Notizie tratte da: Raffaele Cantone, Gianluca Di Feo # Il male italiano. Liberarsi dalla corruzione per cambiare il Paese # Rizzoli 2015 # pp. 198, 17,50 euro., 8 aprile 2015
Notizie tratte da: Raffaele Cantone, Gianluca Di Feo, Il male italiano. Liberarsi dalla corruzione per cambiare il Paese, Rizzoli 2015, pp
Notizie tratte da: Raffaele Cantone, Gianluca Di Feo,
Il male italiano. Liberarsi dalla corruzione per cambiare il Paese, Rizzoli 2015, pp. 198, 17,50 euro.
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La corruzione oggi è il problema del Paese, la radice di un male che aggredisce la qualità della nostra vita. Distrugge il libero mercato e la competizione economica, fornisce servizi scadenti e infrastrutture costose e inefficienti. Nella lista dei danni diretti o collaterali del malaffare, c’è che i nostri figli sono costretti a cercare lontano il riconoscimento dei meriti che qui sono negati ai più, per garantire i privilegi di pochi.
La corruzione non è un peccato veniale, ma il peccato capitale della democrazia, perché sgretola le basi della convivenza. Corrode i fondamenti della vita democratica senza che i protagonisti si sentano responsabili.
Nel 2012 uno studio ha valutato che l’impatto del malaffare sull’economia è di sessanta miliardi di euro l’anno, e che l’effetto sui costi della res publica è, in media, una “tassa” del quaranta per cento in più. Le inchieste mostrano un vasto campionario di ruberie che gonfia il prezzo delle opere pubbliche: “A noi ce danno novecentomila e io il lavoro lo faccio fa’ a un altro per sessantadue” festeggiava al telefono un imprenditore romano che si era appena aggiudicato un appalto pubblico grazie alle bustarelle.
Anche dove non emergono illeciti, il sistema delle grandi opere continua ad allontanarsi dai parametri e dai prezzi europei: come la Metro C di Roma, già aumentata di settecento milioni di euro, o l’alta velocità tra Brescia e Verona, arrivata a settanta milioni per chilometro.
La corruzione è la macchia peggiore sulla nostra immagine internazionale. Abbiamo dimostrato al mondo di saper combattere la mafia, ma non siamo stati capaci di fare nulla contro le mazzette.
Nei cantieri dell’Expo di Milano, ai traffici dei veterani di Tangentopoli si è sostituito un modello di vigilanza certificato dall’Ocse, e a Venezia, i lavori del Mose sono stati commissariati. Per la prima volta c’è una strategia anticorruzione che va oltre i processi e le inchieste penali e si basa sulla prevenzione, inserendo nella pubblica amministrazione gli anticorpi per combattere il male. Una rivoluzione che crede nella trasparenza e ha messo a disposizione dei cittadini le informazioni online sulle spese degli enti e sugli stipendi dei dirigenti, che spinge le amministrazioni a essere parte attiva nella lotta alla corruzione, che fa dell’integrità di chi riveste incarichi un elemento primario da tutelare, a costo di sospendere anche chi è stato condannato solo in primo grado.
Raymond Fisman e Edward Miguel, ricercatori della Columbia University e dell’Università della California, per dimostrare quanto le norme sociali e culturali della corruzione siano persistenti nelle persone, hanno preso in esame le multe per divieto di sosta inflitte a New York ai diplomatici delle Nazioni Unite. Il personale Onu gode dell’immunità e quindi può lasciare l’auto dove vuole infischiandosene delle sanzioni. Ma la classifica di chi rispetta comunque le regole rispecchia gli indici nazionali di corruzione: chi viene da un Paese dove l’onestà è un valore tenuto in alta considerazione tenderà a rispettare le regole anche quando non teme punizioni. E i diplomatici italiani erano cento posizioni più in basso rispetto ai rappresentanti di Svezia e Norvegia.
Per un cambiamento culturale bisogna smettere di considerare la corruzione come un problema solo di tangenti, ma affrontare la questione della degenerazione della vita pubblica in ogni suo aspetto.
Tutti sono convinti che la criminalità organizzata sia un’entità malefica e questa mobilitazione ha prodotto leggi e strutture in grado di colpire i clan. La stessa consapevolezza deve svilupparsi anche nei confronti del malaffare.
Corrompere viene dall’accostamento di cum e rompere, rompere per mezzo di qualcosa.
In Italia non si è mai fatta prevenzione. Tangentopoli è stata la più grande azione di moralizzazione per via repressiva, ma dopo l’intervento dei magistrati non si è fatto nulla. Non sono stati introdotti correttivi, non sono state affrontate le zone infette.
Nel 2013 i detenuti per corruzione erano undici su quasi 65.000 reclusi nelle carceri italiane.
Quando si muove la giustizia penale significa che il danno è già stato fatto, le tangenti sono state pagate e le gare d’appalto stravolte. La lotta alla corruzione dovrebbe essere un sistema di tre pilastri che funzionino in sinergia: prevenzione, repressione affidata alla magistratura e alle forze dell’ordine, con strumenti d’indagine più incisivi e processi efficaci, e un indispensabile cambiamento culturale.
