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 2015  aprile 03 Venerdì calendario

I 105 ANNI DI DORFLES, PIENI DI TUTTO. CON IL VEZZO DELLO SCI


[Gillo Dorfles]

Non ama gli auguri di buon compleanno.
Non li ha mai amati. E forse non ne ha mai neppure avuto bisogno. Gillo Dorfles ha un grande rammarico: «Non ho più nessuno intorno a me con cui condividere la memoria della gioventù». Gli rimane comunque il vezzo di coltivare un’impossibile gioventù atletica: grazie a un fisico asciutto e incredibilmente elastico, continua a mettere ai piedi gli sci tentando le piste («quelle destinate ai bambini, però»). E gli dispiace di non aver ancora trascorso quest’anno la canonica settimana sulle nevi.
Lo incontro nell’abitazione milanese immersa nei libri, nelle tesi a lui dedicate, nelle pitture e nelle sculture sue e degli amici. Su una parete del salotto si impone immediatamente uno splendido Lucio Fontana verde caratterizzato da un buco che trasuda materia («Fontana l’ho conosciuto qui a Milano nel 1930 quando era considerato un bravo artigiano»). Intorno spiccano le presenze di Nicholson, Rauschenberg, Fautrier, Melotti, Castellani, Bonalumi, Baj, Arnaldo Pomodoro, Accardi, Capogrossi, Consagra, Dorazio, Del Pezzo, Nespolo..., tuttit su cui ha scritto illuminanti saggi. Manca Twombly («Gli avevo presentato una mostra alla Galleria dell’Ariete: in cambio mi aveva promesso un’opera. Non l’ho mai ricevuta»).
Nato a Trieste il 12 aprile 1910, ha scandito la vita tra studi scientifici (si laurea in Medicina a Milano nel 1934 specializzandosi quindi in Neuropsichiatria) e rapporti artistico-letterari: «A casa di Saba ho conosciuto Montale che avrei incontrato più volte anche a Genova». Inizia a dipingere con impegno. Gli nasceranno delle figure d’ambito surreale: sono immagini che affiorano alla mente, sono espressioni che considera «consce e inconsce, frutto di un modulo grafico-plastico lontano da ogni razionalità e da ogni costruttivismo». Nel 1948 con Bruno Munari, Atanasio Soldati e Gianni Monnet fonderà il Movimento Arte Concreta (MAC), di cui diventerà il massimo teorico.
Dal lato saggistico occorre sottolineare un suo volume del 1968, dove eleva il Kitsch a modello esistenziale del nostro tempo, seguito da altri libri che parlano dell’importanza del «feticcio quotidiano» in una società come la nostra apparentemente razionale e dell’«elogio della disarmonia». Intanto insegna Estetica nelle Università di Milano, Trieste e Cagliari.
Ora sembra condannato al moto perpetuo: è appena tornato da Innsbruck. dove ha inaugurato una personale, ed è in procinto di partire per Gorizia. Intanto sta per uscire da Skira un volume che raccoglie tutti i suoi scritti dal 1930 a oggi. Il Macro di Roma gli dedicherà un’antologica a settembre curata da Achille Bonito Oliva con la collaborazione di Luigi Sansone.
Nei momenti di pausa suona il pianoforte, in cui si è diplomato al Conservatorio, con particolare sensibilità interpretativa. È anche un innamorato dell’organo e, quando gli capita, non disdegna di entrare in qualche chiesa per dedicarsi in celestiale solitudine a questo strumento. Aggiungiamo che parla un numero imprecisato di lingue: «Non è difficile, conoscendo il tedesco e lo slavo, rivolgersi a fonie affini». Infatti trentanni fa, mentre eravamo a Mosca, non esitò a fermare una donna nella Piazza Rossa per chiederle in perfetto russo un’informazione. Abbiamo detto tutto? No: occorrerebbe l’intero Venerdì per esaudire i passi della sua vita e gli aneddoti connessi.