Carlo Annese, GQ 4/2015, 8 aprile 2015
GIOVANNI MALAGÒ – [DAL CIRCOLO ANIENE, LA “PALESTRA“ DELLA ROMA CHE CONTA, AI VERTICI DEL CONI...]
Il suo ufficio sembra una distesa di grano in mezzo al mare. Giallo dappertutto – sulle cartelline trasparenti che inondano la scrivania, sulla mappa appesa di fronte per indicare il Mediterraneo in cui ama navigare con la sua barca, sul posacenere col cavallino Ferrari. E poi il blu profondo degli arredi che Giovanni Malagò ha comprato a sue spese, insieme al salottino con cui ha trasformato un terrazzo con vista sul Foro Italico in una sala d’attesa scenografica. «Sono un esteta, amo le cose belle, e questo è uno degli scorci più belli e sconosciuti al mondo», dice. «I divani, comunque, sono dell’Ikea e le lampade le ho prese da uno “smorzo”, un ingrosso per l’edilizia. Costo dell’impresa: poche centinaia di euro, con una buona riverniciata».
Il giallo e il blu sono i colori del Circolo Aniene, il salotto sportivo della Roma che conta, da dove Malagò è partito due anni fa per diventare presidente del Coni. Ma sono anche i fondamenti di una personale teoria cromatica. «Mi aiutano a pensare meglio, a essere più efficiente e propositivo, perché come tutti ho le mie fisse», spiega, mentre si alza dalla scrivania per mettere in ordine perfetto, su un mobile basso, alcuni libri appena fuori asse. Elegante, alto, consapevole di piacere – dopo matrimoni e flirt celebri, e malgrado i capelli ormai grigi –, in effetti ha qualcosa in piu di una fissa: ha l’inno di Mameli come suoneria del cellulare (che tiene in una custodia tricolore), scioglie la tensione stringendo tra le mani il pallone ufficiale del Sei Nazioni di rugby, e durante la nostra conversazione si alzerà altre due volte per spostare al millimetro quegli stessi libri.
Sopra il mobile basso ha fatto appendere un pannello con una sfilza di ritratti di uomini e donne, come quelli dei dipendenti del mese nelle aziende americane. «Forte, eh?», mi dice quando lo osservo. «Sono i 102 membri del Comitato olimpico internazionale che a settembre 2017 giudicheranno la nostra candidatura per ospitare a Roma l’Olimpiade del 2024. E fondamentale visualizzarli continuamente: ho la fotocopia di quel pannello sulla scrivania, sempre davanti agli occhi».
Alcuni hanno un pallino rosso. «Sono i sette che non voteranno, perché nel frattempo il loro mandato sarà scaduto. Ma potrebbero rientrare in gioco e bisogna monitorarli. Puoi presentare il dossier migliore del mondo, ma se quelli – per questioni personali o di altra natura – non li convinci a venire dalla tua parte, è inutile. La storia insegna che i migliori candidati non ce l’hanno fatta quasi mai».
Forse non avevano la sua capacità nel fare lobbying?
«Anche per questo è indispensabile la figura di Montezemolo come presidente del comitato promotore».
Un suo grande amico...
«Non l’ho nominato io, ma il governo, che è stato il suo primo sponsor, anche in considerazione di quello che è richiesto a un presidente: avere buone relazioni internazionali. Su Luca si potrà dire ciò che si vuole, ma è l’unico in Italia con queste caratteristiche».
Su cosa punterà la candidatura di Roma?
«Idee, credibilità, simpatia, considerazione internazionale e la bellezza della città. Se tu fossi un membro del Ciò e dovessi trascorrere venti giorni in un posto per i Giochi olimpici e dieci per quelli paraolimpici, ma ’ndo vai?»
A cosa serve organizzare un’Olimpiade in Italia?
«C’è una nuova generazione di ragazzi che chiede di trovare lavoro nello sport. Nei prossimi anni ci sostituiremo sempre di più ad altri settori nella capacità di creare occupazione: per Roma 2024 potranno essere coinvolte 170mila persone, che genereranno tra 1,5 e 2 punti di Pil. Negli ultimi anni, poi, i requisiti imposti dal Cio sono cambiati: non c’è più bisogno di costruire un palasport per le gare di scherma, ora basta avere una bella fiera e un buon progetto di riconversione. Non vedo controindicazioni e non le vede il presidente Renzi, che ha voluto anticipare l’annuncio della candidatura: anche con un dossier low profile, possiamo essere molto competitivi».
Non è eccessiva questa intesa con il governo?
