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 2015  aprile 08 Mercoledì calendario

APPUNTI PER GAZZETTA - POLEMICA SU DE GENNARO


ROMA - Sui fatti del G8 di Genova la Corte di Strasburgo condanna l’Italia - "alla scuola Diaz fu tortura", ha sentenziato, "ma i colpevoli sono impuniti" - e nel Partito democratico si riapre una ferita. Matteo Orfini, presidente dem, stamani su Twitter ha puntato il dito contro Gianni De Gennaro, oggi al timone di Finmeccanica ma capo della polizia all’epoca della riunione dei capi di governo in Liguria. Nel 2011 la Cassazione lo ha assolto - assieme all’ex capo della Digos, Spartaco Mortola - secondo la formula "i fatti non sussistono". Per l’accusa, i due avevano indotto l’allora questore di Genova a mentire e gli avevano fatto ritrattare precedenti dichiarazioni nelle quali attribuiva la responsabilità degli ordini (i violenti pestaggi che seguirono all’irruzione delle forze dell’ordine) a una catena di comando che partiva dal Viminale, cioè da De Gennaro stesso.
G8, Giuliano Giuliani: ’Soddisfazione e rabbia, la Corte bocciò nostro ricorso’’
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"La Cassazione ha finalmente ristabilito la verità", aveva detto De Gennaro subito dopo aver letto il dispositivo della sentenza. "I giudici della Corte hanno confermato quanto avevano già stabilito i giudici in primo grado che mi avevano assolto".
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Passano gli anni, e nel 2013 il premier Enrico Letta (in quota Pd) - d’accordo con l’allora ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni - nomina De Gennaro alla testa di Finmeccanica. Un incarico che sarà confermato l’anno successivo, quando il nuovo presidente del Consiglio - è già Matteo Renzi - gli affianca Mauro Moretti quale amministratore delegato. Già allora, Orfini aveva subito avanzato dubbi via Twitter: "Qualcuno mi spiega che c’entra De Gennaro con Finmeccanica?". Oggi, sempre dal social network, il commento ancora più duro: "Lo dissi quando fu nominato e lo ripeto oggi dopo la sentenza. Trovo vergognoso che De Gennaro sia presidente di Finmeccanica".
Alle parole di Orfini replica Nicola Fratoianni, coordinatore di Sel: "Siamo talmente convinti che sia una vergogna che De Gennaro sia stato nominato da Renzi al vertice di Finmeccanica, da permetterci di chiedere a Orfini, presidente del Pd, di fare qualcosa di più che un semplice tweet: chieda al presidente del Consiglio (che è anche segretario del Pd) di risolvere il problema sollevato, faccia in modo che il partito da lui presieduto e il suo governo chiudano una vicenda che non ha giustificazioni. Altrimenti sono solo parole in libertà".
Del medesimo tenore le dichiarazioni di Nicola Morra, senatore del Movimento 5 Stelle, che invita De Gennaro a dimettersi.
A ruota, dal Movimento è Vittorio Ferraresi a chiedere all’ex capo della polizia un passo indietro: "Basta ipocrisia - dice -, De Gennaro si deve dimettere. È stato nominato da un governo di centrosinistra ed è inaccettabile e vergognoso che ancora oggi parli chi ha lasciato i responsabili al suo posto. Si prendano le proprie responsabilità gli esponenti di destra e sinistra che hanno acconsentito a tutto ciò".
Intanto, da oggi la Camera cercherà di fare presto per rimediare al vuoto segnalato dalla Corte di Strasburgo. Per la legge italiana, infatti, il reato di tortura ancora non esiste e rappresenta il primo motivo che ha portato alla condanna del nostro Paese. E su Twitter, il premier Renzi cita proprio il reato di tortura per rispondere al no-global Luca Casarini che lo aveva sollecitato a dire qualcosa sulle torture alla scuola Diaz: "Quello che dobbiamo dire - scrive il capo del governo - lo dobbiamo dire in parlamento con il reato di tortura. Questa è la risposta di chi rappresenta un Paese".
Una frase, quella di Renzi, che non piace affatto ai deputati grillini: "La risposta per chi governa un Paese - dicono - non è portare in aula un testo che si limita a simulare l’introduzione del reato di tortura nel nostro codice penale, ma avere il coraggio, o più semplicemente il senso del pudore, di rimuovere De Gennaro dalla presidenza di Finmeccanica, fra i principali protagonisti dei terribili fatti della Diaz. Letta in persona - aggiungono - spiegò che De Gennaro rispondeva ai requisiti di onorabilità e professionalità richiesti. All’indomani della condanna giunta dall’Ue siamo dunque curiosi di sapere cosa ne pensa Renzi di De Gennaro, visto che è stato il suo governo a confermarlo ai vertici di una delle partecipate più importanti e strategiche del Paese. Il premier si assuma le sue responsabilità. E Orfini guardi in casa propria prima di sparare sentenze".
Sulla vicenda interviene anche Magistratura democratica, la quale auspica che la condanna all’Italia "serva almeno a togliere qualsiasi alibi a chi ancora si oppone all’introduzione del reato di tortura". E ancora: "Una condanna che il nostro Paese avrebbe forse potuto evitare, se solo si fosse dotato per tempo di una normativa adeguata contro la tortura, come le imponeva la Convenzione Onu ratificata sin dal 1988. Per una volta, sarebbe bastata una riforma ’a costo zero’ per adeguare la giustizia italiana agli standard europei".