I vigili urbani di Roma a Capodanno hanno disertato il servizio presentando certificati medici. La maggioranza dei sindacati li ha difesi e ha contestato l’Autorità per aver avallato la decisione di spostare, dopo un certo numero di anni, i comandanti da una zona a un’altra. Se la rotazione degli incarichi è una strategia chiave per prevenire la corruzione, perché non dovrebbe essere applicata anche ai vigili? Quel rifiuto dà l’impressione che la legalità come valore venga in secondo piano rispetto alla tutela del lavoratore, come quando, in Sicilia, Giovanni Falcone si occupò delle imprese dei mafiosi e alcuni sindacati dissero che stava colpendo i lavoratori. Oggi come allora, rischia di crearsi un’alleanza inquietante tra chi vuole mantenere lo status quo per salvaguardare i diritti dei lavoratori e chi lo fa per difendere il malaffare.
Fino a pochi anni fa la corruzione non conquistava le prime pagine. Era stata dimenticata dal Parlamento, dai governi e dall’opinione pubblica. Poi è arrivata la crisi economica, che ha riacceso l’attenzione sul prezzo che paghiamo per mazzette e sprechi e, di colpo, è sembrata insostenibile.
L’indagine della procura di Firenze sui grandi eventi, che aveva fotografato l’evoluzione delle vecchie tangenti in una realtà vischiosa capace di avvolgere persone e istituzioni con denaro, favori e sostegno alle carriere, aveva dimostrato che persino la Protezione civile, allora considerata una delle branche più efficienti dello Stato, si era trasformata in un groviglio di sprechi e interessi personali.
Tenni un intervento a un corso per i funzionari della Farnesina. Era presente Filippo Patroni Griffi, ministro della Pubblica amministrazione del governo Monti, che mi disse: “C’è da lavorare su una normativa per la prevenzione della corruzione. Ho la delega sulla trasparenza, perché non vieni a lavorare con me? Potremmo affidarti un ufficio per la lotta alla corruzione, andando fuori ruolo dalla magistratura per un periodo”. Gli spiegai che non volevo lasciare la magistratura, ma sarei stato felice di partecipare a una commissione di studio sulla materia. Allora Patroni Griffi chiamò il suo Capo di gabinetto: “Dobbiamo creare la commissione!”. In quella struttura, in pochi mesi, abbiamo scritto parte della legge 190. Ci siamo occupati delle questioni amministrative, mentre la parte penale spettava al ministro della Giustizia Paola Severino, che le ha dato il nome.
Ho incontrato Matteo Renzi per la prima volta nel 2012 a Firenze. Con l’allora sindaco abbiamo avuto una lunga conversazione su criminalità e di corruzione. Nel clima di generale diffidenza verso la politica, si tende a credere che i rapporti con i leader di partito nascondano qualcosa di arcano, interessi poco limpidi. Nel mio caso non c’è stato nulla del genere e, ancora oggi, malgrado gli ottimi rapporti che ho con Renzi, non mi privo del diritto di criticare i provvedimenti del suo governo che non mi convincono, in tema di legalità, appalti e grandi opere.
Il primo atto di Renzi da segretario del PD è stato un viaggio nella Terra dei Fuochi. In quell’occasione gli ho spiegato la questione delle ecoballe, milioni di cilindri di spazzatura compressa che contengono ogni genere di porcheria, accumulati sul territorio. E lui ha detto: “Perché non mi accompagni a vederle?”. Siamo andati e, durante il viaggio, il futuro premier mi ha detto che voleva far partire l’Autorità nazionale anticorruzione.
La nomina al vertice dell’Anticorruzione è arrivata durante il programma di Fazio. C’erano state polemiche sull’impegno del governo per la legalità e la lotta alla mafia, così in diretta tv Renzi ha dichiarato di voler rendere operativa l’Autorità e affidarla a me e ad altri quattro consiglieri. Il premier mi ha fatto una promessa: “I membri devono essere autorizzati dal Parlamento, però non sarà nominato nessuno senza il tuo consenso. Farò un bando pubblico, tu individuerai una rosa di soggetti e tra questi si faranno le designazioni”. Così è andata.
Nel primo periodo di lavoro ho avuto contatti con tutte le istituzioni e le forze politiche. Con il gabinetto del ministro Alfano abbiamo firmato un protocollo che rafforza il ruolo dei prefetti; ci sono stati contatti frequenti con il dipartimento della Funzione pubblica di Marianna Madia, e con il ministero della Salute di Beatrice Lorenzin, per una convenzione con l’agenzia sulla spesa sanitaria.
Il presidente della Regione Lombardia, Roberto Maroni, venne a trovarmi dopo lo scandalo Expo del maggio 2014, che ha travolto i vertici della società Infrastrutture Lombarde. Quel giorno Maroni era accompagnato dal nuovo amministratore delegato e mi chiese: “Come possiamo fare?”. Gli proposi: “Azzeri le commissioni, si faccia dare da università e ordini professionali una rosa di nomi a cui affidare l’incarico e li estragga a sorte”. Il manager guardò il presidente basito, ma Maroni non gli lasciò aprire bocca: “Facciamo così e basta”.
