Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  aprile 09 Giovedì calendario

LINCOLN – [A 150 ANNI DALLA MORTE, LUNGO IL PERCORSO DEL SUO TRENO FUNEBRE L’AMERICA SI INTERROGAVA SULLA VITA DEL PRESIDENTE CHE ABOLÌ LA SCHIAVITÙ E SULLA SUA EREDITÀ MORALE]


La cassa nera è custodita sotto il Campidoglio di Washington, ingabbiata da una griglia di metallo dietro spesse lastre di vetro, come se fosse un oggetto pericoloso, una bomba a orologeria pronta a esplodere. E forse in un certo senso lo è. Il cosiddetto “catafalco di Lincoln” fu costruito nell’aprile del 1865 per esporre la bara del presidente assassinato; il drappo scuro di velluto nasconde le tavole di pino grezzo inchiodate in fretta e furia. Da allora si è fatto ricorso a questa struttura ogni volta che è stata allestita la camera ardente di un martire o un eroe nazionale: James Garfield, William McKinley, John F. Kennedy, Douglas MacArthur. Quando non viene usato, il catafalco sta in una nicchia del centro visitatori del Campidoglio; qui, nell’indifferenza pressoché totale dei turisti, aspetta la prossima dipartita di qualche grande americano.
L’assassinio di Abraham Lincoln, 150 anni fa, è stato narrato e ricostruito innumerevoli volte: la fatale uscita per andare a teatro, il colpo di pistola nel palco presidenziale, lo spettacolare salto dell’attore assassino sul palcoscenico, la morte nella stanza di una modesta pensione. Molto meno noti sono i fatti che seguirono. Il paese pianse il suo presidente come non aveva mai pianto nessuno, e così facendo non solo delineò l’eredità di un eroe americano, ma istituì un nuovo rituale per la cittadinanza: la condivisione di una tragedia nazionale. Nelle settimane successive alla morte di Lincoln, il treno funebre compì un viaggio tortuoso che da Washington arrivò a Springfield, sua città natale, nell’Illinois. Circa un milione di americani sfilò davanti alla bara aperta per vedere il volto del presidente ucciso e altri milioni di persone – un terzo della popolazione degli Stati del Nord – assistettero al passaggio del corteo.
La vicenda non è poi tanto lontana nel tempo. E ancora oggi, come ho scoperto di recente, seguire il percorso del treno funebre di Lincoln significa capire fino a che punto il suo spirito continua ad animare la nazione che egli amò e contribuì a liberare dalla schiavitù.
Il 19 aprile, primo giorno dell’ultimo viaggio di Lincoln, la fila di soldati, ufficiali e civili, che seguì il feretro dalla Casa Bianca al Campidoglio era lunga un paio di chilometri; un cronista la definì «la più grande processione mai vista in questo continente». Nei giorni precedenti l’assassinio, la città aveva festeggiato la resa dell’esercito sudista ad Appomattox; ora le stesse bandiere che avevano salutato la vittoria erano listate a lutto.
Due giorni dopo, dalla stazione centrale di Washington partì un convoglio di nove vagoni che già qualche minuto dopo aver iniziato il suo viaggio verso nord entrava in un territorio in cui fino a tempi recenti aveva regnato lo schiavismo.
I vecchi binari della ferrovia lasciano il Maryland e piano piano salgono da Freeland verso New Freedom e le colline della Pennsylvania. Di quelle due cittadine dal nome beneaugurante, una è situata a sud, l’altra a nord della Linea Mason-Dixon, il confine tra i due Stati; finché il Maryland non approvò l’emancipazione, cinque mesi prima della morte di Lincoln, quella linea fu come una recinzione elettrificata che divideva quattro milioni di persone dalla libertà.Oggi il vecchio tracciato della ferrovia sul quale passò il treno di Lincoln è un sentiero per escursionisti. A segnare la Linea Mason-Dixon restano solo un palo di legno, una panchina e un paio di tavoli da picnic. Mi siedo sulla panchina con la parte sinistra del corpo a sud e quella destra a nord e resto sbalordito dall’invisibilita assoluta di quel confine. Un bruco verdolino mi passa sul davanti della camicia andando dalla Pennsylvania al Maryland; poi torna indietro, attraversando per la seconda volta la Linea Mason-Dixon.
