Dante Matelli, National Geographic 4/2015, 9 aprile 2015
IL VIAGGIO DELLA SINDONE
La Sindone, il lenzuolo con l’immagine di un uomo con occhi chiusi, armonioso e bello, per tradizione consolidata riporta a Gesù. Solo Dio sa se è di fattura divina (“acherotipa” cioè non fatta a mano), se quel sangue di color ruggine è quello del Cristo sul Golgota e così i capelli lunghi e la barba da nazareno. Solo Dio ha le chiavi del rovello: così credono fedeli e pellegrini chiamati a Torino dall’ostensione. Secondo Gian Maria Zaccone, autore di un dottissimo manuale-sintesi di tutta la letteratura sindonologica, «la storia ci insegna che per il fedele, il pellegrino, non è fondamentale la questione scientifica. Il più, il meglio, ciò che sentono di fronte a quell’immagine è il rinvio alla figura di Cristo, dalla cui contemplazione scaturisce una realtà di pietà e devozione: che non è mai venuta a mancare in ogni epoca. Conta quello».
«È un’icona stampata su un lino di fattura medievale comprata secoli fa dai Savoia per ragioni politiche e ora di proprietà vaticana», dice lo storico Franco Cardini. E Andrea Nicolotti, specialista dell’analisi testuale, puntiglioso esegeta delle fonti e della storia della Sindone: «Prima o poi spunterà il nome dell’artigiano che l’ha confezionata. Ne dubitò subito l’arcivescovo di Lirey, dove apparve alla fine del Trecento, e due secoli dopo papa Clemente VII mise in guardia i credenti: è una rappresentazione. Ci sono i documenti, le testimonianze, i processi. Il resto è uso politico».
Di sicuro la Sindone con la sua immagine è un oggetto la cui presenza en arké, dal principio, dai tempi di Tiberio imperatore fino a oggi, in ogni sua metamorfosi si è sempre trasformata in emozione. Al punto che la sua autenticità non è un problema essenziale per la Chiesa. «Lasciamolo alla scienza», dichiarò papa Woytila in un celebre e laicissimo discorso. Non è una reliquia, ma un’icona, se si vuole un simbolo; speciale, diversa, inspiegabile, comunque sempre un rimando ad altro. E come ogni simbolo, per vivere ha bisogno di chi la guarda e la vive (o vuol vivere quella storia che racconta, la sofferenza cui rimanda, come dice il biblista Giuseppe Ghiberti).
È Giovanni, il quarto evangelista, a stabilire questo rapporto. Nel suo racconto, a Resurrezione avvenuta, descrive la corsa verso il sepolcro vuoto di Pietro e del “discepolo che Gesù amava” (Giovanni stesso, secondo l’interpretazione predominante) per capire che cosa sia successo. Pietro entra nella tomba e si accorge che il sudario non è posato con gli altri teli ma ripiegato in un angolo. Tace, non reagisce. Ma Giovanni “vide e credette”.
L’evangelista si concentra (ci fa concentrare) su una visione “altra” in un cuore innocente. Ci descrive senza descriverlo un volo: è un taglio di Fontana su una tela nuova, lo sbaffo di Chagall sul tetto di un villaggio. Nessuno dei due artisti pretese di rappresentare il reale tangibile ma ambedue aprirono al mistero. L’effetto è quello. Non c’è bisogno di particolari. Solo due verbi danno inizio a una storia molto umana e la prosa è da grandi occasioni. Non un miracolo, ma una reazione di chi trova il divino in sé grazie a un oggetto di per sé banale.
E viceversa: fissa il primo passo di un oggetto-simbolo (la Sindone) non nei cieli della teologia, ma nelle vene e nella pancia degli uomini. La Sindone, in ogni sua versione, anche quella di Torino, è en arké, dunque una storia di uomini. Una storia di fede, avventurosa e soprattutto umana se ce ne sono state.