LETTERA A DAGOSPIA
Ieri e oggi, con i servizi sulla Scuola Diaz e tutto quanto d’ipocrita e tardivo le gira attorno, dagospia.com è superbo e superbi sono i titoli d’apertura di ogni singolo articolo riportato nonché l’articolo della stessa redazione interna.
Tortura perpetrata e impunita, tortura a leggere di cosa sono capaci la polizia italiana e i suoi capibastone, la cosiddetta giustizia ovvero giustizia all’italiana, i vili media italiani d’allora e anche di oggi.
Il dolore infinito per un tradimento della Patria tutta senza precedenti da fine guerra, una catarsi nazionale impossibile se non con la pena di morte per i responsabili comminata da una perentoria, inevitabile ed equa applicazione della legge marziale.
Aldo Busi

OPINIONE DI BONANNO
Da “la Zanzara - Radio 24”
“La Diaz? Le forze dell’ordine hanno fatto bene, tutta quella gente era lì per sfasciare una città, cosa dovevano fare?”. Lo dice l’europarlamentare leghista Gianluca Buonanno a La Zanzara su Radio 24. “Ma quali crimini alla Diaz – dice Buonanno – io sono dalla parte delle forze dell’ordine.
Quella era gente che occupava un posto, erano in un posto dove non dovevano entrare, la polizia ha fatto bene. Hanno sfasciato di tutto e di più e pagano solo i poliziotti”. “Le botte? Fosse per me – aggiunge Buonanno - avrei tirato anche più botte di quelle che ha tirato la polizia. Che ne sai cosa hanno nella Diaz, magari anche una bomba. Come facevi a sapere chi c’era e chi non c’era...”.
Poi Buonanno parla di Carlo Giuliani, il ragazzo morto durante il G8: “Se l’è andata a cercare, col passamontagna e l’estintore che sta per tirare in testa a un carabiniere. Peggio per lui. Ma noi abbiamo dedicato una sala a uno che voleva tirare un estintore in testa a un poliziotto, siamo alla demenza. Giuliani è tutt’altro che un modello da seguire, ma come ogni volta che qualcuno muore in Italia anche il più disgraziato di tutti diventa uno bravo”.

DAGOSPIA
Un Paese a scoppio ritardato, sempre. Il giorno dopo la sentenza di Strasburgo che imbarazza l’Italia su una ferita non rimarginata come il massacro della Diaz al G8 del 2001, il presidente del Pd Matteo Orfini scrive su Twitter: “Lo dissi quando fu nominato e lo ripeto oggi dopo la sentenza. Trovo vergognoso che De Gennaro sia presidente di Finmeccanica”. E almeno ha il merito di riaprire una questione che in troppi vorrebbero chiusa per sempre. Ma quella nomina è vecchia di quasi due anni.
Basta una rapida ricerca sull’archivio dell’Ansa per scoprire che tra il 3 e il 4 luglio 2013, quando il governo Letta ufficializzò la sua scelta per Piazza Montegrappa, su mille e passa politici italiani presero la parola in nove. Orfini, per inciso, non risulta, ma la ricerca non ha valore scientifico, per carità. Quello che colpisce è che in quell’occasione la parola “Diaz” fu pronunciata con grande circospezione: solo tre volte da Riccardo Fraccaro (Cinque Stelle), Manuela Palermi (Pdci) e Massimo Artini (Cinque Stelle), che gridarono allo scandalo.
L’asse Pdl-Pd che impose De Gennaro evitò di gioire pubblicamente per la nomina. La cosa che colpisce, a due anni di distanza, è che non ci furono le solite dichiarazioni di giubilo e complimenti che vengono consegnate alle agenzie in casi del genere. Come se la nomina dell’ex Poliziotto Capo fosse materia di ragion di Stato, da lasciar pascolare nel campo prudente del “si fa ma non si dice”.
Unica eccezione, la pidiellina Elvira Savino, che diramò una nota per dire che “è una buona notizia” perché “il nuovo presidente è un uomo delle istituzioni che può portare nell’impresa non solo la sua vastissima e qualificata esperienza ma anche il segno tangibile della strategicità di Finmeccanica per lo Stato”. Fine delle trasmissioni. Non si registrò neppure un commento del pur prolifico Maurizio Gasparri, o di un Cicchitto. Silenzio totale anche tra i montiani e i leghisti.
E se Sel e grillini si espressero contro la scelta di De Gennaro proprio per le sue responsabilità oggettive nei fatti del G8 genovese, sono tutte da gustare le reazioni in casa piddine. Anche qui silenzio assoluto dei big, da Bersani a Renzi, passando per D’Alema e Franceschini. Orfini giura che protestò via Twitter, poi c’è Ermete Realacci che alzò un sopracciglio ma rimase sul vago: “Faccio francamente fatica a capire il senso della nomina di De Gennaro ai vertici di Finmeccanica”. Urca, che fiero dissenso.
Un po’ più coraggioso il collega di partito Francesco Laforgia: “Non capisco le ragioni della nomina di De Gennaro. Non si capiscono le competenze e il profilo. Inoltre quello di De Gennaro e’ un nome che evoca stagioni e vicende che hanno prodotto ferite per questo paese”. In effetti il nome evocare evoca. Ma guai a parlare della Diaz.
E chi evocò forze oscure fu Sandro Bondi, che forse per il suo animo di poeta vide laddove altri non vollero vedere: “’’La nomina del dottor De Gennaro al vertice di Finmeccanica, al di là del valore indiscutibile della persona e delle sue capacità, dovrebbe far riflettere sui meccanismi amorfi e opachi delle decisioni pubbliche, nonché sui meandri inesplorati e misteriosi della vita politica italiana”.
Ecco, forse ha ragione Bondi. Anche la polemica di oggi su una nomina di quasi due anni fa sembra un “meandro inesplorato e misterioso”.

