Filippo Facci, Libero 10/4/2015, 10 aprile 2015
IL «DURO» IN TOGA CHE NEL TEMPO LIBERO PRODUCEVA MIELE
«Era il mio padrone di casa da più di quindic’anni», dice un collega del Giornale, «però mi sembrava uno serio, tranquillo». Perché, come doveva essere? «Se dico che era il più odiato del tribunale, beh, non credo di sbagliare molto», aggiunge un giovane avvocato forse un po’ insolente. Siamo in via Manara, davanti allo stesso ingresso del tribunale da cui dovrebbe essere entrato l’uomo che ha appena trucidato tre persone, e tra queste lui, il giudice Fernando Ciampi. Si addensano capannelli che brulicano di giornalisti e soprattutto di avvocati. «Uno così lo volevano far fuori in tanti», taglia corto una giovane dall’accento calabrese. Ma perché, che vuol dire? E fioriscono aneddoti a ciglio asciutto: «C’era udienza, e il pm Luigi Orsi, con cui io andavo d’accordissimo, mi disse che aveva appena depositato una nuova memoria: beh, era nelle cose che Ciampi mi concedesse un rinvio per leggerla e analizzarla, è la normalità, invece mi disse: “Le do 20 minuti”». Un altro avvocato racconta - era il 2008 - che cominciò a parlare e però Ciampi lo interruppe subito così: «Avvocato, conti fino a dieci e poi ricominci a parlare solo se ha qualcosa di nuovo da dire». Va bene, e allora? Che significa? Mica l’ha ammazzato un avvocato, anzi, e poi lo dicono tutte le biografie che il giudice Fernando Ciampi da Fontanarosa (Avellino) era «integerrimo», insomma uno serio, un professore magari di quelli con la bacchetta. «Se è per quello era anche capace di carichi di lavoro straordinari, coltissimo in diritto, le sue sentenze facevano giurisprudenza e in università erano una specie di mito, insomma era uno tutto d’un pezzo, all’antica». Ma...? «Ma era inevitabile che fosse odiato: se capitava lui, gli avvocati, per dire, si mettevano le mani nei capelli». Ma perché? «Perché concedeva poco ai diritti della difesa, aveva questo atteggiamento burbero, altezzoso, ti faceva uscire dai gangheri, ti faceva proprio incazzare, mostrava scarso rispetto». «Ma era quello che chiamava col campanello?». «No, era quell’altro, il collega suo». Che campanello? «Ma niente, alla sezione fallimentare per chiamare gli avvocati che dovevano essere ricevuti suonavano un campanello, tipo quelli per chiamare il maggiordomo, ma poi sono passati a una cosa elettrica». Ho capito: ma a questo signore gli hanno sparato, l’hanno ucciso in un tribunale, come se entrassero in chiesa e ammazzassero un prete durante la messa. «Peggio, perché le chiese mica sono protette». Cioè, state dicendo che un giudice non è un mostro di simpatia e allora può essere normale se lo ammazzano? «Ma no, non è questo. È che, per rischiare la pelle, non c’è mica bisogno di fare il giudice antimafia o di frontiera: basta fare il giudice in un certo modo anche a Milano, occupandosi anche di fallimenti e bancarotte. Non è mica un mestiere normale, il giudice». Infatti gli imputati, in genere, non vanno in aula con la pistola. «Ciampi era intellettualmente onesto, ma se dicevi una cazzata ti fulminava. Qualcuno dice che lui era così per l’incidente». Che incidente? «Zoppicava e aveva una mano offesa, una cosa successa quand’era giovane». Sarà, ma non è chiaro come tutto questo si concili con altri tratti della sua biografia: Ciampi era «molto schivo e molto apprezzato sul lavoro, cercava sempre di trovare l’accordo tra le parti, velocizzando le procedure»: questo recita il sito del Corriere. È stato presidente della sezione fallimentare (dopo che l’altro presidente, Maria Rosaria Grossi, era stata indagata per tentata concussione e abuso d’ufficio) ed è autore di testi soprattutto di diritto societario e fallimentare: era un vero esperto in brevetti, marchi e diritto d’autore. Nelle varie e piccole biografie che lo riguardano, ieri, compariva sempre la parola «mite», forse perché pronunciata dal sindaco del piccolo centro avellinese in cui Ciampi tornava ogni anno, e dove aveva una casa: suo padre era il medico del paese. A scavare un minimo, viene fuori che il famoso incidente alla mano sinistra gli accadde da bambino, quando esplose un residuato di guerra trovato vicino a un fiume. Si era laureato a Napoli ed era entrato in magistratura a 24 anni (presto, cioè) e pochi mesi fa era andato in pensione, anche se manteneva l’ufficio dove è stato ucciso: ricordiamo che al processo della sparatoria era stato citato come testimone e non ne era il titolare. Anche se riservatissimo, e anche se non parlava quasi mai se non per lavoro, aveva le credenziali normali di una vita normale: una moglie coi capelli rosso mogano e due figli, uno dei quali di stanza negli Stati Uniti. Insomma, ci sono gli avvocati che lo dipingono come un duro che parlava sin troppo chiaro: «Non è un caso se scelsero proprio lui come presidente ad interim dopo lo scandalo che aveva coinvolto la Grossi», racconta una dipendente di lungo corso del palazzo di giustizia, «anche perché era un incorruttibile e non si faceva neanche avvicinare. Tra i suoi compiti c’era quello di far capire agli avvocati che era cambiata l’aria, e forse ce l’hanno un po’ con lui anche per questo. Non era cattivo, figurati, era uno che fuori Milano coltivava l’orto e produceva il miele».