Le barriere più impenetrabili, come sapevano bene Lincoln l’avvocato e Lincoln lo scrittore, sono spesso quelle costituite non da muri e trincee, né da montagne e oceani, ma quelle fatte di leggi e parole. Mai come in questo luogo avverto la terribile arbitrarietà della schiavitù. Lincoln, però, sapeva anche che una linea di separazione fatta di leggi e parole, per quanto formidabile fosse, si poteva eliminare con nuove leggi e nuove parole. È grazie a lui che questa linea oggi non esiste più. E dunque non c’è da stupirsi se durante tutta laprima giornata del suo viaggio funebre un assembramento di afroamericani da poco emancipati si radunò ai lati di questi binari.
Naturalmente il territorio americano è ancora attraversato da linee invisibili che, se non la schiavitù dall’emancipazione, separano almeno idee diverse di libertà. Lincoln e la Guerra di Secessione sono tuttora un punto di riferimento per molti. A qualche chilometro da New Freedom noto una Chevy Tahoe con un adesivo della bandiera sudista sul parafango e mi infilo dietro l’auto nel parcheggio davanti al ristorante Mason-Dixon; il proprietario sta andando alla rivendita di alcolici, ma è contento di scambiare due chiacchiere. Si chiama Keith Goettner ed è un poliziotto in pensione. Tredici suoi antenati combatterono per l’Unione e tre per i Confederati; ma lui è fedele ai Ribelli sudisti. Loro, dice, rappresentavano un certo tipo di libertà: «Il diritto di scegliere cosa fare, purché sia legale. Scavando a fondo nelle loro idee si scopre che i Confederati erano molto patriottici. Non volevano la guerra, volevano essere lasciati in pace».
È perlomeno singolare identificare la Confederazione schiavista con l’ideale della libertà personale. Ma in questa parte della Pennsylvania rurale, zona di conservatori, sono in molti a pensarla come Goettner. Poco più avanti mi fermo alla Freedom Armory, un’armeria che è anche un poligono, e faccio la conoscenza del proprietario, Scott Morris, un tipo con i capelli a spazzola originario della Louisiana. Ci mettiamo a chiacchierare, appoggiati a una vetrina lucidissima in cui gli oggetti in vendita hanno nomi come Patriot, Savage e Grenadier.
«Ho fatto il militare a Berlino negli anni della Guerra Fredda, a 180 chilometri dalla Cortina di Ferro», racconta Morris. «So che cos’è la libertà. Se non avessimo il diritto di portare armi, la libertà per noi non esisterebbe».
Gli chiedo che cosa pensi di Lincoln e dell’eredità che ha lasciato. «Apprezzo molte cose che fece», risponde, «ma mi domando se oggi stiamo meglio o peggio di allora. Se gli Stati avessero più diritti, le cose andrebbero meglio».
Anche ai tempi di Lincoln questa regione era nota per le simpatie sudiste. Philadelphia, invece, dove il treno funebre arrivò il 22 aprile, era una città abolizionista. La camera ardente fu allestita a Independence Hall, vicino alla Liberty Bell, la campana presa a simbolo dal movimento antischiavista, avvolta da un velo nero. Nella sala in cui erano state firmate la Dichiarazione d’indipendenza e la Costituzione degli Stati Uniti sfilarono giorno e notte circa 100 mila persone.
Lincoln era stato qui quattro anni prima, mentre andava a Washington per il suo primo insediamento. La sua fu una visita memorabile e stranamente profetica. Nel febbraio del 1861 la guerra era alle porte: all’alba il neopresidente aveva alzato la bandiera sopra il palazzo e aveva parlato con veemenza del significato della dichiarazione.
Quel documento, disse Lincoln, non parlava semplicemente di liberare gli americani dalla Gran Bretagna. C’era invece «qualcosa nella Dichiarazione che non solo concede libertà al popolo di questo paese, ma infonde speranza al mondo per il futuro. Lì si promette che a tempo debito verranno tolti i pesi dalle spalle di tutti gli uomini e che tutti avranno pari opportunità». E poco dopo aggiunse: «Se questo paese riuscirà a salvarsi solo rifiutando quel principio, preferirei quasi essere ucciso qui seduta stante piuttosto che rinunciarvi».
Le parole di Lincoln toccano corde profonde in Ada Bello, che incontro nella Independence Hall. A partire dagli anni Sessanta, la Bello e altri attivisti come lei si sono radunati qui spesso per dar vita ad alcune delle prime manifestazioni per la difesa dei diritti dei gay nella storia degli Stati Uniti. All’epoca le poche decine di manifestanti erano spesso in minoranza rispetto alle schiere guardinghe di poliziotti e agli astanti che li fischiavano. Oggi una targa rende omaggio a quei manifestanti. E qualche settimana prima della mia visita la Pennsylvania ha autorizzato i matrimoni fra persone dello stesso sesso.