A cominciare da Antiochia (oggi, in turco, Antakya) nell’attuale Turchia meridionale. Ai tempi di Cristo è la terza città dell’Impero Romano, cosmopolita e tollerante. Ad Antiochia, per la prima volta i discepoli sono chiamati cristiani. È lì, dato il clima persecutorio a Gerusalemme, che si rifugia Pietro con molte reliquie della Passione: è stato il primo a entrare nella tomba: logico, si pensa, si crede, che porti con sé la Sindone. Ad Antiochia c’è una chiesa rupestre chiamata Grotta di San Pietro; ne fu il primo vescovo. Non è andata proprio così, insinua Santa Cristina di Georgia tre secoli dopo. La Sindone è passata dalle mani della moglie di Pilato, arrivata anche lei alla tomba; l’ha consegnata a San Luca che l’ha nascosta finché non è stata trovata da Pietro.
La moglie di Pilato? Certo, dice Santa Cristina di Georgia. La grazia divina, via Sindone, l’ha toccata, s’è fatta cristiana. Da nessuna parte c’è la menzione di una figura umana impressa nel lenzuolo: ci fosse stata Pietro ne avrebbe parlato, Giovanni l’avrebbe menzionata, sostiene Mauro Pesce, storico del primo Cristianesimo.
Mancano i documenti e quelli che ci sono, e i Vangeli e le abitudini funerarie del tempo, non raccontano affatto questa storia di immagini impresse. Non c’è alcun nesso tra la Sindone di Torino e il sudario che vide Pietro, conclude Pesce. Ma intanto il telo è già entrato nella devozione popolare che gli accredita anche la conversione in lacrime di Pilato alla vista del Sacro Lino.
Nel 540 il re persiano Cosroe, in guerra con l’impero romano, conquista Antiochia e le dà fuoco. I cristiani fuggono a Edessa (oggi Sanliurfa) dove se ne hanno notizie quattro anni dopo; è un centro che unisce il Mediterraneo alla Mesopotamia, è città colta, con una fioritura di orientalismi religiosi. Ci sono gli dei Nabu (babilonese), Baal (fenicio) e anche tutti quelli dell’Olimpo. A pochi chilometri da Edessa c’è Harran, un vecchio snodo stradale, oggi un ammasso di case di fango a forma di termitaio. È lì che YAHWEH un millennio prima parlò la prima volta ad Abramo: “Vattene verso il paese che io ti indicherò”, la terra di Canaan. Harran dunque chiude un cerchio, è un ritorno alle origini e salda un credo se ce ne fosse bisogno. A Edessa ancor oggi c’è il bacino di Abramo, un’enorme vasca presso la moschea di Ulu Chami dove nuotano delle grasse carpe. Abramo fece un miracolo: convertì in acqua un fuoco che doveva bruciarlo e in pesci i ceppi che lo stringevano. Chi li mangiava diventava cieco.
A Edessa spunta un telo con la faccia di Gesù, il celebre e celebrato Mandylion (panno, in arabo). È il volto del Cristo riportato su un drappo sorretto da angeli. L’autore è Cristo stesso. Lo mandò ad Abgar V, il re di Edessa. Questi, “consunto da un male incurabile”, aveva scritto al Nazareno. Gesù lo “degna di una lettera personale” (così Eusebio di Cesarea, Padre della Chiesa e autore di Storia ecclesiastica).
Intanto Abgar manda anche un pittore, vuole un’immagine, ma di fronte alla “gloria indicibile del Suo volto” il pittore si arrende. Cristo se ne accorge, chiede acqua, si lava, e si asciuga il viso con un panno (il Mandylion) su cui rimangono impressi i suoi lineamenti, quelli che conosciamo tutti: biondo, capelli lunghi, dolce sguardo, com’è raffigurato in un’icona del X secolo nel convento di Santa Caterina nel Sinai.
L’uomo della Sindone esposta a Torino gli somiglia: ma gli occhi sono quelli di un morto, chiusi. «Non mi sembra un particolare da poco», dice il professor Cardini. Ricevutolo, Abgar guarisce. Ma, aggiunge la santa pellegrina Egeria che lesse una copia della lettera inviata da Gesù, in quelle righe c’è la promessa della inespugnabilità della città grazie alla presenza del Volto Santo sul Lino. Ancora oggi Edessa, città severamente musulmana, giura sull’attendibilità della promessa. Nel bazar raccontano che la sacra immagine partecipò a una battaglia contro i persiani. Patì l’acqua e il fuoco ma i persiani si ritirarono. Una squadra di archeologi americani, diretta da Ian Wilson, sostiene di aver trovato il sito dove fu custodita.