Virginia Piccolillo sul Corriere
ROMA La legge sulla tortura? È pronta. Da domani sarà in aula a Montecitorio e «si avvia a colmare un vuoto evidenziato dalla sentenza sulla Diaz». A sentire le dichiarazioni di ieri, inclusa quella del presidente della Camera, Laura Boldrini, riparare alla pessima figura fatta con la censura di Strasburgo al nostro Paese privo di un reato specifico, sembra quasi cosa fatta. Solo una questione di tempo. Discutere gli emendamenti, poi un passaggio fugace al Senato e voilà. Ma è davvero così? E, viene da chiedersi nel giorno della condanna della Corte europea dei diritti umani, se il risultato era tanto a portata di mano perchè non si è portato a casa prima, giacchè la convenzione Onu contro la tortura risale al 1984?
In realtà che si sia giunti alla svolta definitiva sembrano crederci in pochi. Da quando, nel 1989 , la convenzione è stata ratificata i tentativi per creare un reato specifico sono stati numerosi in tutte le legislature. «Il testo è una mediazione equilibrata. Spero in un sì unanime, cosicchè il Senato possa trasformarla in legge definitiva entro l’estate», dichiara Donatella Ferranti, presidente pd in commissione giustizia. «Vedremo. Speriamo», sussurrano in molti, dietro l’ottimismo di facciata.
Con l’impianto approvato in Senato e i piccoli ritocchi della commissione giustizia, il ddl prevede pene pesanti per i torturatori. Da 4 a 10 anni di reclusione per chiunque, con violenza o minaccia, o violando i propri obblighi di cura o assistenza, intenzionalmente cagiona a una persona a lui affidata, o sottoposta alla sua autorità, sofferenze fisiche o psichiche acute e ulteriori rispetto alla detenzione. Al fine di ottenere dichiarazioni o informazioni, infliggere una punizione, vincere una resistenza, o in ragione dell’appartenenza etnica, dell’orientamento sessuale o delle opinioni politiche o religiose. I termini di prescrizione raddoppiano, dunque il reato si estinguerà, in caso non arrivi prima la sentenza definitiva, dopo 20 anni. Ci sarà il divieto assoluto di espulsione o respingimento verso Paesi che praticano la tortura o violano sistematicamente e in modo grave i diritti umani. E non sarà utilizzabile in un processo qualsiasi dichiarazione estorta sotto tortura, a meno che l’imputato non sia un torturatore. Non varrà, per gli stranieri, alcuna immunità.
Ma il punto cruciale è quello relativo ai pubblici ufficiali o agli incaricati di pubblico servizio. Il reato, nel testo, è lo stesso, ma viene punito con una pena aggravata da 5 a 12 anni. Così ieri, mentre Forza Italia con Ciro Falanga attribuiva alla Ferranti la responsabilità della condanna di Strasburgo («dopo più di un anno la Camera non ha ancora licenziato il testo»), e mentre il Pd replicava alle «accuse inaudite», sono tornate a farsi sentire le voci contro la «demonizzazione delle forze dell’ordine». I sindacati di polizia chiedono che l’«emotività non influenzi il dibattito sulla tortura». E il centrodestra fa eco. Da Forza Italia con Lucio Malan («La sentenza non deve esser strumentalizzata»), all’Ncd Fabrizio Cicchitto («Non si dimentichi la guerriglia urbana»), all’Fdi con Edmondo Cirielli («Non criminalizziamo le forze di polizia»).
Il timore di non inimicarsi le forze dell’ordine ha avuto un ruolo in questo rinvio dell’approvazione finale della norma. Sempre annunciata, approvata in un ramo del Parlamento e poi dimenticata lì. Malgrado i richiami dell’Europa. L’ultimo arrivato a luglio del 2012. Stavolta, dopo lo schiaffo di Strasburgo, il Parlamento riuscirà a tenere a mente l’esistenza di quel provvedimento fino all’approvazione finale? Marco Pannella non ci crede: «L’Italia non si dota del reato di tortura perché la pratica ogni giorno nelle carceri», denuncia e riprende lo sciopero della sete.
Virginia Piccolillo

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PEZZO DI IVO CAIZZI SU REPUBBLICA DI IERI
ROMA La legge sulla tortura? È pronta. Da domani sarà in aula a Montecitorio e «si avvia a colmare un vuoto evidenziato dalla sentenza sulla Diaz». A sentire le dichiarazioni di ieri, inclusa quella del presidente della Camera, Laura Boldrini, riparare alla pessima figura fatta con la censura di Strasburgo al nostro Paese privo di un reato specifico, sembra quasi cosa fatta. Solo una questione di tempo. Discutere gli emendamenti, poi un passaggio fugace al Senato e voilà. Ma è davvero così? E, viene da chiedersi nel giorno della condanna della Corte europea dei diritti umani, se il risultato era tanto a portata di mano perchè non si è portato a casa prima, giacchè la convenzione Onu contro la tortura risale al 1984?
In realtà che si sia giunti alla svolta definitiva sembrano crederci in pochi. Da quando, nel 1989 , la convenzione è stata ratificata i tentativi per creare un reato specifico sono stati numerosi in tutte le legislature. «Il testo è una mediazione equilibrata. Spero in un sì unanime, cosicchè il Senato possa trasformarla in legge definitiva entro l’estate», dichiara Donatella Ferranti, presidente pd in commissione giustizia. «Vedremo. Speriamo», sussurrano in molti, dietro l’ottimismo di facciata.
Con l’impianto approvato in Senato e i piccoli ritocchi della commissione giustizia, il ddl prevede pene pesanti per i torturatori. Da 4 a 10 anni di reclusione per chiunque, con violenza o minaccia, o violando i propri obblighi di cura o assistenza, intenzionalmente cagiona a una persona a lui affidata, o sottoposta alla sua autorità, sofferenze fisiche o psichiche acute e ulteriori rispetto alla detenzione. Al fine di ottenere dichiarazioni o informazioni, infliggere una punizione, vincere una resistenza, o in ragione dell’appartenenza etnica, dell’orientamento sessuale o delle opinioni politiche o religiose. I termini di prescrizione raddoppiano, dunque il reato si estinguerà, in caso non arrivi prima la sentenza definitiva, dopo 20 anni. Ci sarà il divieto assoluto di espulsione o respingimento verso Paesi che praticano la tortura o violano sistematicamente e in modo grave i diritti umani. E non sarà utilizzabile in un processo qualsiasi dichiarazione estorta sotto tortura, a meno che l’imputato non sia un torturatore. Non varrà, per gli stranieri, alcuna immunità.
Ma il punto cruciale è quello relativo ai pubblici ufficiali o agli incaricati di pubblico servizio. Il reato, nel testo, è lo stesso, ma viene punito con una pena aggravata da 5 a 12 anni. Così ieri, mentre Forza Italia con Ciro Falanga attribuiva alla Ferranti la responsabilità della condanna di Strasburgo («dopo più di un anno la Camera non ha ancora licenziato il testo»), e mentre il Pd replicava alle «accuse inaudite», sono tornate a farsi sentire le voci contro la «demonizzazione delle forze dell’ordine». I sindacati di polizia chiedono che l’«emotività non influenzi il dibattito sulla tortura». E il centrodestra fa eco. Da Forza Italia con Lucio Malan («La sentenza non deve esser strumentalizzata»), all’Ncd Fabrizio Cicchitto («Non si dimentichi la guerriglia urbana»), all’Fdi con Edmondo Cirielli («Non criminalizziamo le forze di polizia»).
Il timore di non inimicarsi le forze dell’ordine ha avuto un ruolo in questo rinvio dell’approvazione finale della norma. Sempre annunciata, approvata in un ramo del Parlamento e poi dimenticata lì. Malgrado i richiami dell’Europa. L’ultimo arrivato a luglio del 2012. Stavolta, dopo lo schiaffo di Strasburgo, il Parlamento riuscirà a tenere a mente l’esistenza di quel provvedimento fino all’approvazione finale? Marco Pannella non ci crede: «L’Italia non si dota del reato di tortura perché la pratica ogni giorno nelle carceri», denuncia e riprende lo sciopero della sete.
Virginia Piccolillo