Oggi Ada Bello ha 81 anni: le storie che racconta con voce pacata somigliano molto a quelle degli schiavi neri in fuga sulla cosiddetta Underground Railroad. Agli albori del movimento per i diritti degli omosessuali, l’idea stessa che gli omosessuali potessero avere dei diritti veniva considerata ridicola se non pericolosa da moltissimi americani. La polizia faceva regolarmente irruzione nei bar gay della città e la rivelazione in pubblico dell’orientamento gay di una persona poteva mettere fine alla sua carriera, o spingerla al suicidio. «Il matrimonio non veniva contemplato come possibilità».
Ai tempi di Lincoln quest’idea sarebbe sembrata ancora più inverosimile, ma la Bello non esita a individuare una grande affinità di pensiero con il presidente. Nel Settecento, dice, i fondatori di questo paese formularono idee grandiose ma imperfette. «Secondo me Lincoln si rese conto che sarebbero state false promesse a meno di non applicarea tutti gli stessi principi. Capiva la necessità di coinvolgere altre minoranze».

«È morto per me! È morto per me! Che Dio lo benedica!». Queste parole, pronunciate da un’anziana donna in lacrime al passaggio della bara di Lincoln nelle vie di Lower Manhattan, danno un’idea di come fu accolta da lei e da molti altri afroamericani la notizia della morte del presidente. Bianchi o neri, tutti sapevano che a scatenare l’odio omicida contro Lincoln era stato il ruolo che aveva svolto nel processo di abolizione della schiavitù. Gli afroamericani speravano di prendere posto nelle prime file del corteo; in più di 5.000 si prepararono a partecipare a quello di New York. Ma molti bianchi la pensavano in maniera diversa.
Alcuni giorni prima dell’arrivo del treno funebre, le autorità municipali decisero di non autorizzare i neri a far parte della processione. Edwin Stanton, il ministro della guerra, mandò a Washington un telegramma furibondo per revocare il divieto, ma l’intimidazione aveva funzionato: alla grande sfilata del 24 aprile a Broadway intervennero migliaia di pompieri irlandesi, bande musicali tedesche, circoli sociali italiani, preti cattolici e rabbini ebrei, come pure alcune delegazioni speciali di panettieri, fabbricanti di sigari, massoni, gruppi musicali e attivisti del Movimento della Temperanza. In fondo a tutti, un paio di centinaia di afroamericani.
Ripercorrere oggi il cammino seguito dal corteo funebre significa spesso ricordare quell’amara lezione. A Buffalo vado a visitare i luoghi storici della città costruiti nell’Ottocento: non solo l’imbarcadero sul Canale Erie che una volta era la porta per l’Ovest, ma anche vestigia come quelle della chiesa battista di Michigan Street, sorta negli anni Quaranta come centro della comunità nera della città, una comunità che si distinse per la vivacità intellettuale e l’attivismo politico. Nella chiesa parlavano predicatori e attivisti noti in tutta l’America; nel seminterrato trovavano rifugio gli schiavi fuggiaschi. Durante il secolo successivo, intorno alla chiesa sorse un fiorente quartiere di negozi, ristoranti e locali notturni.
Oggi Buffalo è una delle città più povere del paese e una delle più divise a livello razziale. La vecchia chiesa campeggia in un desolato paesaggio metropolitano. Il vescovo Clarence Montgmomery, pastore della chiesa, mi racconta che qui solo la metà degli studenti afroamericani finisce le scuole superiori. Nelle vie dominano negozi vuoti, condomini di edilizia pubblica, case piccole e strette. Resto stupito quando poco più a nord lo scenario di decadenza metropolitana cede il passo a un mondo diverso: una fila scintillante di uffici ed edifici ospedalieri e altre costruzioni in corso d’opera. Si tratta del nuovo “corridoio medico” della città, segno promettente di ripresa economica; solo che quasi tutte le persone che vedo, dai pazienti agli operatori sanitari agli operai edili, sono di pelle bianca. «Michigan Avenue sta diventando la nostra Linea Mason-Dixon», dice George Arthur, ex presidente del consiglio comunale e leader di antica data della comunità afroamericana locale. «Il corridoio medico sta portando prosperità ai bianchi, ma la ricchezza non raggiunge quasi mai la comunità nera, che fa registrare uno dei più alti tassi di disoccupazione del paese».
