Franco Bechis, Libero 10/4/2015, 10 aprile 2015
GIARDIELLO, DA PADRE DI FAMIGLIA A FOLLE ASSASSINO PER UN FALLIMENTO
Una strage lucidamente folle. Pensata e organizzata in ogni minimo dettaglio, dopo avere studiato le falle della sicurezza del tribunale di Milano, avere scelto gli obiettivi, essersi dotato di munizioni per colpire esattamente chi aveva scelto. Sarà stato un cattivo carattere quello di Claudio Giardiello, il killer del tribunale di Milano. Ma anche se da qualche testimonianza è emersa la descrizione di una persona instabile, che aveva manie di autodistruzione, matto non era. C’era rabbia folle in lui, forse anche mania di persecuzione, ma anche la fredda convinzione di essere stato rovinato per colpe che non erano sue o soltanto sue, e che invece ora processualmente gli venivano addebitate. «Volevo vendicarmi di chi mi ha rovinato» ha detto Claudio Giardiello ai carabinieri che lo stavano arrestando ieri dopo la strage a Vimercate, a 30 km dal Palazzo di Giustizia di Milano. Aveva ucciso tre persone: un giudice, un avvocato, un suo socio in affari. Probabilmente pensava di avere ucciso anche la quarta, suo nipote, Davide Limongelli, che lotta ancora mentre andiamo in stampa fra la vita e la morte, in prognosi riservata. Dopo avere compiuto la sua vendetta con lucidità ed essere riuscito ad uscire dal palazzo di Giustizia esattamente come era entrato: con assoluta padronanza dei movimenti e conoscenza dei buchi nel sistema di sicurezza, stava andando a compiere il suo ultimo omicidio. Non sarà un caso se i carabinieri lo hanno preso proprio dove era: il suo piano era lucido, qualcun altro deve avere intuito il suo ultimo atto: assassinare Massimo D’Anzuoni, socio in altra impresa fallita. Quel piano di sangue e vendetta deve essere maturato in Giardiello piano piano dopo quel che era accaduto nei primi mesi del 2008. Un fallimento dietro l’altro del piccolo gruppo immobiliare che aveva messo insieme a parenti e amici. Il nove gennaio di quell’anno fallisce la Cesip spa, dove il dominus era lui anche se il socio principale era D’Anzuoni. Il 13 marzo fallisce l’Immobiliare Magenta, che Giardiello aveva fondato nel 1994 nell’omonimo corso milanese, detenendone il 55%. Gli altri soci erano il mipote Limongelli (30%) e Giovanni Scarpa (10%). Due anni prima era stata chiusa un’altra piccola società controllata, la Miani immobiliare che però non ha portato i libri in tribunale. Era per altro proprio dal 2006 che il Tribunale di Milano aveva un occhio puntato su quel piccolo gruppo immobiliare, e quell’anno aveva provveduto in due riprese a sequestrare le azioni di Giardiello e dei suoi due soci. Poi è arrivato il fallimento, che aveva come giudice delegato Filippo D’Aquino e come curatore un professionista assai noto a Milano, Walter Marazzani. Parte anche il procedimento penale, che porta all’accusa di bancarotta fraudolenta, perchè si scopre la distrazione di fondi da parte degli azionisti e la creazione di una contabilità occulta con ingente nero fra le tre società collegate: la Magenta, la Cisep e la Miani (che era controllata al 25% dalla Magenta). Fra tutti i soci ci sarebbe stato un patto di spartizione di quel nero, che derivava dalle somme non dichiarate nelle transazioni immobiliari. Come spesso capita, fra loro hanno iniziato presto a litigare sul pattuito. A quel punto fu proprio Giardiello a denunciare i soci, svelando al tribunale di Milano l’esistenza di quella contabilità occulta. Ma gli altri hanno negato e si sono alleati contro di lui, sostenendo la tesi che fosse l’inventore di quel sistema illegale che aveva portato al fallimento di tutte le imprese. Prima hanno cercato di risolvere fra loro la contesa, e agli atti del processo c’era anche un documento con le ipotesi di spartizione fra i protagonisti (dove l’assassino veniva chiamato il «conte Tacchia» e il nipote Limongelli «il Marchesino» per nascondere la vera identità). Ma Giardiello pretendeva di più, e alla fine l’accordo saltò, e tutti si trovarono contrapposti in tribunale. Lui si è convinto che gli altri lo avevano truffato, e che anche i suoi legali lo avevano tradito, offrendogli consigli transattivi che ai suoi occhi avrebbero alla fine favorito le persone che ormai odiava. Così ha odiato e assassinato anche il suo legale, ieri. E anche i magistrati che si sono occupati del caso durante gli anni: il giudice assassinato a dire il vero era arrivato alla fallimentare un anno dopo quel fallimento, dal 19 giugno 2009, ma ha retto anche l’ufficio temporaneamente nei mesi più critici di quella vicenda. In verità quei fondi neri erano ormai bruciati, tanto è che proprio il 9 marzo scorso è stato depositato il prospetto di riparto del fallimento della Magenta. Ammessi creditori privilegiati per 361 mila euro e chirografari per 2,5 milioni di euro. In cassa c’erano disponibilità liquide per appena 284 mila euro, più circa 60 mila euro derivanti da un accordo transattivo del tribunale con Unicredit leasing. Un buco da circa 2,2 milioni di euro che avrebbe pesato soprattutto sul destino di Giardiello. E che ha scatenato il piano omicida messo a punto ieri.