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N ella sentenza che ha confermato le condanne per alcuni responsabili delle efferatezze alla scuola Diaz la Cassazione scrive che quei fatti «hanno gettato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero». Ma si sa che in Italia le parole scorrono come l’acqua fresca. Ora però la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha stabilito che quelle persone (non meritano di essere chiamati poliziotti) si macchiarono di un crimine orrendo qual è la tortura. E questo giudizio è decisamente più pesante, per gli effetti reputazionali sul Paese. Al punto da far sorgere una domanda che già si doveva porre dopo la sentenza italiana. Qualcuno in effetti la fece. Prima i deputati Andrea Sarubbi e Furio Colombo, poi il loro collega Ermete Realacci. Inutilmente, però. La domanda riguarda l’opportunità di certe scelte. È opportuno che la presidenza della Finmeccanica, società pubblica più esposta ai giudizi internazionali insieme all’Eni, sia stata affidata a chi era capo della polizia mentre si consumava quella pagina nera della democrazia italiana? Conosciamo la giustificazione: De Gennaro è stato pienamente assolto da ogni accusa. Siamo felici per lui. Ma non ci sfugge nemmeno la differenza che passa fra responsabilità penale e oggettiva. Che vanno sempre tenute ben distinte. Dopo i fatti del G8 De Gennaro è salito al vertice dei servizi segreti, poi a Palazzo Chigi con Monti. Infine alla presidenza della Finmeccanica con Letta, confermato da Renzi. E con tutto il rispetto per l’ex capo della polizia e i suoi meriti professionali, ci permettiamo di insistere: è stato opportuno?

IMARISIO
Arnaldo Cestaro fu uno dei primi ad uscire. Si agitava sulla barella, e vedere quella sua smorfia di dolore fu quasi un sollievo, perché i due che lo avevano preceduto sembravano morti. Un ragazzo dai capelli neri era riverso sui fianchi, inerte, con gli occhi chiusi, la maglietta lacerata. Poi gli infermieri portarono fuori Lena, la ragazza tedesca dai lunghi dreadlocks. Aveva la faccia coperta di sangue, il braccio destro penzolava dalla lettiga. Al suo passaggio due giornalisti si fecero il segno della croce.
Al pensionato vicentino avevano spaccato un braccio, una gamba, dieci costole. Il significato delle urla che uscivano dalle finestre al primo piano della scuola Diaz diventava sempre più chiaro. La strada era stretta, nella calca non passava nessuno. Il G8 era finito da poche ore, c’era aria di smobilitazione e all’improvviso eravamo tutti spettatori del caos totale, di un massacro evidente frutto di una ritorsione, di una vendetta abnorme. A ogni possibile occasione, che sia l’uscita del film omonimo o la condanna in Cassazione dei dirigenti responsabili di quel blitz, sembra sia un dovere ricordare cosa è stato. Cosa ha rappresentato la Diaz per una intera generazione che dopo Genova ha detto basta, resto a casa. E forse proprio allora l’apatia e la rabbia, il rifiuto della politica ufficiale, hanno cominciato a tramandarsi sgocciolando fino a oggi.
La causa è l’ingiustizia evidente di quella notte, il rapporto di forza che più squilibrato non si poteva, armati contro inermi, il sopruso, la brutalità esibita con compiacimento. Non poteva esserci compensazione per quello sfregio. La ferita è rimasta aperta anche per via di uno Stato che mai tramite un’assunzione di responsabilità ha chiesto davvero scusa. Gli autori materiali delle torture riconosciute come tali e condannate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo non hanno mai avuto un nome, e neppure una faccia. A Strasburgo, forse è il passaggio più umiliante di questa sentenza, sono convinti che i vertici della Polizia dell’epoca non abbiano esattamente dato l’anima per aiutare i magistrati a identificare i responsabili. «La polizia ha potuto impunemente rifiutare la necessaria collaborazione, per identificare chi poteva essere implicato negli atti di tortura... Tutto ciò non è imputabile agli indugi o alla negligenza della Procura, ma alla legislazione penale italiana che non permette di sanzionare e prevenire».
I dirigenti che componevano la catena di comando hanno pagato, a vario titolo e dopo molto tempo. Alcuni torneranno in servizio presto. Addirittura tra un mese, al massimo entro ottobre. Sono tre funzionari, gli unici tra quelli condannati per aver falsificato le prove della mattanza ad aver ottenuto dal tribunale di Genova l’affidamento ai servizi sociali al posto degli arresti domiciliari toccati in sorte ai colleghi condannati con loro. In questo modo oltre alla pena si estingue l’interdizione dai pubblici uffici, che per tutti gli altri scadrebbe invece alla fine del 2018.
Il primo che potrebbe riprendere servizio è proprio il vicequestore del reparto mobile di Roma Pietro Troiani, una figura importante in quella storia sporca di coperture e omissioni che ha impedito di arrivare alla verità. Fu lui a portare all’interno della scuola le molotov false che dovevano rap-presentare la prova della pericolosità dei no global. Era la cerniera tra le due polizie di quella notte, la catena di comando e la manovalanza violenta dei celerini. Ancora qualche settimana e per lui tutto sarà come prima. E pazienza se le 66 pagine giunte da Strasburgo infieriscono soprattutto sul «depistaggio sistematico» e la mancata collaborazione con gli inquirenti che impedì di dare un volto alla barbarie.
«Il crollo delle mie illusioni è quel che mi ha fatto più male. Sono uno cresciuto con il mito della Resistenza, di un Paese giusto. Prima di quella notte credevo a uno Stato e alla sua Polizia democratica. Quando entrarono pensai a dei teppisti. Erano uomini delle istituzioni, invece. Hanno fatto cose indicibili. E nessuno ha mai riconosciuto questo abominio. È per questo che sono andato a cercare uno spiraglio di luce da un’altra parte. Meglio di niente». Cestaro aveva 62 anni, ma sembrava già più vecchio della sua età. Era arrivato a Genova con un pullman di Rifondazione comunista. Quella sera cercava un tetto sotto al quale dormire, i suoi amici erano ripartiti in fretta dopo gli scontri del pomeriggio. Fu una insegnante della scuola conosciuta in corteo che lo spedì alla Diaz. Il ricorso accolto dalla Corte europea per i diritti dell’uomo è suo. «Vecchio, dovevi restare a casa» urlavano mentre gli spaccavano le ossa nella palestra. La sentenza di Strasburgo ci condanna a quel che sapevamo già, alle nostre inconfessabili vergogne di Stato. Ma almeno mette un punto fisso. Perché il ricordo senza giustizia è solo un esercizio di stile.