Il treno funebre di Lincoln attraversò lo Stato di New York risalendo l’Hudson per poi costeggiare il lago Erie lungo lo stesso percorso seguito oggi dai treni Amtrak. Negli anni Sessanta dell’Ottocento la ferrovia non era solo una tecnologia nuova: era una specie di culto nazionale. Qualche mese prima della fine della guerra di Secessione, William Lloyd Garrison, leader del movimento abolizionista, descrisse in termini quasi mistici la rivoluzione iniziata con l’avvento del treno, foriero non solo di prosperità economica ma di legami umani: «Che i modi della comunicazione e i vincoli dell’esistenza possano continuare a moltiplicarsi finché tutte le nazioni non siano animate da uno stesso senso di solidarietà e venerino uno stesso tempio!».
Della rete ferroviaria del periodo bellico percorsa dal treno funebre fra Columbus e Chicago restano poche tracce. Ma mi dico: Lincoln è passato anche da qui. La notizia del delitto raggiunse questi luoghi sperduti poche ore dopo lo sparo. E due settimane dopo, quando arrivò il treno, la popolazione era consapevole dell’appuntamento che l’aspettava con il presidente morto.
Il treno viaggiava di notte da una grande città all’altra, ma non al buio, perché quasi a ogni passaggio a livello ardeva un falò; nelle stazioncine di paese verso le tre o le quattro di notte si radunarono fino a 10.000 persone, evento inimmaginabile in un’epoca e in un luogo in cui la vita si svolgeva per la maggior parte dall’alba al tramonto. Mentre i contadini e le loro famiglie aspettavano al freddo, la banda suonava una marcia funebre. A Greenfield, nell’Indiana, il telegrafo annunciò che il treno distava pochi chilometri e nell’attesa un giovane reduce lesse alla folla il discorso tenuto da Lincoln in occasione della sua rielezione. Quando comparve la sagoma nera della locomotiva, il pastore locale intonò una preghiera. Poi la luce del fuoco tremolò brevemente sul vagone funebre, sulla vernice lucida, sul velo nero con la frangia argentata; ma i finestrini non lasciarono intravedere nulla. Quasi tutti piangevano; alla fine si udì un fischio e il convoglio proseguì la sua corsa insieme alla storia.
La pace è una calda domenica pomeriggio in un sobborgo di Chicago, ai bordi di un lago artificiale sul quale alcune persone remano in barca. Solo quando tornano a riva mi accorgo che uno di loro zoppica; è giovane e atletico, ma si appoggia a un bastone come un vecchio. Brad Schwarz è un reduce che dovrà convivere per il resto dei suoi giorni con quello che gli è successo in Iraq una mattina d’autunno del 2008, quando l’Humvee sul quale viaggiava è passato sopra una bomba. Brad è sopravvissuto, ma riportando gravi ferite nel corpo e nella psiche. Tornato a casa, ha cominciato a dormire con una pistola carica sotto il cuscino e un’altra nel comodino. Mi racconta che si era sempre interessato alla storia e che era partito volontario per l’Iraq con la sensazione di partecipare a un grande evento, un po’ come era capitato ai soldati della Guerra di Secessione o della Seconda guerra mondiale. Ma presto lo stato d’animo è cambiato. «La sensazione non era quella di prendere parte a un evento storico. Facevo il mio lavoro e basta», dice. «E non mi sembrava che stessimo migliorando la situazione. In Iraq ho perso tanti amici, ho versato lacrime, sudore e sangue e a volte sento che non è servito a niente».
Nella primavera del 1865 anche la Guerra di Secessione sembrò altrettanto inutile e terribile a molti americani. Era evidente che il conflitto non non era necessario; non si era trattato di un’invasione straniera, ma di una questione di politica interna finita tragicamente. Ed erano morte 750 mila persone. Tante famiglie non avevano neppure una salma da seppellire o un ricordo da custodire: moltissimi uomini e ragazzi erano semplicemente svaniti nel fango della Virginia o del Tennessee. Forse è per questo che gli americani piansero il martirio di Lincoln con tanto trasporto. «Continuavano ad arrivare lettere con la notizia della morte di un parente», dice la storica Martha Hodes, autrice di Mourning Lincoln, un nuovo libro sulla morte del presidente e le sue conseguenze. «Con il funerale di Lincoln si piansero il fratello, il figlio o il padre che non sarebbero più tornati a casa neanche da morti».
Forse è anche questo il motivo per cui la gente ci teneva tanto non solo a veder passare la bara di Lincoln, ma a sfilare davanti alla sua salma. La gente si appropriava di qualche reliquia come se si trattasse di un santo: un brandello del drappo che copriva il catafalco, un frammento del velo del treno funebre. A poche ore dalla morte di Lincoln, un lembo della sua camicia macchiata di sangue già costava una moneta doro da cinque dollari. Ma i più commoventi secondo me sono i resti di corone e mazzi di fiori che si conservano ancora, a 150 anni da quel giorno. Una foglia d’alloro, un bocciolo di rosa scolorito: offerte senza vita, come se la primavera stessa fosse stata offerta in sacrificio.