Ed è questa qualità apotropaica, che allontana un’influenza maligna, un nemico, che indusse il duca Ludovico II di Savoia a comprare la Sindone, il 22 marzo 1453, dalla discendente di un crociato, per farne il palladio del casato, la protettrice divina, come Minerva con Atene; un evidente segnale della benevolenza di Dio. Anche Hitler ebbe l’idea di impossessarsene. Pio XII, durante la Seconda guerra mondiale, con la scusa di salvarla dai bombardamenti, la spedì nel santuario di Montevergine, in provincia di Avellino, proteggendola con l’anonimato del luogo.
Torniamo al 944, quando Giovanni Curcas, a capo dell’esercito bizantino, assalta Edessa e porta a Costantinopoli una immagine “non fatta da mano umana” del volto di Gesù per garantire alla capitale una “nuova e potente forza di protezione divina”. L’accoglienza è trionfale. L’immagine è accompagnata da un’infinita processione e l’arcidiacono di Santa Sofia le dedica un giorno, il 16 agosto.
La vede, e siamo nel 1204, Robert de Clari, un cavaliere letterato proveniente dalla Piccardia al seguito della IV crociata. Costantinopoli la grassa, la colta, subisce un saccheggio da parte dei crociati che dura tre giorni; questi si avventano sulle reliquie. De Clari scrive di aver potuto “contemplare la Sindone in cui fu avvolto Nostro Signore”, e conclude: “Nessun greco né latino conosce cosa avvenne della Sindone dopo il saccheggio della città del 12 aprile 1204”.
Da questo momento la storia della Sindone diventa un racconto di Borges: un giardino di sentieri che si biforcano in uno spazio infinito in cui, di fronte a più alternative, decidendo per l’una non si eliminano le altre. A cominciare dal momento dell’apparizione della Sindone, quella esposta a Torino, all’improvviso, in uno sperduto villaggio dello Champagne francese, Lirey, nel 1353.
Da dove viene? Come c’è arrivata?
Una copia del Mandylion bottino di guerra – ciò che vide, o racconta di aver visto, De Clari a Costantinopoli – fu venduta nel 1247 al re di Francia Luigi IX e sparì nel trambusto della Rivoluzione francese. Così, documenti alla mano, Andrea Nicolotti. Non c’entra niente con la Sindone di Torino. Le misure non combaciano: quella è lunga più di quattro metri, il Mandylion era poco più di un asciugamano. E la finisce lì. Ma con il sacco di Costantinopoli la narrazione imbocca anche altri sentieri con altre prove. De Clari l’ha vista, è una reliquia, lo dice lui, è uno dei padri della “lingua d’oil” (da cui si sviluppò l’attuale lingua francese), dunque attendibile, dunque esiste. Ed è questo il punto di partenza di molte altre alternative, di cui una arriva a noi.
Uno dei crociati, Othon De La Roche, si impossessa della Sindone e la consegna ai cavalieri Templari, oppure a un agente dell’imperatore bizantino, perché la portino a suo padre Pons, che vive nel castello di Ray-sur Saone. Questi la affida all’arcivescovo di Besançon, dove viene esposta ogni anno per Pasqua, fino al 1349. Sopravvive a un incendio. Ne viene fatta una copia che d’ora in avanti verrà esposta in un teatro – dipendenza della cattedrale di Saint-Étienne con una scenografia sfarzosa. La città di Besançon ne ricava fama e ricchezza: anche 30 mila visitatori in un giorno. Questa copia verrà bruciata durante la Rivoluzione francese. Ma di nuovo vince la devozione che diventa tradizione: fino all’Ottocento la dote di ogni ragazza di Besançon includerà un bordato ricamato con l’immagine della Sindone.
Nel 1353 troviamo la Sindone di Torino nelle mani di Jeanne de Vergy. È una nobildonna discendente di Othon e la porta in dote (si dice, si desume, lo dirà una sua discendente) quando va sposa a Geoffroy de Charny. A Parigi alla fine dell’Ottocento, durante un drenaggio della Senna, sotto il Pont aux Charges è stato trovato un bassorilievo medievale sbalzato in piombo: riproduce quel matrimonio, la Sindone e gli stemmi nobiliari di Jeanne e di Geoffroy in mezzo ai quali è rappresentato il Sepolcro vuoto. Per alcuni è la prova delle prove.
