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 2015  aprile 03 Venerdì calendario

IL CANDIDO CRUDELE


[Donatien-Alphonse-François de Sade]

PARIGI. Un sorrisetto imbarazzato, una battuta salace, un motto ammiccante, una facezia sconcia, nessuno rimane impassibile davanti al nome del marchese de Sade. Non è servito alla famiglia cancellarlo dall’albero genealogico, bruciare le sue opere, murare la sua corrispondenza; né alla Francia tenerlo recluso per ventisette anni, perseguitato per oscenità dal regime monarchico, dalla Repubblica e dal governo napoleonico. Del libertino più famoso del mondo si continua a parlare non senza polemiche.
C’è chi considera Donatien-Alphonse-François de Sade il precursore del pensiero radicale che portò fino alle estreme conseguenze le contraddizioni del pensiero illuminista, e chi come il filosofo Michel Onfray lo giudica «un delinquente sessuale». Se nell’Ottocento Justine, Le 120 giornate di Sodoma, La filosofia nel boudoir circolavano clandestinamente, l’opera completa di Sade è da vent’anni pubblicata nella Pléiade, la collana più prestigiosa dell’editoria francese. Lo scorso anno poi, in occasione del bicentenario della morte (2 dicembre 1814), sono state dedicate a Sade mostre, libri, perfino un profumo e dei gadget come le candele rosse per ricordare che negli ultimi anni il Marchese usava il suo sangue per scrivere, poiché i carcerieri gli negavano l’inchiostro. La damnatio memoriae voluta dal secondo figlio Donatien-Claude-Armand è durata poco più di un secolo, perché già nel Novecento i surrealisti consideravano Sade un rivoluzionario. Secondo Apollinaire era il simbolo della libertà. Ma per una sistematica e organizzate riabilitazione del Marchese si dovrà aspettare l’ultimo dopoguerra e i suoi diretti discendenti: Xavier de Sade prima e ora i figli Elzéar, Hugues e Thibault, sesta generazione della famiglia.
Hugues, il gestore di Casa de Sade, ha avuto l’ardire di chiamare il figlio Donatien-Alphonse-François come l’antenato. «Dalla morte del Marchese nessuno dei tre nomi è stato più usato in famiglia. Per due secoli c’è state un’omertà totale che ha cancellato ogni traccia. Eppure i de Sade risalgono al 1200. Hugues III sposò Laure de Noves, la donna immortalata da Petrarca. Anche il titolo di marchese è stato radiato per duecento anni dall’albero genealogico, adesso è stato ripreso da mio fratello Elzéar» spiega Hugues de Sade. Siamo nel suo bell’appartamento a Boulogne, nella libreria soltanto tomi del XVIII secolo appartenuti all’antenato, in bella vista il messale che il divino marchese aveva con sé in prigione e sul tavolino basso una copia numerata del teschio in bronzo dell’avo.
«L’omertà è finita nel 1948 quando Gilbert Lely, biografo di Sade, convinto che la famiglia possedesse libri e documenti del Marchese contattò mio padre Xavier. In effetti i documenti c’erano, ma murati nel castello vicino Pernel. Mio padre decise di smurarli e uscì un tesoro, l’intera corrispondenza del Marchese, il viaggio in Italia e in Olanda mai pubblicati. Da allora mio padre ha lavorato solo per Sade. Fosse stato per lui lo avrebbe anche canonizzato».
Voi figli non avete avuto mai imbarazzo a portarne il nome?
«Siamo cinque fratelli e fino all’adolescenza non capivamo perché il nostro nome suscitasse sorrisetti e risate, né sapevamo rispondere a chi ci chiedeva se eravamo imparentati col Marchese. Mio nonno diceva sempre: “Non parlate di Lui ai domestici e ai bambini”. Quando abbiamo raggiunto l’adolescenza i nostri genitori ci hanno fatto leggere alcuni libri. Testi filosofici, che hanno fatto di Sade un filosofo riconosciuto da intellettuali come Simone De Beauvoir e Sartre. Il Marchese ha scritto opere filosofiche, libri di storia, pièce teatrali, poesie, canzoni».
Ma è più famoso per Justine e soprattutto per Le 120 giornate di Sodoma.
«Purtroppo sì, Le 120 giornate è un libro detestabile, difficile da leggere. Una storia senza interesse, scritto da un uomo incarcerato da anni che vive in un delirio mostruoso. Quello che mi dà più fastidio è che gli sia stato appiccicato l’aggettivo sadismo che non merita, perché lui non ha mai ucciso nessuno».