NAZIONALE - 08 aprile 2015
CERCA
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IL G8 DI GENOVA
Strasburgo condanna l’Italia “Il blitz alla Diaz fu tortura impuniti gli autori degli abusi”
La Corte dei diritti umani sul G8 di Genova: introducete il reato Risarcita una vittima. Presto due verdetti anche su Bolzaneto
ANDREA BONANNI
BRUXELLES .
L’Italia ha ricevuto una prima condanna dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo per le torture compiute dalla Polizia in occasione dell’irruzione alla scuola Diaz durante i giorni del G8 di Genova nel luglio 2001. E probabilmente non sarà l’ultima: altri due ricorsi da parte di 31 persone sottoposte a violenze nella caserma di Bolzaneto sono pendenti di fronte al tribunale di Strasburgo che dipende dal Consiglio d’Europa (e dunque non è un’istituzione comunitaria).
La sentenza di ieri, approvata all’unanimità da parte del collegio dei giudici europei, si riferisce al caso di Arnaldo Cestaro ma mette sotto accusa sia il comportamento delle autorità italiane di polizia, sia la mancanza di una legge che preveda il reato di tortura, come richiesto dalle norme europee. Questa falla nel nostro sistema giuridico, spiegano i magistrati, ha consentito ai responsabili delle atrocità compiute in occasione del G8 di Genova di restare impuniti o beneficiare di riduzioni di pena.
Arnaldo Cestaro, che nel 2001 aveva 62 anni, venne aggredito con decine di altre persone inermi e brutalmente pestato nel corso del blitz della Polizia alla scuola Diaz che era stata messa a disposizione del Genoa Social Forum per ospitare i manifestanti. I suoi torturatori, mai identificati, gli ruppero un braccio, una gamba e dieci costole e lo lasciarono pieno di lividi ed ematomi. La Corte ha sentenziato che questo comportamento viola l’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti dell’Uomo, secondo cui «nessuno può essere sottoposto a tortura nè a pene o trattamenti inumani o degradanti». Lo Stato italiano dovrà versare a Cestaro un indennizzo di 45 mila euro, che si aggiunge al precedente di 35 mila riconosciuto dai giudici italiani ma sequestrato dal Fisco.
Ma la sentenza di ieri va ben al di là del caso specifico e mette sotto accusa sia il comportamento dei vertici delle forze dell’ordine e del governo Berlusconi allora in carica, sia le carenze dei legislatori. «Tenuto conto della gravità dei fatti avvenuti alla Diaz la risposta delle autorità italiane è stata inadeguata», scrivono i giudici. Che denunciano come i responsabili diretti del pestaggio di Aldo Cestaro non siano mai stati identificati: «Anche perché, entrando alla Diaz, avevano il viso coperto, e non indossavano un numero di identificazione, come invece richiede la Corte». Grazie a questa inadempienza, «la Polizia italiana ha potuto impunemente rifiutare alle autorità competenti la necessaria collaborazione per identificare gli agenti che potevano essere implicati negli atti di tortura» Inoltre, accusa il tribunale dei diritti dell’Uomo, i pochi responsabili condannati «non hanno scontato la pena», perché alcuni reati sono stati prescritti e altri hanno beneficiato di amnistie e indulti. Questo seguito scandaloso di una così grave violazione della legalità democratica è da imputarsi, spiegano i giudici, non alle carenze della magistratura, il cui comportamento nelle indagini è stato «esemplare», ma «alla mancanza in Italia del reato di tortura, o di reati altrettanto gravi, per cui siano previste pene severe che non possono cadere in prescrizione. O per le quali i colpevoli non possano avvalersi di amnistie o indulti». Nel marzo 2014, il Senato aveva approvato in prima lettura un disegno di legge che istuisce il reato di tortura. Ma il testo non è ancora stato sottoposto al voto della Camera. Forse arriverà in aula nelle prossime settimane.
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La risposta delle autorità ai soprusi delle forze dell’ordine è stata inadeguata Gli agenti erano a viso coperto, senza numero d’identificazione come invece richiede la Corte
I GIUDICI DELLA CORTE EUROPEA