Gianstefano Frigerio e Primo Greganti, già pluricondannati all’epoca di Mani Pulite, erano ancora capaci di manovrare l’assegnazione di appalti per grandi opere. I protagonisti di Tangentopoli apparivano più forti di prima e, con i loro complici, tra cui un ex senatore di Forza Italia, mantenevano la capacità di influire su gare milionarie e sulle nomine di amministratori pubblici.
Abbiamo dimostrato di saper reagire. E che, quando ci sono la volontà e un impegno condiviso, si possono raddrizzare le cose. Il premier, dopo gli arresti, mi ha mandato un sms: “Che facciamo per Expo?”. Gli ho risposto: “Si potrebbe costituire un presidio di controllo specifico su quegli appalti”. Un attimo dopo, Renzi ha annunciato via tweet il coinvolgimento dell’Autorità nell’operazione.
Bisognava “mettere in sicurezza” gli appalti attraverso una struttura di controllo, commissariarli per impedire che gli imprenditori delle mazzette potessero guadagnare dai cantieri coinvolti nello scandalo. In questo caso l’ intervento concreto e rapido non ha incontrato ostacoli, perché tutta l’Italia stava perdendo la faccia.
L’Anac non si limita più a monitorare i piani elaborati dagli enti pubblici, ma ha poteri concreti, può imporre la trasparenza, controllare i contratti e commissariare gli appalti.
Uno dei responsabili tecnici dell’Expo è stato ricevuto dai finanzieri della mia squadra per illustrare la situazione dei cantieri, e di fronte a una serie di anomalie che i militari gli contestavano, ha risposto: “Io devo fare gli appalti, non mi sono iscritto a un campionato della trasparenza”. Il colonnello ha ribattuto a muso duro: “Lei all’Autorità anticorruzione queste cose non può dirle. Si tratta di soldi pubblici, non dei suoi”. E lo ha fatto uscire dalla stanza.
In certi uffici si parla di milioni di euro come di bruscolini. Una volta abbiamo chiesto lumi sulle procedure di alcuni contratti e ci hanno risposto: “Ma quello è un appalto piccolo, un milioncino...” eppure sono somme che le persone normali non vedranno mai in una vita. Nel settore degli appalti si manovrano quantità tali di denaro che si perde il contatto con la realtà.
Anche la migliore riforma può poco, se chi deve metterla in pratica non è pronto al cambiamento. Quando la legge Severino ha richiesto che ogni ente redigesse un piano di norme per prevenire il malaffare al proprio interno, più di un Comune ha presentato documentazione palesemente riciclata, con gli incartamenti di una località vicina riproposti senza cambiare una virgola.
La storia delle grandi opere ha insegnato che la fretta offre il pretesto per le peggiori speculazioni: è il momento delle deroghe ai controlli, quello in cui si gonfiano i costi. È proprio nel rush finale che le mazzette dilagano e si spreca più denaro pubblico.
Per il Mose era stato creato un sistema ad hoc, fondato proprio sulla legge che istituiva il Consorzio Venezia Nuova, e sostenuto dalle imprese che dovevano realizzare i lavori miliardari. Era stata messa a disposizione una quantità enorme di denaro, e il paradosso è che, mentre nei cantieri di piccola-media grandezza si è mantenuta qualche forma di vigilanza, lì le regole sugli appalti sono state deliberatamente aggirate.
A Venezia l’inchiesta ha portato alla luce un intreccio di rapporti con esponenti politici a ogni livello. Ma, dopo la retata, il meccanismo di gestione del Consorzio è rimasto identico a prima, con tutte le decisioni in mano alle società coinvolte nelle indagini e i cui vertici sono finiti agli arresti. È stato insediato un nuovo presidente del Consorzio, un ex parlamentare che, pur non essendo coinvolto nelle indagini, era stato intercettato mentre discuteva di nomine e di contatti con il ministero delle Infrastrutture, conversazioni che certo non connotavano una personalità estranea ai giochi di potere. Abbiamo allora proposto il commissariamento del Consorzio Venezia Nuova e il prefetto di Roma lo ha accolto. Non è stato possibile estromettere le aziende sotto inchiesta, perché la legge istitutiva del Consorzio impone di affidare i lavori solo alle imprese che lo compongono. Ora però le decisioni le prendono i commissari.
A Roma si sente “l’odore del potere”. Nei ristoranti e nei bar incontri continuamente parlamentari, grand commis, presidenti di società pubbliche. Durante gli anni della Cassazione ho stretto pochissimi rapporti: ci dormivo una volta a settimana, in una foresteria della Guardia di finanza, poi lavoravo da casa a Giugliano per preparare le relazioni. Con il nuovo ruolo, invece, c’è stata la necessità di entrare in contatto con il governo, il Parlamento, le altre authority, le holding pubbliche. E mi sono reso conto che il potere che conta non è quello che si vede. Coloro che più pesano sono quelli che si fanno notare meno.
C’è stato qualcuno che si è presentato dicendo “Sono amico di Renzi”, sventolando una presunta conoscenza anche per affrontare questioni banali. Ne ho parlato con il premier e lui è stato chiaro: “Chiunque viene a mio nome, usurpa il mio nome. Io non ti chiederò mai niente”. E finora con lui le cose sono andate così.