Tenere segregate quatto donne, frustarle, costringerle a pratiche sessuali dolorose, imbottirle di confetti purganti per soddisfare la sua coprofilia rischiando di mandarle al creatore è un reato grave.
«Sì, e infatti accusato di avvelenamento è andato in prigione, condannato senza mai avere un processo. Rinchiuso nel castello di Vincennes e poi alla Bastiglia con delle lettre de cachet del re, condanne inappellabili ottenute dalla suocera che lo detestava e nel profondo ne era innamorata. Rinchiuso per buona parte della vita, si sfogava con fantasie erotiche, era il suo modo per sentirsi libero dietro le sbarre. Ammetto però che in alcuni scritti torna continuamente sulle stesse ossessioni».
Lei parla come se Sade avesse passato tutta la vita in galera, in realtà ha vissuto anche da uomo libero. Il regime repubblicano gli ha dato un ruolo.
«Sì, nel comitato di salute pubblica salvo poi risbatterlo in galera perché era un aristocratico».
A parte il ruolo odioso del figlio, anche la moglie che lo sostiene nonostante ne conosca le perversioni alla fine lo abbandona.
«Sì, lo lascia improvvisamente allo scoppio della rivoluzione chiedendo il divorzio. Era stata la sua alleata, aveva sopportato che lui la tradisse con la sorella perché lo adorava, e anche perché, all’epoca, le donne non potevano ribellarsi ai mariti. Forse era stanca dei suoi alti e bassi. Dal carcere lui la insultava se non gli mandava un libro o un vino di Provenza e un momento dopo le scriveva una lettera d’amore appassionato. Era un malato, un uomo complicato e viziato. Ma non ha mai brutalizzato la moglie. Era un uomo rispettoso nei confronti delle donne».
Prima dell’q/faire delle quattro ragazze avvelenate, il Marchese aveva segregato e brutalizzato un’altra donna Rose Keller. Non mi pare che fosse un uomo che rispettasse le donne.
«E per questi due casi ha pagato. Il resto sono fantasmi che ha messo nei suoi scritti. Nessuna delle sue donne si è mai lamentata. Non che ne abbia avute molte di amanti. Non solo perché in prigione mancassero le occasioni ma perché, come lui stesso confessa, a cinquantaquattro anni perde la libido e non gli resta che trasferirla sulla carta. Non era un uomo irrispettoso della donna, rivendicava l’uguaglianza, sosteneva che dovesse provare lo stesso piacere dell’uomo, salvo poi maltrattarla».
C’è ancora un grande rigetto nei confronti di Sade. Michel Onfray lo detesta.
«Onfray detesta tutti, perfino Nietzsche. Per lanciare il suo libro e poiché nel bicentenario si è molto parlato di Sade ha fatto il bastian contrario. Ho deciso di non parlare più a Onfray perché non conosce l’opera di Sade e ha letto un solo libro. Lascio che a rispondergli sia Gonzague Saint Bris, autore di un libro importante sul Marchese». Perché a suo avviso sopravvive ancora il mito di Sade?
«Per la sua vita dannata e per i suoi scritti. Ora poi è di moda. Si fanno delle tesine a scuola su di lui. La gente non lo legge ma lo cita. Nel ’68 la sua frase “Siate cittadini e repubblicani” divenne uno slogan. Sade è sempre stato coerente con le sue idee. Diceva: “Non è il mio modo di pensare che ha fatto la mia disgrazia, ma quello degli altri”».
Diceva anche «Niente è sacro in una famiglia».
«E la famiglia si è vendicata. È morto povero a settantaquattro anni. Aveva lasciato scritto nel suo testamento di seppellirlo nella selva del suo castello, di ricoprire di ghiande la terra perché ricrescesse il bosco. Invece il figlio lo inumò nel cimitero dell’ospizio di Charenton, sulla sua tomba non fece porre alcun nome, solo una croce di pietra. Anni dopo il medico che lo aveva assistito nelle ultime ore, approfittando dell’inumazione del cadavere si appropriò del cranio del Marchese salvandolo dalla fossa comune. Lo diede al Musée de l’Homme perché ne facesse un calco e poi lo vendette a un frenologo famoso, Jonathan Spurzheim, che dopo averlo studiato lo portò in giro per l’Inghilterra e l’America sostenendo che il cranio del Marchese era in tutto e per tutto uguale a quello di un padre della Chiesa!».
Brunella Schisa