Arnaldo Forlani mostrò quella schiumetta ai bordi della bocca, che era il segno della paura per la virulenza del tono accusatorio di Tonino lo Sceriffo. Lo stesso che a Craxi riservò un trattamento meno umiliante.
GLI EPISODI
E ancora: su queste scalinate - ai piedi delle quali il tele giornalista Paolo Brosio diventò un personaggio cult per le dirette durante Mani Pulite - la finzione cinematografica del “Caimano” in cui si vede un’orda di berlusconiani che dà l’assalto ai pm anti-Silvio anticipa in maniera assai più drammatica quella sorta di pittoresco sit in dell’11 marzo 2013. Quando, contro il processo Ruby, centocinquanta parlamentari del Pdl si piazzarono qui fuori e qui dentro intonando l’Inno di Mameli. E non c’è proprio pace per questo emblema marmoreo di ciò che noi siamo, al quale è stato tolto brutalmente il velo rassicurante della ricostruzione televisiva sugli anni ’90 per precipitarlo, sotto gli occhi di tutti, nell’attualità più angosciante.