Non ho mai ricevuto avance dirette. Mi sono trovato davanti ai lunghi giri di parole di chi vuole farti capire che sarebbe gradito un certo comportamento, ma sempre in maniera sfumata. Durante la selezione dei commissari per l’Expo, ci sono stati tentativi di pressione, tutti finiti nel nulla. Altre volte, invece, abbiamo avuto l’impressione che qualcuno stesse sondando la nostra disponibilità, ma non si è mai andati oltre questo, anche perché l’esperienza di pubblico ministero ti abitua a schermare ogni rapporto, a intuire subito dove si vuole andare a parare e fissare dei paletti. Una persona accorta, prima di domandarti qualcosa, ti ha già preso le misure.
A Roma è facile che si inneschino i meccanismi dell’illecito, perché la burocrazia è un moltiplicatore della corruzione. All’ombra della sua lentezza e della sua vocazione a rinviare, si è sviluppato il meccanismo perfetto della “non decisione”. La prassi degli uffici pubblici è: “io di regola non decido, quindi, se ci tieni che la pratica vada a buon fine, devi pagare”. E in cambio di questa attenzione si cede non solo denaro o beni materiali, ma favori, sconti, raccomandazioni, assunzioni.
L’inchiesta su Mafia Capitale mette in luce un nuovo modello criminale, che supera la logica dell’intimidazione tipica delle storiche organizzazioni. Il clan di Massimo Carminati porta il politico dalla sua parte, lo mette a libro paga, come un clan fa con gli affiliati che vengono retribuiti perché sanno sparare anche quando non c’è bisogno di usare le armi. Nella Mafia Capitale il politico e il funzionario vengono inglobati stabilmente nella ragnatela.
Fino a cinque anni fa c’era chi sosteneva che a Roma le cosche non ci fossero, nonostante gli omicidi significativi e gli investimenti milionari da parte dei clan. La mafia c’era eccome, e nel frattempo Cosa nostra, camorra e ’ndrangheta hanno messo radici nel territorio, e in parallelo si è sviluppata anche un’organizzazione autoctona, capace di muoversi con logiche innovative che le hanno permesso di penetrare tutti i centri di potere.
Il sistema di prevenzione adottato dall’Expo ha permesso di buttare fuori dai cantieri molte aziende in odore di mafia. Le infiltrazioni delle ditte vicine ai clan contestate nelle misure interdittive della prefettura riguardano però solo subappalti e lavori minori: la mafia è stata costretta a volare basso, non ha provato a fare il salto di qualità. A Roma, invece, le società della scuderia di Carminati entrano in Campidoglio, si inseriscono nelle commesse della Regione, ottengono persino la gestione dei centri profughi e dei campi rom.
Che la criminalità si occupi solo di edilizia è un’idea ormai tramontata. Va dovunque ci siano i soldi. Investe nei settori nuovi, puntando su quelli con un basso livello di controllo: la manutenzione dei giardini, la pulizia delle strade, la gestione dei centri per immigrati...
Dalle indagini emerge che il clan Carminati stipendiava le persone solo per poter entrare in relazione con qualcuno che conta, anche se in cambio dei soldi non c’era la concessione di un appalto o di una licenza: trasformavano l’assessore o il dirigente di partito in uno strumento dei loro disegni. La novità di questa indagine sta proprio nel nuovo paradigma di associazione mafiosa, dove il ruolo della politica è secondario, al servizio dell’organizzazione.
La vicenda dell’ospedale di Caserta non ha avuto grande eco mediatica perché ormai l’attenzione sulla camorra sembra essere scemata, dopo che si è attenuato “l’effetto Gomorra”. Invece il caso riguarda un settore ad alto impatto sociale in cui la spesa pubblica è elevatissima, e nell’indagine si vede un rapporto incestuoso tra politica, affari, professionisti e criminalità organizzata. Francuccio Zagaria, cognato del padrino casalese Michele, aveva un ufficio abusivo nell’ospedale, dove riceveva i suoi questuanti. Assegnava appalti, intascando in cambio decine di migliaia di euro al mese, grazie ai referenti al vertice dell’Azienda sanitaria cui riusciva a imporre le sue decisioni. Francuccio muore, ma la moglie lo sostituisce per riscuotere le quote e interfacciarsi con i dirigenti per gestire gli affari.
La gestione politica della sanità, con le nomine di manager e primari, è un volano per la corruzione. I manager e i primari devono, infatti, essere riconoscenti ai loro mentori, fino a favorire non solo i loro clientes, ma anche le imprese amiche nell’aggiudicazione degli appalti. Al Sud questa situazione è aggravata dalla presenza delle mafie.
Nella stagione di Tangentopoli i partiti sfruttavano gli appalti per finanziarsi. I soldi solo in seconda battuta costruivano ricchezze personali, principalmente alimentavano apparati politici elefantiaci, con centinaia di dipendenti, sedi su tutto il territorio nazionale, giornali e persino canali televisivi. I politici dettavano le regole. Dalle inchieste degli ultimi anni, invece, emerge una differenza profonda. Le indagini romane, come quelle sull’Expo, sul Mose e sui Grandi Eventi, ci dicono che quel sistema centralizzato non c’è più. Il panorama della corruzione si è scomposto in tanti comitati d’affari che non nascono all’ombra del Parlamento, ma che, influenzando gli equilibri finanziari di un territorio, gestiscono appalti e accumulano guadagni. I politici, spesso nemmeno di primo piano, sono al loro servizio, garantiscono i risultati e in cambio, tutto sommato, si accontentano delle briciole.