Geoffroy de Charny è un cavaliere di stampo ariostesco. È letterato, autore di un trattato sulla cavalleria, coraggioso in battaglia. Durante la Guerra dei Cent’anni viene catturato dagli inglesi e fa voto di costruire una chiesa a Lirey appena libero. Diventa porta-orifiamma; cavalca in testa all’esercito reale reggendo lo stendardo. Muore nella battaglia di Poiters nel 1356 facendo scudo al re col suo corpo. Ha sempre parlato pochissimo della Sindone. Ma le dà una casa e dei canonici che la custodiranno.
Così facendo la toglie dall’oscurità, porta il mito alla luce del sole e la introduce nella storia di oggi. Lirey diventa meta di pellegrinaggio; gli uomini devono presentarsi con una tunica fino alle ginocchia e le donne coperte fino alla caviglia. Sorgono negozi artigianali di souvenir, immagini, medaglioni portafortuna come racconta Alain Hourseau, francese, appassionato biografo di Geoffroy. Il quale non svelò mai come si era impossessato della Sindone, aggiungendo leggenda a ciò che era sempre stato percepito come un segreto. E anche questo è un tocco di modernità.
Dalla morte di Geoffroy la Sindone viene passata di mano in mano dai suoi eredi maschi e femmine, tra indulti, processi, scomuniche, fughe, interventi di papi, antipapi e cardinali. Nel 1418, per le avvisaglie di una guerra tra Borgogna e Francia i canonici di Lirey la affidano a Marguerite de Charny, l’ultima della famiglia di Geoffroy. Rimasta vedova, senza risorse e protezione, Marguerite la cede, per denaro, a Ludovico di Savoia; verrà scomunicata.
Siamo nel 1453. Per i Savoia la Sindone diventa il palladio, protettore della Casa, e la prova tangibile del favore del Cielo. Sul pennone della Capitana, la nave con cui partecipano alla battaglia di Lepanto, c’è una sua riproduzione. Viene trasferita a Chambery, la capitale. Il papato intanto ha permesso il suo culto purché si dichiari a voce alta che non si trattava di una vera reliquia. Nel 1532 scoppia un incendio e viene danneggiata. Sarà riparata dalle suore Clarisse di Saint Claire en Ville, presenti al rammendo decine di pellegrini venuti anche da Roma. Gian Maria Zaccone sottolinea come dalla reazione delle suore possiamo capire che cosa fosse diventata l’esperienza del Sacro Lenzuolo. Le suore “vissero i giorni passati con la Sindone come una profonda esperienza spirituale” e, a lavoro terminato, “rimanemmo orfane di Colui che ci aveva così benignamente visitato attraverso la sua immagine”. Insomma l’evento, una banale cucitura per cui fu usata tela d’Olanda, si trasformò in un’emozione mistica, un correlativo oggettivo, come avrebbe potuto chiamarlo il poeta T.S. Eliot, e forse anche oggi l’esperienza dei credenti non è diversa: un work in progress dove ogni singola persona trova solamente dentro di sé la risposta a una domanda che non ha ancora formulato.
Non fu diversa la reazione dei valligiani tra Savoia e Piemonte quando Emanuele Filiberto nel 1578 trasferì la Sindone a Torino, divenuta la nuova capitale del Ducato. Fu un percorso accidentato, pericoloso per la presenza di protestanti in armi, e documentato dalla devozione popolare, mai più così sentita. Affreschi che ne descrissero la presenza abbellirono chiese, case, angoli di strade, dovunque si fosse fermata o passata sono ancora visibili. E Mario Durando, frate cappuccino, li ha ripercorsi, ha scritto la loro storia, li ha catalogati. “Erano uomini che si misuravano col fulmine, con la grandine, con le lune. Ma nei loro pensieri questo Lenzuolo era la verità”, scrisse Giovanni Arpino.