“Nella scuola mi massacrarono però sarò felice solo quando qualcosa cambierà sul serio”
ARNALDO Cestaro ha 76 anni, e racconta che gli fanno male le ossa fratturate dai tonfa di quei «cinghiali fatti di speed » come definì i celerini Ulrich Reichel, altra vittima del pestaggio.
Quella notte si era fermato a Genova «per andare l’indomani al cimitero, a portare i fiori alla figlia di un’amica, morta da 10 anni». Chiese a una signora dove poter dormire «e lei mi indicò la scuola Diaz a 50 metri: l’ho anche ringraziata». E poi?
«Alla Diaz ho visto un massacro. Mi hanno rotto una gamba, un braccio e dieci costole. Ho visto ragazzini che chiamavano mamma in inglese, tedesco e altre lingue. Non auguro a nessuno di vedere i propri figli chiedere aiuto così».
Cos’è stata per lei la tortura?
«Come dice anche Lorenzo Guadagnucci (giornalista e altra vittima della Diaz, ndr), più che le botte sono state quelle due ore successive in cui ci minacciavano e dicevano che potevano farci quello che volevano».
La Corte Europea grazie a lei ha condannato l’Italia per la tortura.
«Ne sono felice ma credo che l’Italia abbia ancora molto da imparare e non basti la Corte Europea. Ecco, se penso che a cinque chilometri da casa mia (vive ad Agugliaro, nel basso vicentino, ndr) c’è una villa milionaria dove ci abita Galan bello tranquillo nonostante tutto quello che ha combinato....».
E lei invece?
«Io vivo in una casa colonica di contadini e continuo la mia vita di raccoglitore di ferro con 500 euro di pensione al mese».
Ora le arriveranno 45 mila euro di risarcimento.
«Macchè (ride), ho debiti con Equitalia, mi hanno già preso i primi 35 mila e prenderanno anche questi ma non me ne importa niente».
Cosa le importa allora?
«Vorrei che questa sentenza fosse davvero realizzata fino in fondo. La legge sulla tortura e poi altre leggi giuste finalmente. Vorrei che gli italiani si ricordassero della Costituzione, che il 25 Aprile fosse quello degli italiani che vogliono davvero lottare per cambiare le cose. Ma sul serio, non come dice Renzi, che parla di ripartire e invece qui non riparte mai nessuno».
A proposito di ripartire, lei tutti gli anni a luglio è tornato a Genova per ricordare.
«Certo, e ci sarò anche quest’anno». ( marco preve)



NAZIONALE - 08 aprile 2015
CERCA
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IL G8 DI GENOVA
IL MAGISTRATO / ENRICO ZUCCA
“Il messaggio europeo è chiaro: dovete spaventare chi sevizia ma il Parlamento fa il contrario”
MARCO PREVE
ENRICO Zucca, oggi sostituto procuratore generale, è stato il pm della più difficile inchiesta sui fatti del G8, quella della Diaz.
La sentenza della Corte Europea cosa insegna all’Italia?
«Che contrariamente a quanto sostenuto dai nostri governi proprio a Strasburgo, la tortura non è una pratica lontana dalla nostra mentalità. Non è vero, e la storia recente ce lo dimostra. In determinati periodi, vedi la lotta al terrorismo o alla mafia, la polizia italiana non è capace di evitare il ricorso a pratiche vietate. Il waterboarding ne è un esempio lampante».
C’è una cura?
«La tortura è un fenomeno endemico a tutte le strutture militari come la corruzione alla pubblica amministrazione. Non bisogna nascondersi il pericolo e affrontarlo creando anticorpi. Avere la consapevolezza che in certe condizioni è facile scivolare verso la tortura. Se si nega come hanno fatto vari governi italiani ci si cade dentro. Gli Stati Uniti, in un contesto assai più stressante rispetto alla Diaz, come la guerra al terrorismo, hanno praticato la tortura. Ma poi hanno saputo riconoscere l’errore. Ed è importante che i primi a imporre degli stop siano stati proprio i procuratori militari che rifiutavano confessioni estorte con la violenza».
Oggi la legge sulla tortura sembra vicina anche in Italia.
«Il disegno di legge è un compromesso che sembra voler proteggere la polizia da forzature della magistratura. Ho sentito parlare di emendamenti che tutto fanno tranne che rispettare le indicazioni della Convenzione dei diritti dell’uomo. O si capisce che la tortura è il reato commesso da uomini dello Stato oppure siamo lontani. La Corte europea lancia all’Italia un messaggio preciso: “Dovete spaventare i torturatori”. Il contrario di quello che sta facendo il Parlamento».
La paura dell’Is potrebbe aprire la porta alle maniere forti.
«Proprio perché la tortura è la tentazione di tutte le democrazie, oggi dobbiamo fare i conti con una duplice minaccia proveniente dal terrorismo. La prima è quella più diretta, di chi attenta alla vita democratica con violenza brutale e sanguinaria. Ma poi c’è la minaccia più insidiosa, quella per cui lo Stato scende sullo stesso terreno del terrorismo e rinnega i propri principi. È quel che dobbiamo evitare perché sarebbe la vittoria dei nemici della democrazia ».