Il mercato della corruzione non è gestito dai partiti, ma da tanti gruppetti che operano per se stessi, muovendosi in autonomia e sfruttando i legami con la politica. Spesso le consorterie sono trasversali, mettono insieme figure di schieramenti diversi, in modo da garantirsi maggiori possibilità di riuscita. Lo scandalo che meglio ritrae la mutazione del male è senza dubbio Mafia Capitale: un nucleo di potere che muove pedine di ogni colore, infischiandosene delle logiche di partito. La politica svolge un ruolo strumentale, del tutto asservita ai comitati d’affari.
Un gruppo d’affari promuove un politico vicino e gli fa conquistare cariche. Lui aumenta il suo potere e, di pari passo, accresce quello del gruppo. Poi il legame fra i due soggetti si fa più forte, perché il politico viene inglobato dal gruppo ed è a sua disposizione. Non c’è neanche più bisogno di bustarelle in cambio di appalti, perché la fedeltà non è in discussione. E non serve che diventi un pezzo grosso, è sufficiente che intrattenga relazioni con le istituzioni e apra le porte degli uffici giusti.
I corrotti non rispondono più ai partiti nel loro insieme, ma fanno riferimento a pezzi di partiti, a fondazioni, a capibastone, a comitati. Durante Tangentopoli c’era una gerarchia precisa anche nelle mazzette: esistevano figure chiare, come il tesoriere della Dc Severino Citaristi o quello del Psi Vincenzo Balzamo e i loro omologhi comunisti, liberali, socialdemocratici o repubblicani. Venivano scelte persone di sicura fedeltà al partito perché incaricate di maneggiare somme enormi: Citaristi ha ricevuto 74 avvisi di garanzia, ma nessuno ha mai sospettato che si fosse intascato una lira. Nelle ultime indagini, invece, i soldi non finiscono quasi mai nelle casse dei partiti.
Se in un partito non si può andare avanti, si incentiva il proprio politico a entrare in un altro schieramento. È un fenomeno che ho incontrato spesso nelle inchieste di camorra: politici che migrano da un movimento all’altro, oppure inventano liste civiche e alleanze trasversali per continuare ad assecondare i disegni del clan.
Il finanziamento pubblico ai partiti svolgeva una funzione democratica permettendo a chiunque di partecipare alle elezioni, indipendentemente dalle disponibilità economiche. Il meccanismo è degenerato per la mancanza di rendicontazione e così si è cercata un’alternativa virtuosa, con sovvenzioni dai contributi privati, ma non si può prendere di peso una tradizione anglosassone e innestarla nella nostra politica, perché ci manca l’abitudine alla trasparenza di quei Paesi.
Nei Paesi anglosassoni, se un senatore approva uno stanziamento che favorisce una società, i cittadini hanno il diritto di sapere se quella ditta lo ha sostenuto in campagna elettorale. Da noi non c’è chiarezza sulle operazioni dei partiti né sui soggetti che di fatto li hanno sostituiti: le fondazioni.
Dietro le fondazioni si nascondono le correnti di una volta. Secondo il codice civile sarebbero istituzioni pensate per gestire entità piccole, per questo hanno criteri di contabilità banali: non era previsto che disponessero di fondi ingenti. Ora gestiscono senza obbligo di trasparenza banche e società che muovono capitali enormi. Attraverso le fondazioni passa buona parte dei quattrini che alimentano le campagne elettorali, soldi che viaggiano fuori da ogni controllo.
Un partito o una fondazione che si occupa di politica deve essere una casa di cristallo. Tutte le entrate e tutte le spese vanno certificate, devono essere noti i nomi dei dipendenti, dei consulenti, dei fornitori. I loro bilanci devono rispettare uno standard di trasparenza superiore a quello delle società quotate in Borsa e devono essere controllati da un’autorità indipendente. Che si tratti di soldi pubblici o privati, i cittadini devono sapere chi finanzia la politica.
I partiti dicono che la politica deve essere autonoma dalle valutazioni dei giudici, ma davanti a un caso di malaffare non prendono decisioni e aspettano l’esito dei processi, quando invece stabilire l’idoneità di un soggetto a partecipare alla politica non dovrebbe essere compito dei pm. Si accusa la magistratura di influire sulle liste elettorali o sulle nomine, ma il giudice arriva a reato commesso, la selezione preventiva dei candidati la dovrebbero svolgere i partiti con i propri codici etici.
Per troppo tempo, parlando di conflitto di interessi, abbiamo pensato solo a Berlusconi, ma sono moltissime le persone che, con minore visibilità, svolgono funzioni pubbliche mantenendo interessi privati.
La legge Severino impone ai titolari di incarichi pubblici di rendere noti su internet beni, patrimoni e attività, proprie e dei familiari fino al secondo grado. Qualcuno ha sollevato un problema di privacy nell’obbligare un terzo a divulgare dati sensibili, quindi le informazioni si acquisiscono solo se c’è il consenso. In tal modo l’efficacia del provvedimento viene ridotta, perché si permette all’interessato di nascondere rapporti professionali potenzialmente irregolari quantomeno dei soggetti del proprio nucleo familiare. La trasparenza è l’unico elemento che funzioni contro il conflitto di interessi. Se non ho niente da nascondere, che male c’è a indicare dove lavorano e quanto guadagnano i miei familiari?