Nel 1898 la Sindone fu fotografata da Secondo Pia, un avvocato di Asti, fotografo dilettante. L’immagine sul negativo della lastra fece apparire il volto di un uomo solennemente composto nella morte.
Ne scaturì una polemica feroce. «Nei cento e più anni che ci separano dalla prima fotografia della Sindone, sulle ricerche e sugli studi effettuati sul sudario sono stati versati fiumi d’inchiostro e la bibliografia sindonica conta migliaia di opere scritte e pubblicate in tutti i continenti», dice Bruno Barberis, professore associato di Fisica matematica all’Università di Torino e direttore del Centro internazionale di Sindonologia.
Novanta anni dopo, nel 1988, il cardinale Ballestrero di Torino autorizzò l’analisi del telo con la tecnica radiometrica del carbonio 14. Il risultato, pubblicato dalla rivista Nature, lo datò tra il 1260 e il 1390, periodo compatibile con le prime testimonianze certe della sua esistenza. E la sua sacralità come santa reliquia fu data per morta e sepolta.
Ma un’équipe di studiosi dell’Università di Padova tentò di risarcire 2.000 anni di devozioni arrivando a conclusioni opposte: secondo il suo studio, la radiodatazione del carbonio 14 sarebbe falsata da contaminazioni ambientali e andrebbe anticipata all’epoca di Gesù. Le tracce di polvere, polline e spore, presenti nel telo, indirizzerebbero verso la provenienza mediorientale; il corpo raffigurato sul Sacro Lino avrebbe subito le violenze raccontate nei vangeli della Passione (fustigazione, chiodi, etc...).
E l’immagine? Qui, su questa traccia, alcuni si affidano al paranormale: l’immagine sarebbe stata prodotta dall’eccezionale radiazione sviluppatasi al momento della Resurrezione. Una specie di esplosione atomica in miniatura...
«Tra le tante definizioni date alla Sindone mi piace quella che la definisce un’immagine inspiegabile perlomeno fino ad oggi», sostiene Barberis, «perché sottolinea un fatto realmente sorprendente: tutte le teorie proposte fino a oggi di spiegare la modalità dell’immagine sindonica sono risultate carenti. Tutti gli esperimenti che hanno tentato di riprodurre l’immagine sindonica hanno prodotto copie dalle caratteristiche fisico-chimiche molto diverse da quelle dell’originale. Insomma, il processo che ha causato la formazione dell’immagine rimane ancora ignoto», conclude.
In questi giorni la Sindone viene esposta a Torino. Un’occasione solenne. Ma nella sua celebre omelia del 24 maggio del 1998, Giovanni Paolo Il ha invitato i credenti alla fede prudente, alla devozione profonda ma accorta. Papa Wojtyla si espresse in modo molto laico: «La Sindone è provocazione all’intelligenza. Essa richiede innanzitutto l’impegno di ogni uomo, in particolare del ricercatore, per cogliere con umiltà il messaggio profondo inviato alla sua ragione ed alla sua vita. Il fascino misterioso esercitato dalla Sindone spinge a formulare domande sul rapporto tra il Sacro Lino e la vicenda storica di Gesù. Non trattandosi di una materia di fede, la Chiesa non ha competenza specifica per pronunciarsi su tali questioni. Essa affida agli scienziati il compito di continuare ad indagare per giungere a trovare risposte adeguate agli interrogativi connessi con questo Lenzuolo che, secondo la tradizione, avrebbe avvolto il corpo del nostro Redentore quando fu deposto dalla croce. La Chiesa esorta ad affrontare lo studio della Sindone senza posizioni precostituite, che diano per scontati risultati che tali non sono; li invita ad agire con libertà interiore e premuroso rispetto sia della metodologia scientifica sia della sensibilità dei credenti».
D’altra parte, come proseguì lo stesso Giovanni Paolo nel corso di quella stessa omelia: «È giusto nutrire la consapevolezza della preziosità di questa immagine che tutti vedono e che nessuno per ora può spiegare».
Per NatGeo Italia Dante Matelli ha scritto il reportage sull’acquedotto pugliese (agosto 2013). Marco Ansaloni è stato autore di vari servizi, tra cui quello sulla Domus Aurea (settembre 2014).