LIANA MILELLA SU REPUBBLICA
Il Pd accelera sul reato, i dubbi di Ncd
La proposta alla Camera: fino a dieci anni di carcere per l’aggressore, dodici se appartiene alle forze dell’ordine e trenta se la vittima muore. Ma i democratici temono il muro del centrodestra. Cicchitto: non demonizzare gli agenti
LIANA MILELLA
ROMA .
Ancora sull’onda di uno schiaffo. Di Strasburgo questa volta. Dei delitti comuni, vedi omicidio stradale. Della corruzione che dilaga, vedi ddl anti-corruzione. Dei processi in fumo, vedi Eternit e le norme sulla prescrizione. La politica insegue l’emergenza, e si divide. La tortura è un caso di scuola. Dice adesso Laura Boldrini, la presidente della Camera: «Giovedì si vota. Il Parlamento colma un vuoto intollerabile ». Già, un buco clamoroso. Ironicamente twitta Saviano che «a 14 anni dai fatti di Genova la tortura è un reato che neppure esiste». Eppure, come ricorda Mauro Palma, per undici anni presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, che il Guardasigilli Orlando vorrebbe come vice al Dap, «in Italia se ne parla dall’89, visto che cinque anni prima era stata votata la convenzione Onu, poi recepita nella nostra legislazione ». Prima proposta quella del senatore Nereo Battello del Pci. Era, appunto, l’89.
Ma siamo ancora qui, senza il reato che tutti i Paesi civili hanno, in un Parlamento pronto a fare la guerra. Perché la destra frena, in questo caso la Lega e un po’ Ncd, perché c’è sempre chi vuole proteggere le forze di polizia, perché pure la sinistra si divide. Vedi il conflitto in nuce tra Manconi, Pd Senato, e Ferranti, Pd Camera. Il primo ha proposto la legge, la seconda l’ha integrata. Palma dice che ha fatto bene. Lui stesso, sentito in commissione Giustizia, ha proposto quelle integrazioni. Che spiega così: «Il testo che la Camera si appresta, spero, ad approvare, ricalca la Convenzione Onu. Si può solo dire che è il passo avanti che aspettiamo dal lontano ‘84».
Guardiamo il testo. Tortura, nuovo articolo 613-bis del codice penale. Reato comune, 4-10 anni. Con un’aggravante per i pubblici ufficiali o gli incaricati di pubblico servizio, 5-12 anni. Un terzo o la metà in più se c’è una lesione. Trent’anni se il torturato muore. L’ergastolo se la tortura era voluta e mirata. Prescrizione raddoppiata comunque (l’ha pretesa Ferranti). Rischia chi «con violenza o minaccia, o con violazione dei propri obblighi di protezione, cura o assistenza, intenzionalmente cagiona a una persona a lui affidata o sottoposta alla sua autorità, vigilanza o custodia, acute sofferenze fisiche o psichiche, al fine di ottenere informazioni o dichiarazioni o di infliggere una punizione o di vincere una resistenza, ovvero in ragione dell’appartenenza etnica, dell’orientamento sessuale o delle opinioni politiche e religiose».
Troppi dettagli, secondo Manconi. Specificazioni «indispensabili» per Donatella Ferranti, la presidente Pd della commissione Giustizia della Camera. «Fino a oggi non c’è mai stato lo spazio politico, la destra ha fatto muro sulle forze di polizia, anche qui in commissione sono venuti a ripeterlo, che il reato di tortura è inutile, che ci sono nel codice i maltrattamenti e le lesioni gravi. Per questo sono stata puntigliosa, ho sentito Palma, che considero un’autorità in materia, e valenti giuristi come Viganò, ma anche Amnesty International, e le organizzazioni della polizia e del Dap, Sabelli dell’Anm, il capo della polizia Pansa. Alla fine sono soddisfatta».
Il Pd è con lei. Il Guardasigilli Orlando, il relatore Vazio, Verini e Fiano, il vice capogruppo Rosato che la difende da Falanga che l’accusa di ritardi. I rischi, semmai, vengono dalla stessa maggioranza, basta sentire l’Ncd Cicchitto quando mette in guardia dal rischio di «demonizzare le forze dell’ordine». «E già, bisogna stare molto attenti» raccomanda il Pd Felice Casson. «Me li ricordo bene questi anni. Berlusconi, Prodi, poi di nuovo Berlusconi, tanti ddl sulla tortura, l’accordo pareva raggiunto, poi la destra faceva saltar tutto. Perché è ideologicamente contro. È giusto che sia un reato comune. Punito il pubblico ufficiale, ma anche i camorristi che hanno la camera della morte o gli infermieri delle cliniche private. Se passa così è un successo».