Fiduciarie e sigle offshore possono nascondere di tutto: i soldi dei politici, quelli degli evasori e quelli dei mafiosi. Si potrebbe stabilire che a certe gare d’appalto non possano partecipare le aziende con il capitale anche parzialmente controllato da società non identificabili.
Negli atti di Mafia Capitale ci sono indizi sulla capacità di influire sulle primarie, sia attraverso finanziamenti ai candidati, sia attraverso la disponibilità di pacchetti di elettori da inviare ai seggi. Nelle zone dove il radicamento delle mafie è forte, è emerso come i clan riuscissero a pilotare le elezioni col sistema della scheda bianca: prima dell’apertura dei seggi si trafuga un’unica scheda vergine e, compilata, la si affida a una delle persone prezzolate, che va a votare usando quella e riporta fuori la sua. Accadeva nelle consultazioni ufficiali, con elettori identificati, scrutatori selezionati e polizia, figuriamoci cosa si rischia con il far west delle primarie.
La riforma del titolo V della Costituzione ha finito per essere una delle cause principali dell’aumento della corruzione, perché ha ridotto ogni forma di controllo amministrativo. Il secondo colpo lo ha inflitto l’aumento dei centri di spesa: il principio di residualità, per cui tutto quello che non fa lo Stato è di competenza della Regione, ne ha dilatato il potere economico a dismisura. L’esempio più clamoroso è quello delle “ambasciate” che tutte le Regioni hanno aperto in giro per il mondo.
Con il federalismo ci sono centri di potere ancora più facili da lottizzare. Controllare la nomina di un assessorato o di una Asl può permettere di imbastire intrallazzi più ricchi rispetto a quelli che si raggiungono manovrando un parlamentare, un sottosegretario o il top manager di un ente pubblico. Le scelte degli alti papaveri sono sotto i riflettori, vengono esaminate dalle opposizioni, dai media. Ma chi si occupa dei contratti milionari di un ente locale?
Si pensava che usare schemi privatistici in aziende pubbliche potesse offrire servizi migliori a costo inferiore. In realtà si sono indeboliti i controlli e sono sorti organismi che possono essere finanziati senza rispettare i vincoli di spesa imposti dal patto di stabilità, e che possono assumere senza concorso né blocchi del turnover.
Agli inizi degli anni Novanta c’è stata una svolta nella lotta alla mafia, perché gli imprenditori hanno capito di non avere più il controllo nel rapporto con i clan. Figure come Totò Riina non si accontentavano di ottenere denaro dalle imprese; pretendevano potere decisionale. Da quel momento, a partire dalla Sicilia, Confindustria ha espulso le aziende legate ai clan. Oggi chiediamo di usare lo stesso metodo contro la corruzione: chi paga tangenti deve essere messo fuori.
L’imprenditore che collabora con il magistrato sa che ci perde: deve confessare un reato, accusare amici e soci, uscire da un mondo che da quel momento gli chiuderà le porte. La chiave può essere incentivare la legalità, renderla conveniente, premiare chi rispetta le regole.
L’imprenditoria italiana non apprezza le regole e vive i controlli come intralci. La modifica del falso in bilancio veniva invocata dalla grande imprenditoria, che in realtà aveva le sue ragioni per contestare una norma che, in qualche caso, puniva anche solo errori formali. Avrebbero però dovuto lavorare per migliorarla. Negli Stati Uniti, l’amministratore delegato del colosso petrolifero Enron è stato condannato a ventiquattro anni di carcere per la falsificazione dei conti dell’azienda: è in cella dal 2006 e nessuno si impietosisce.
Il massimo ribasso è una pericolosa patologia del sistema. Il danno più grave che ha prodotto è il moltiplicarsi delle varianti, modifiche al progetto iniziale che fanno lievitare la spesa e recuperare il risparmio promesso nell’offerta iniziale. Nel privato un comportamento simile non è tollerato: se c’è da rinnovare una fabbrica, concordata una cifra, nessun industriale sarebbe disposto a sborsare il doppio. L’alternativa è il metodo dell’offerta economicamente più vantaggiosa, una gara in cui non si decida solo sulla base del prezzo, ma valutando una serie di parametri. Ovviamente la scelta diventa più discrezionale e, se non ci sono trasparenza totale e commissari davvero indipendenti, si rischia di creare un’altra occasione di corruzione.
Il massimo ribasso incentiva imprenditori di dubbia legalità, che possono vincere con l’offerta più bassa e riuscire a guadagnare. Se disponi di capitali di provenienza criminale, non devi chiedere prestiti alle banche per finanziarti, e i ribassi li sostieni sottopagando il personale, gonfiando le spese con fatture false, usando il nero per ottenere sconti dai fornitori.
