Kevin Mitchel, GQ 4/2015, 8 aprile 2015
IL PUGNO DEL SIGNORE
Fa un certo effetto trovarsi a mezzo metro dai dolci occhi bruni di Manny Pacquiao – anche dai suoi granitici pugni, altrettanto bruni ma assai meno amabili – e sentirlo dire, con assoluta sincerità, che Dio gli ha parlato in persona, che ha visto «la fine dei tempi».
Quindi è naturale domandarsi se quel giorno del giudizio non coincida con il prossimo 2 maggio: quando, cioè, il trentaseienne indiscusso idolo delle Filippine, primo pugile della storia a vincere dieci titoli mondiali in otto differenti categorie di peso, eletto nel 2010 deputato al Parlamento di Manila, sfiderà nel match del secolo l’altro pluricampione del mondo Floyd Mayweather da Grand Rapids (Michigan), 38 anni, detentore di dieci titoli in cinque categorie, imbattuto dopo 48 combattimenti.
Sarà in assoluto rincontro più ricco del secolo (un affare da 400 milioni di dollari: i diritti televisivi verranno divisi equamente, mentre il 60% della borsa da 200 milioni andrà all’americano, il 40% al filippino), oltre che il più atteso da uno stuolo di appassionati che lo sognano da sette anni.
Tornando all’apparizione divina. Detto da chiunque altro, sarebbe inquietante: detto da lui, che fa il pugile da quasi due decenni, suscita il dubbio che abbia preso qualche pugno di troppo. Perché Emmanuel “Manny” Dapidran Pacquiao detto “Pac-Man” non è un sognatore, anzi, conduce un’esistenza particolarmente corporea. Né dichiara, come altri boxeur, di essere il profeta o che Dio è dalla sua parte.
Ci mancherebbe altro, visto che i tempi in cui metteva a ferro e a fuoco ogni locale notturno da Manila a Los Angeles non sono così remoti. «Ho tanti sogni, tante visioni», insiste il campione mondiale dei pesi welter per la World Boxing Organization e dei superwelter per il World Boxing Council. «Ho perfino sentito la voce del Signore e ho tremato, mi sono sciolto quasi fossi morto. Un’esperienza incredibile». Continua: «Sono felice di aver trovato la salvezza. A tutti viene chiesto di rinascere, altrimenti Cristo ha detto che non si può entrare nel regno di Dio: “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”. L’unica strada è Gesù».
Fino a pochi anni fa non era così virtuoso. Nottambulo incallito in costante caccia di donne e piaceri vari ovunque, ignorava qualsiasi esortazione a rispettare la santità del vincolo matrimoniale, deciso com’era a spremere dalla vita ogni soddisfazione che si presentasse a lui, figlio della povertà più nera. Lo descrive così l’incipit dell’eccellente biografia di Gary Andrew Poole, Praise for Pac-Man: Behind the Scenes with Manny Pacquiao: «Uscendo senza fretta dagli spogliatoi del Wild Card Boxing Club di Hollywood, Pacquiao tende una mano e un membro dell’entourage gli passa un pettine. Guardandosi in uno dei tanti specchi luridi della palestra, si pettina i capelli corvini, si spazzola il pizzetto e annuisce con aria di approvazione. Qualcuno gli mette al polso l’orologio (un Rolex Yacht-Master d’oro massiccio), poi gli passa l’orecchino a bottone con diamante, che si infila nel lobo sinistro».
I capelli sono ancora neri, pizzetto e orecchino con diamante restano al loro posto, lo sguardo è sempre sveglio. Ma Pacquiao è un uomo profondamente diverso: più appagato, meno irrequieto nonostante la dicotomia fra i suoi due mestieri: deputato al servizio del popolo, pugile specializzato nell’infliggere dolore. «La gente è stupita dal modo in cui ho cambiato vita», spiega. «Tutto quel darmi da fare... a quei tempi, e a quell’età, sapevo di poter avere tutto quel che mi pareva. Ma negli ultimi tre anni ho sentito la Sua voce e posso testimoniare che Dio c’è. Ho visto due angeli bianchi con lunghissime ali. Ho visto il Paradiso. Il Signore mi ha mostrato la fine dei tempi... così ho cambiato vita».
Non ho la sensazione di essere davanti a un uomo che potrebbe mandarmi all’ospedale con un semplice, fulmineo guizzo del polso, come nel 2009 ha fatto a Ricky Hatton, altro pugile che non si risparmiava i piaceri della vita. Freddie Roach, da 13 anni allenatore di Manny, la storia della redenzione l’ha sentita infinite volte. «Per lui, oggi, è davvero fondamentale», commenta con aria vagamente rassegnata, «eppure sua madre Dionesia è fuori dalla grazia di Dio, cerca sempre di affibbiargli un rosario. Temo solo che la conversione ne danneggi la carriera politica: il 90% dei filippini è cattolico mentre oggi lui è un “cristiano rinato”».
Poi aggiunge: «Una cosa è certa: lui e Jinkee, sua moglie, non sono mai stati così felici. Ha smesso con gli stravizi, non beve più. Ha il fegato pulito, non va più a scopare in giro. È un marito e un padre migliore, quindi lei è contentissima. Prima era un selvaggio che teneva il mondo per le palle e aveva a disposizione qualsiasi cosa».
La carriera non ha sofferto, anzi. Il 22 novembre 2014 Pacquiao ha affrontato Chris Algieri da Huntington (Long Island), campione imbattuto dei pesi welter leggeri, alla Cotai Arena del Venetian Casino di Macao. Algieri, in gamba come pugile e ancor di più come uomo (oltre a 28 vittorie in altrettanti incontri, vanta una laurea in Amministrazione Sanitaria e un master in Nutrizione Clinica), non potentissimo ma con grinta da vendere, è durato per tutte e 12 le riprese nonostante sei atterramenti subiti da Pacquiao.
E meno male che i due sono amici e che per promuovere l’incontro insieme avevano fatto 43mila chilometri di volo, da Pechino a Shanghai, da Hong Kong a San Francisco, da Las Vegas a New York. «Fuori dal ring, tutti gli avversari lo sono; ma sul ring abbiamo un lavoro da fare», spiega Manny. Fra un viaggio e l’altro, ammazzavano la noia sfidandosi sul tavolo verde. «Sì, è vero, a biliardo contro di lui ho perso», ammette il campionissimo nativo di Kibawe, nelle Filippine, «ma nella sfida vera e propria ho vinto io. Perché sono migliore, perché l’essere cristiano mi dà un vantaggio. Haha!», ride.
Pochi, nel mondo del pugilato, ridono quanto lui. Alcuni campioni attendono gli incontri con timore. Altri, come David Haye, lo stesso Mayweather e Gennady Golovkin, non vedono l’ora di vestire i guantoni. Manny appartiene alla seconda categoria. «Me lo si legge in faccia che è la mia passione. Salgo sul ring e sorrido, perché non sto nella pelle dalla voglia di combattere».
Pacquiao sembra in gran forma. Forse la migliore da quando, l’8 dicembre 2012, il messicano Juan Manuel Márquez detto “Dinamita” ha sconvolto lui e il resto del mondo mettendolo ko alla sesta ripresa con uno dei destri più spettacolari che la boxe avesse visto da anni e anni. Magari non è proprio ai suoi massimi livelli: ma gli basterà per sconfiggere Floyd Mayweather detto “Pretty Boy” e “Tbe” (The Best Ever, ndr), detentore del titolo dei pesi welter secondo World Boxing Council e World Boxing Association, nonché di quello dei medi secondo Wbc Super e Wba?