L’ultima sosta del treno prima di Springfield fu nella città di Lincoln, 50 chilometri più a nord; una decina di anni prima, quando il futuro presidente era ancora un legislatore dello Stato dell’Illinois, era stata la prima delle tante città americane a rendergli omaggio prendendo il suo nome.
Un tardo pomeriggio mi fermo a Lincoln anch’io. La città è sonnolenta, le facciate vittoriane un po’ scalcinate. La piazza principale, sulla quale incombe il palazzo di giustizia, appare quasi deserta; ci sono solo alcuni ragazzini che girano in tondo in sella alle loro BMX, impennando pigramente. A un angolo del vecchio palazzone bianco scorgo una colonna di marmo immacolato. Cent’anni di piogge acide hanno eroso i nomi dei caduti e delle battaglie: più che un monumento alla memoria dei trisnonni, la colonna sembra un rudere dell’antico Egitto o di Babilonia. Affiorano frammenti indistinti di nomi: “TOMLINSO... DAVI... SHILOH”. Su una targa più recente, si legge la citazione di un articolo di un quotidiano locale dell’aprile 1862, un anno dopo l’inizio della guerra: “Le notizie di caduti e feriti della nostra contea occupano poco spazio sulle colonne del nostro giornale, ma ogni nome dell’elenco è un fulmine che colpisce qualche cuore affezionato”.
Mi fermo a leggere e uno dei ragazzini in bicicletta accosta e mi chiede che cosa sto facendo. Poco dopo sta già snocciolando una serie di aneddoti su Lincoln: sulla città e il suo presidente («Abraham», lo chiama confidenzialmente).
Tim Evans ha 17 anni, frequenta il penultimo anno delle superiori e ha un mucchio di progetti per il futuro: vuole fare l’architetto; vuole diventare saldatore subacqueo; vuole diventare un professionista di BMX. Indico la colonna di marmo e gli domando se ha mai pensato alla carriera militare. «Qualche volta», risponde dubbioso. Ma ha altri progetti. Così come li avevano i caduti ricordati su questo monumento, penso, così come i 750 mila altri caduti ricordati su altri monumenti: ciò che resta di esistenze che un tempo furono complicate, incerte e ottimiste tanto quanto la sua.
Alla fine Lincoln venne sepolto a Springfield il 4 maggio, quasi tre settimane dopo la morte. La tomba, scopro, è una delusione. Dal 1865 è stata ricostruita due volte – l’ultima negli anni Trenta, in un incongruo stile Art déco – e nella versione attuale ha tutto il fascino dell’anticamera di un ufficio (nei decenni successivi all’interramento la bara è stata spostata 14 volte, come se nessuno fosse riuscito a capire dov’era meglio metterla). Le lunghe scritte sulla parete riportano quasi tutti i dati biografici del presidente, ma non il Proclama di emancipazione. La guida ci informa che la salma giace sotto tre metri di cemento. È strano pensare che Lincoln esista ancora fisicamente in un luogo di questa Terra, e per di più in un luogo così.
Ore dopo mi incammino verso un altro cimitero, a qualche chilometro di distanza. Quando arrivo non c’è anima viva: solo file e file di lapidi bianche identiche. Qui, nel Cimitero nazionale di Camp Butler, sono sepolti più di un migliaio di caduti della Guerra di Secessione, in gran parte uomini che morirono di malattia in condizioni miserande presso il campo di addestramento e il carcere militare che si trovano nelle vicinanze. Sotto queste lastre di marmo squadrate sono tutti uguali: ufficiali e soldati semplici, neri e bianchi. E anche nordisti e sudisti, perché qui sono sepolti centinaia di prigionieri confederati: cavalleggeri texani, fanti dell’Arkansas, adolescenti del Tennessee e dell’Alabama che trovarono la morte lontano dal suolo difeso combattendo.
Molte lapidi sono anonime, ma la maggior parte reca una data. A poco a poco mi rendo conto che una quantità notevole di tombe risale alla primavera del 1865; forse sul campo si era abbattuta un’epidemia. Ce n’è una sezione intera risalente alle prime due settimane di aprile, anche alcune tombe datate 14 e 15 aprile: gli stessi giorni dell’assassinio del presidente nella lontana Washington. Una di queste tombe è di un soldato delle Colored Troops.
Potessi scegliere, Lincoln lo farei riposare qui, fianco a fianco con questi suoi compagni, tra i fitti ranghi di questi onorati caduti di guerra.