Oggi ci sono misure che frenano lo spreco di fondi pubblici, come i patti di stabilità. Ma le inchieste mostrano che ci sono ancora zone di caccia per i predoni della corruzione: le emergenze. Lì non si può risparmiare, quando c’è un problema grave, bisogna trovare subito una soluzione a ogni costo. Dagli sbarchi di immigrati ai terremoti, dalle frane allo smaltimento dei rifiuti, ogni calamità è il pretesto per intrecciare affari. L’urgenza fa sparire i controlli e la deroga diventa la regola.
Nel terzo settore finora non c’era stata grande attenzione ai pericoli di deviazione. Oggi la contaminazione è apparsa in modo marginale, ma si intravede un problema più profondo che richiederebbe una selezione nell’accesso alla categoria, bloccando le onlus meno serie e pretendendo che chi ha utili rilevanti osservi le stesse regole delle aziende.
Le cooperative dovrebbero tutelare i lavoratori, fare impresa per il bene comune, ma finiscono per agire come normali aziende, inseguendo solo il guadagno e accettando biechi compromessi. Alcune delle grandi coop sono coinvolte da anni nelle inchieste di mafia e di corruzione, eppure i loro uomini di punta restano al vertice.
Governo e magistratura sono membra dello stesso corpo. Ma se una mano condanna e l’altra promuove, all’estero diventiamo ridicoli.
Si dovrebbe introdurre la rotazione degli incarichi “delicati”: dopo un certo numero di anni prefetti, questori, ufficiali delle forze dell’ordine, magistrati, ispettori fiscali devono fare le valigie e cambiare città. Se si è svolto il proprio dovere, si ottiene una destinazione più prestigiosa. Se invece non si è stati all’altezza del proprio incarico, c’è il rischio di essere trasferiti in sedi disagiate. È sacrosanto che il sindacato voglia discutere il modo di applicare questo strumento, fare in maniera che lo spostamento non sia punitivo per alcuni e vantaggioso per altri. Ma l’opposizione in toto a un sistema di prevenzione riconosciuto in tutto il mondo è incomprensibile.
Negli enti locali è più facile condizionare un concorso e quindi manovrare le assunzioni. Per questo sarebbe necessario far sì che i concorsi non siano gestiti a livello locale. Un funzionario dei vigili urbani ha un grande potere e se viene designato sulla base della fedeltà ad alcuni politici, potrebbe sentirsi in dovere di rispondere a questi referenti. Si potrebbe affidare ai commissari la gestione dei concorsi, approfittando del loro ruolo di controllo per immettere nell’amministrazione figure più capaci e indipendenti.
Ci sono troppe leggi e troppo poco chiare. Sono uno strumento potente, ma il nostro sistema ne abusa, creando più problemi di quanti ne risolva e finendo così per paralizzare tutto. Anche perché molte di queste leggi devono poi essere concretizzate da regolamenti operativi che nessuno emette, e così restano inapplicate. Il solo fatto che in Italia esista un provvedimento chiamato “milleproroghe” la dice lunga su un sistema che non funziona.
Una giustizia civile efficiente è la migliore prevenzione del malaffare. Il cattivo funzionamento porta invece a cercare strade alternative per trovare la soluzione che i tribunali non offrono in tempi decenti. Quante volte imprenditori o semplici cittadini cercano l’aiuto dei boss per riscuotere crediti, risolvere controversie di lavoro e persino liti condominiali?
La magistratura a volte sembra la tela del ragno: più grossa è la vittima che vi cade, più è facile che le maglie cedano.
Troppo spesso i processi ai colletti bianchi finiscono nel nulla rispetto ai giudizi contro cittadini comuni. Certo, sono processi più complessi, ma la verità è che molti non hanno voglia di impegnarsi in inchieste difficili, e il fatto che i meccanismi di valutazione della produttività siano burocratici peggiora le cose: se condanni uno scippatore che ha rubato venti euro o un concussore che ha intascato milioni con metodi sofisticati, non fa differenza. Nelle statistiche valgono entrambi “uno”.
Bisogna dare più forza alle indagini sui “reati spia”. Per esempio vanno punite le false fatturazioni, che servono a creare i fondi neri per le tangenti: la retata sul Mose nasce proprio dai controlli sulle fatture false, perché una grande società ha bisogno di questi sistemi per racimolare i soldi in nero delle bustarelle.
Ci vogliono nuovi meccanismi investigativi per rompere il patto tra corruttore e corrotto. Non abbiamo criminali da un lato e vittime pronte a denunciare dall’altro, come avviene nelle rapine o nei furti, ma uno scambio tra due soggetti che hanno entrambi un tornaconto e nessun interesse a farsi scoprire, per questo servono incentivi che spingano a collaborare. Negli Stati Uniti si garantisce l’immunità totale a chi rivela le bustarelle.
Nelle inchieste sulla criminalità organizzata, per ordinare le intercettazioni telefoniche sono sufficienti gli indizi di un’attività illecita, mentre nelle indagini per corruzione servono elementi più solidi e non facili da trovare.
Quando ho proposto di impiegare gli infiltrati nella lotta alla corruzione, il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri ha dichiarato che sembravo un emulo di Pol Pot. Negli Stati Uniti, che non sono certo una dittatura comunista, schierano persino agenti provocatori sotto copertura, che offrono tangenti ai politici per testarne l’onestà.