INTERVISTA A FINI DELLA STAMPA
Gianfranco Fini nei giorni del G8 era lì, a Genova. Eccome se c’era. Sulla sua presenza, anzi, e sulla sua partecipazione alle decisioni prese in sala operativa, è nata una leggenda nera. «Una leggenda mal costruita», dice però l’ex presidente della Camera.
Scusi, presidente Fini, lei c’era o non c’era in quella famosa sala operativa?
«Non c’ero. E questa è storia, tanto è vero che i magistrati non hanno mai sentito la necessità di interrogarmi. È un dato di fatto che io, che ero vicepresidente del Consiglio, passai a salutare in questura e in prefettura, ma prima dei disordini, addirittura prima della morte di Carlo Giuliani. Poi è vero che rimasi bloccato per sei ore al comando dei carabinieri, al Forte San Giuliano, ma senza alcun ruolo. Genova in quel momento era messa a ferro e fuoco dai Black Bloc. Per motivi di sicurezza anche il sottoscritto rimase bloccato. La scorta voleva farmi andare via con un elicottero, ma io rifiutai. Sarebbe stata una fuga vergognosa non del sottoscritto, ma di un vicepresidente del Consiglio e questo, se permettete, era inaccettabile».
Quindi non è vero che lei partecipò alle decisioni dalla sala operativa?
«Assolutamente no. Attesi le mie sei ore in caserma e poi andai via».
La sentenza europea oggi ci dice che a Genova le cose andarono in maniera inaccettabile. Che cosa pensa che sia accaduto?
«Penso che dopo la morte di Giuliani la situazione dell’ordine pubblico sia scappata di mano a tutti. E qualcuno perse le staffe».
Ci sono stati molti funzionari di polizia, anche importanti, condannati per avere tentato di fabbricare prove false sull’irruzione alla Diaz. Perché lo fecero, secondo lei?
«Io non mi schiero con la dietrologia imperante in questo Paese: di sicuro quei funzionari non si diedero da fare perché dovevano nascondere misteriosi ordini della politica. Al contrario, se ci fossero stati ordini del genere, quei funzionari lo avrebbero detto subito per salvare le loro carriere. No, penso che fecero quel che fecero per salvarsi da imputazioni maggiori e più gravi. O forse lo fecero per salvaguardare la gerarchia interna. Probabilmente qualcuno sa perché si mossero in quel modo. Ma io non lo so».
Ricorda che discuteste a palazzo Chigi di quanto accadde a Genova?
«Così su due piedi non ho memoria di una discussione tra noi. Sicuramente ci sarà stata una relazione. Non conservo memoria di questo passaggio, ma lo darei per certo. Ricordo bene che ci fu quasi subito un passaggio parlamentare. E mi lasci aggiungere, anche se non sono mai stato sospettabile di simpatie per la Lega, che Maroni, allora ministro del welfare, si rivelò poi anche un buon ministro dell’Interno».
Ma una discussione tra voi sui fatti di Genova non la ricorda?
«No».
È un fatto che ancora manchi nella legislazione italiana il reato di tortura. E la Corte europea ci condanna anche per questo.
«In effetti è un’anomalia italiana che i responsabili di quelle violenze, che effettivamente ci furono, e che non intendo minimamente difendere, non sono stati né identificati, né sanzionati. È indispensabile che il legislatore provveda. Fossi io con compiti di governo, mi farei fare uno specchietto sulla legislazione comparata in Europa e poi provvederei. Importante, però, secondo me, è che l’introduzione del reato di tortura non diventi l’occasione per una posizione squilibrata contro le forze di polizia. Le quali eseguono un compito difficile, ancor più difficile da quanto la spending review ha colpito anche le dotazioni del comparto sicurezza, e che meritano rispetto».
Ecco, lei conferma una posizione storica della destra. Sempre e comunque con la polizia?
«È quanto dicevamo come An quando siamo arrivati al governo, e dicevamo già venti anni prima: se in Italia il cittadino può godere dei suoi diritti democratici, non lo deve solo alla magistratura, ma anche a polizia e carabinieri. Ma di questo c’era poca consapevolezza».
In conclusione, Fini, direbbe che ci fu una vostra responsabilità, non politica, ma culturale, per le violenze di Genova?
«No, ma riconosco che vi furono atti di violenza inaudita, da Stato di polizia più che da Stato democratico. Gli eccessi sono stati accertati, andavano puniti».

(MAURO SCROBOGNA/ LAPRESSE) - In sala operativa Si dice che Fini fosse in sala operativa durante le violenze, ma lui nega: «Ero bloccato a Forte San Giuliano»
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GRIGNETTII-LOMBARDO SULLA STAMPA
La brusca decisione della Corte europea di giustizia giunge alla vigilia di un passaggio istituzionale importante: neanche a farlo apposta, domani l’Aula della Camera affronta il reato di tortura.
«La sentenza pronunciata dalla Corte europea dei diritti umani - non manca di notare la presidente della Camera, Laura Boldrini - carica di un particolare significato il voto che la Camera si appresta a dare. Il Parlamento si avvia finalmente a colmare un vuoto che anche i giudici europei, oltre che tanti cittadini italiani, hanno ritenuto intollerabile». Il ritardo è clamoroso. «La nuova legge non potrà certo cancellare quella pagina buia. Servirà però ad allineare l’Italia all’Europa dei diritti umani, non meno rilevante di quella dei parametri economici».
Nei 14 anni trascorsi dai terribili giorni genovesi, la politica ha prodotto tanto dibattito e poco altro. Una storia di occasioni mancate e di leggi naufragate. Nel biennio del governo Prodi, le sinistre erano a un passo dall’ottenere una commissione parlamentare d’inchiesta: il 30 ottobre 2007 si votò in prima commissione, ma la proposta venne respinta a causa del voto contrario dell’Udeur dell’allora ministro della Giustizia Clemente Mastella e dell’Italia dei Valori del ministro Antonio Di Pietro che non volle avvallare «la volontà politica di indagare solo sulla polizia».
Stessa storia di insuccessi per il reato di tortura fino al marzo del 2014 quando il Senato ha votato uno specifico ddl. È stato poi necessario un altro anno di lavori per la commissione Giustizia della Camera, ma finalmente si è a un passo dal voto (quasi) finale: i deputati tra giovedì e venerdì dovrebbero votare la legge; cambiando il testo del Senato sarà però necessario un ennesimo passaggio. «Abbiamo introdotto lievi modifiche, ma abbiamo mantenuto l’impianto. Ora mi auguro che l’Aula della Camera approvi all’unanimità il provvedimento così che il Senato lo possa trasformare in legge definitiva entro l’estate», dice la presidente della commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti, Pd.
Il nodo del contendere, che ha ridotto l’Italia a incassare una sanzione umiliante dalla Corte europea, è sull’essenza stessa della tortura: reato da addebitare solo a chi veste una divisa (versione preferita a sinistra, e così delineata dalla Convenzione contro la tortura delle Nazioni Unite, anno 1984) oppure reato che può essere contestato a chiunque abbia una posizione sovraordinata sulla vittima (versione preferita a destra, sagomata sulla definizione di tortura secondo lo Statuto della Corte penale internazionale, anno 1998)? Su questo discrimine, le forze politiche hanno discusso per anni, finché il Senato - partendo da un testo a prima firma Luigi Manconi - non ha trovato una soluzione salomonica: reato addebitabile a chiunque con pena da 3 a 10 anni, ma con severe aggravanti se il torturatore veste una divisa e approfitta della sua posizione di pubblico ufficiale, con pena da 5 a 12 anni. Se dal fatto derivano lesioni personali - come è il caso del signor Arnaldo Cestaro, che si era rivolto alla Corte europea - la pena sarà poi aggravata di un terzo. E se dal fatto derivasse la morte, anche se conseguenza non voluta, la pena sale a 30 anni.
Questo compromesso, come si augura Donatella Ferranti, potrebbe incassare un larghissimo consenso, forse persino l’unanimità. Anche il M5S è tentato. Riconoscono che sarebbe giusto «dare un segno di unità delle forze politiche».