«Se il Coni è ancora in piedi, dopo la fine del Totocalcio, lo deve ai soldi dello Stato. Ma proprio per salvaguardare la nostra indipendenza sto adottando alcune politiche di marketing in cerca di ricavi aggiunti. Senza tutto questo, qui domani mattina si chiuderebbe».
Lei è renziano?
«Non sono un politico, anche se sono stato corteggiato da più parti. Giudicando sulla base di quello che fa per lo sport e del rispetto che porta a me e al Coni, questo governo mi piace. Ma ho rapporti ottimi anche con l’opposizione. Penso di essere un buon partner per chiunque».
Per farsi eleggere come presidente, due anni fa, disse che avrebbe cambiato il Coni. A che punto è?
«Quasi tutta la prima linea è stata rinnovata, ora sono in pista dei quarantenni: trattandosi di un’azienda pubblica, farli avanzare è stato come scalare l’Everest. Cambiare è una fatica mostruosa, un esercizio di alchimia tra leggi e spending review, ma se considera che questo è di fatto il ministero dello Sport, qui si respira un’atmosfera molto diversa da qualsiasi altro ministero».
Forse servirebbe “deromanizzare” il Coni, ma come può farlo lei che è il simbolo della romanità rampante?
«E invece è uno dei miei obiettivi principali. Io sono romano doc, è vero, ma l’amministratore delegato di Coni Servizi è un milanese, il vicesegretario generale (che ha in mano la preparazione olimpica) è di Como. Dei due vicepresidenti, uno è siciliano, l’altro è nato a Napoli e vive a Milano. Sto facendo il possibile».
Magari lo facesse anche con il calcio...
«Molta gente pensa che gli attuali dirigenti non siano all’altezza, ma non tiene conto delle regole. Non ci sono i presupposti per cui io possa commissariare la Federcalcio, come vorrebbe qualcuno, e tuttavia nessuno ha indicato finora un percorso fattibile, alternativo a quello attuale».
Nemmeno Lotito, il presidente della Lazio, che sembra così potente?
«E in effetti lo è. Ha grande consenso nella Lega di Serie A e, si dice, anche tra le altre Leghe, dunque non c’è motivo di continuare con questo equivoco: dev’essere lui il rappresentante ufficiale, non altri. In questo modo, avrebbe anche il rispetto che merita una carica istituzionale. Se mi piace? Ho troppo rispetto per il ruolo dei presidenti per esprimermi».
Nel calcio comanda piò Lotito o i cinesi di lnfront, che ora vorrebbero anche comprare un pezzo di Milan?
«Intanto devo dire che nelle ultime settimane il presidente federale Tavecchio ha ribadito con forza il proprio ruolo. Su Infront non sono ipocrita: una concentrazione finanziaria eccessiva in un unico soggetto non è mai una cosa positiva ma se si rispettano le regole c’è poco da dire. E se queste e altri meccanismi consentono alla Federcalcio di stare in piedi da un punto di vista finanziario (tanto da comprarsi anche la sede), mentre la maggior parte delle altre federazioni dipende per il 90% dai soldi del Coni, c’è ancora meno da dire».
Intanto, però, stanno esplodendo i conti di alcuni grandi club. Non la preoccupa l’arrivo di tanti compratori stranieri?
«No, se è gente seria. Per la Roma, per esempio, non mi sembra ci fossero molte alternative su piazza e Pallotta ha dimostrato di crederci. Sono preoccupato, invece, dell’indebitamento delle società. Per evitare nuovi casi-Parma, è necessario cambiare le regole sui controlli dei conti: oltre che prima dell’iscrizione al campionato, devono esser fatti anche nel corso della stagione».
Per lei, questo campionato è regolare?
«Se il Parma avrà giocato tutte le partite, sarà un campionato con delle anomalie ma regolare. In ogni caso, quello che è successo a Parma è una brutta storia ed è inaccettabile che nessuno se ne assuma la colpa».
Da Carolina Kostner, a cui ha dato la solidarietà personale dopo la squalifica, a Federica Pellegrini, le imputano di essere troppo amico degli atleti.
«Ne sono invece molto fiero. Il Coni esiste perché ci sono loro: ho un rispetto quasi sacro».
Chi sceglie, allora, come simbolo per Roma 2024?
«Pietro Mennea. La sua storia dimostra che, con la volontà e la determinazione, si possono vincere partite impossibili. Anche la nostra sfida alle candidature di Boston, di Amburgo o di Parigi oggi sembra impossibile, e invece possiamo vincerla pur avendo un fisico normale, come Mennea».