La norma sul “whistle blower” è stata introdotta dalla legge Severino. L’Autorità ha aperto un indirizzo email per le segnalazioni che viene letto solo da me e dagli ispettori, che garantiamo la riservatezza a chi denuncia, per proteggerlo da discriminazioni sul lavoro. Questa figura però può operare solo nella pubblica amministrazione e non nelle aziende private. Inoltre la tutela gli è assicurata solo nei procedimenti amministrativi, ma se svela un’ipotesi di reato siamo obbligati a rivolgerci alla procura. E nei processi penali l’accusatore deve testimoniare.
La prescrizione distrugge l’efficacia della repressione. Troppi dibattimenti finiscono nel nulla lasciando sugli imputati un’aura di sospetto pesante per chi è innocente, e che non impedisce ai protagonisti degli scandali di tornare ai propri incarichi. Le modifiche introdotte dalla legge ex Cirielli, che riduce i tempi per la prescrizione, non sono state accompagnate da risorse per migliorare la macchina dei processi.
I condannati per corruzione condividono lo stesso percorso destinato a ladri e rapinatori: l’affidamento in prova al servizio sociale. I colletti bianchi, dopo aver commesso reati gravi, se la cavano presentandosi un giorno a settimana presso una ong o in un ospizio.
Se tutte le attività della pubblica amministrazione vengono rese note, le possibilità che le anomalie emergano si fanno più concrete. Attraverso il web si può sapere se per un appalto è stato concesso un numero eccessivo di varianti, se un abuso di provvedimenti di urgenza ha favorito sempre la stessa impresa, se i professionisti dietro le licenze sono gli stessi. Elementi che, da soli, non costituiscono una prova, ma insieme possono dare l’idea dell’esistenza di situazioni opache. La trasparenza nella pubblica amministrazione scoraggia l’assalto dei corrotti.
Nel 2013, un decreto legislativo ha imposto a ogni ente di pubblicare sulla propria pagina web informazioni su gare d’appalto, consulenze e altre attività che possono celare malversazioni, e prevede anche che siano online le informazioni sui redditi di chi riveste incarichi direttivi nelle authority, nelle partecipate, nelle università e negli ordini professionali. Tutti i vertici sono obbligati a rendere noto quanto guadagnano, più la loro situazione patrimoniale e quella dei familiari, ma ci sono grandi resistenze, spesso ci si richiama alla privacy.
Con la trasparenza si può anche sfoltire la giungla retributiva. A parte i grandi comparti, in cui c’è più o meno lo stesso stipendio, sopravvivono strutture con compensi molto differenti e questa opacità fa sì che per conquistare le scrivanie più ricche si sia pronti a tutto.
La legge Severino introduce il principio per cui certe posizioni possono essere rivestite solo da soggetti che rispondono a una serie di requisiti. Anzitutto non devono avere condanne. Nel caso in cui un individuo sia coinvolto in un’indagine, è sufficiente che venga giudicato colpevole in primo grado perché venga sospeso dal suo incarico. Dopo l’ultimo grado di giudizio, se viene assolto torna al suo posto, se invece viene ribadita la sua colpevolezza, scatta la decadenza dalla carica. Le polemiche non mancano, c’è chi ritiene che venga violata la presunzione di innocenza. Ma la sospensione serve per tutelare la credibilità della pubblica amministrazione: non puoi rappresentare le istituzioni se sei stato condannato in primo grado.
Tra i nostri compiti c’è anche la valutazione dell’inconferibilità degli incarichi. Chi fa cento cose intascando cento stipendi non può svolgere bene tutte le mansioni. L’inconferibilità e l’incompatibilità sono misure che devono impedire la confusione tra il ruolo pubblico e la sfera privata, contrastando i conflitti di interessi anche quando sono solo potenziali. La legge, infatti, ostacola il pantouflage, ossia il passaggio dei funzionari pubblici alle aziende private, per eliminare il rischio che chi assegna gli appalti vada poi a lavorare nell’azienda che li vince.
Per combattere la corruzione, le persone devono cambiare e smettere di chiedere regole solo per gli altri. Alla nascita dell’Autorità una docente universitaria ha voluto incontrarmi. Era una persona impegnata sui temi della legalità e della lotta alle mafie, quindi l’ho ricevuta volentieri. Mi ha detto che le sarebbe piaciuto diventare consigliere dell’Autorità, ma i termini per il bando erano chiusi. La sua replica è stata sorprendente: “E che problema c’è? Facciamo in modo che non siano chiusi, ci inventiamo un protocollo alla buona”.
L’obiettivo degli imprenditori è il profitto, quindi bisogna rendere la legalità conveniente, perché la lotta alla corruzione non si fa contro di loro, ma insieme a loro. È la linea scelta con i commissariamenti degli appalti. Infatti, mentre nei provvedimenti antimafia l’intera azienda viene messa sotto controllo pubblico, con il rischio che tutta l’attività venga compromessa fino al fallimento, l’Autorità si limita a sterilizzare il singolo cantiere, così garantiamo che i lavori vengano terminati. Gli utili di quell’appalto, però, non vanno nelle tasche dell’industriale, ma vengono confiscati e usati per pagare i risarcimenti nei processi. E l’imprenditore si rende conto che la mazzetta non si è rivelata un buon affare.
(a cura di Paola Fusco)