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 2015  aprile 04 Sabato calendario

IL CLUB DEL DRAGO DORATO


Davanti al Bai-Sheng, il grattacielo blu notte al margine di Hangzhou, sfila un corteo di Porsche Jaguar e Limousine. Una ragazza in visone accoglie gli ospiti nella hall e li accompagna all’undicesimo piano. In un enorme spazio semivuoto penzolano dal soffitto capi d’abbigliamento, il meglio delle griffe cinesi e internazionali. Gli invitati sono giovani e belli, gli uomini in giacca, le donne in abito da sera. La serata è stata organizzata dalla 27enne Zhou Yufei per inaugurare la sua griffe di abiti e accessori. Zhou si è formata a Londra, e ha scelto di chiamarsi Sophie. Indossa tacchi altissimi, un abito nero e un collier della sua collezione. È rientrata da qualche mese dall’Inghilterra. Questa festa segna il suo ingresso nello Shao Shuai Hui, il “Club dei giovani e belli”, che raggruppa la jeunesse dorée di Hangzhou, ragazzi tra i venti e i trent’anni, ricchi di famiglia o grazie alla rapida crescita economica del loro paese. Il nome dell’associazione è un gioco di parole, traducibile anche come “Club dei giovani capitani”. In cinese loro sono i tuhao – tu significa “puro”, hao significa “lusso” –, i giovani arrivati, che ostentano disinvolti la loro ricchezza stringendo sempre più le maglie del network che li ha portati a emergere. La generazione tra i venti e i trent’anni è la prima della Cina a essere cresciuta in condizioni di moderato benessere, in alcuni casi nell’opulenza, grazie ai genitori che hanno condotto una vita spesso breve e di grande sacrificio. Sui loro figli pesano altissime aspettative.
La vita dei “capitani” della nuova Cina è stressante, dicono, non è facile essere un tuhao. Sophie, la stilista, ha due appartamenti, uno in un residence in città, l’altro vicino alla casa dei genitori. Il padre è un industriale della chimica. Il 33enne FengWei, che le sta accanto, ha guadagnato il suo primo milione dieci anni fa nell’immobiliare. Acqua passata, dice. Ora è partner di una società di investimento che finanzia programmi tv. Feng indossa un abito su misura e, come molti altri invitati alla festa di Sophie, una cintura di Hermes, con una grande H. «Se vuole saperne di più sul nostro club chieda al mio amico Andy. Mi ha appena telefonato per il viaggio che hanno organizzato in Giappone. Si parte domani. Le do il numero».

IL VIAGGIO A TOKYO
Hangzhou, sud ovest di Shangai, otto milioni di abitanti è una città ricchissima, il suo Pil supera oggi quello dell’Ungheria. È sede della casa automobilistica Geely che nel 2010 ha acquisito la Volvo, del colosso delle bibite Wahaha e di Alibaba, il sito di e-commerce da quest’estate quotato in borsa a New York.
Il viaggio in Giappone del Club dei giovani e belli di Hangzhou è organizzato come una visita di stato. Lunedì: Tokyo, incontro con imprenditori del settore informatico e del riciclo rifiuti. Martedì: fabbriche Yamaha e gita sul vulcano Fuji. Giovedì: Toyota. E così via. Nelle pause si va a fare shopping nei centri commerciali di Ginza. Al 32enne Andy servono con urgenza delle nuove polo di Comme des Garçons, griffe del giapponese Rei Kawakubo molto amata dai cinesi ricchi. Andy, nome cinese Ying Renguang, si è unito al gruppo volando a Tokyo da Las Vegas. Era negli USA per promuovere i prodotti della sua ditta di Hangzhou (componenti in fibra di carbonio per auto). Andy ci mette due ore a trovare le polo che cercava, ma secondo lui ne valeva la pena. Qualche mese fa è uscito un saggio di Erwan Rambourg, analista finanziario residente a Hongkong, dal titolo The Bling Dynasty, dedicato alla nuova mania dei cinesi: lo shopping. Cosa spinge persone come Andy a volere a tutti i costi prodotti di marca? «Forse questa ossessione deriva dal fatto che abbiamo dovuto aspettare tanto per averli».
Il nonno di Andy era contadino in una comune, suo padre un soldato che, dopo l’apertura della Cina al mercato, rilevò assieme a due commilitoni una fabbrica di suole per scarpe di proprietà dello stato. All’inizio degli anni 90 registrò il brevetto di un rinforzo in acciaio per tubi di gomma, cinque anni dopo era ricco. «Mio padre non mi ha mai detto bravo», commenta Andy, «mi spronava solo a fare di più». Nel 2005 Andy si è messo in proprio. La sua prima macchina era una Passat, la seconda una Tiguan, ora viaggia in BMW X5.
La sua ditta ha più di 100 dipendenti, la sede occupa metà di un piano del grattacielo più caro di Hangzhou, la fabbrica si trova nell’hinterland. Gli affari vanno benissimo. «Tesla e la BMW ormai producono auto elettriche di serie, per cui la fibra di carbonio è richiestissima».Tra cinque anni le cose andranno ancora meglio? I suoi figli avranno una vita ancor più facile della sua? Andy prima mi guarda perplesso, poi risponde di sì a entrambe le domande, come la maggioranza dei cinesi.
Andy è un padre di famiglia. Rifiuta la proposta del suo amico Feng di vedersi la domenica perché quel giorno lo dedica ai figli. Se rinuncia a qualche week end con la famiglia è solo per dedicarsi alle attività di beneficenza del Club dei giovani e belli: per i ricchi cinesi la povertà è un ricordo recente, risale solo alla generazione precedente. Mi mostra sul cellulare le foto dell’iniziativa realizzata dal Club la primavera scorsa: un tir carico di coperte, berretti, libri scolastici e palloni da basket consegnati nella povera provincia di Guizhou. I bambini hanno giocato con i ricchi signori di Hangzhou, elegantissimi nelle giacche a vento griffate. Andy non è membro del partito, la politica non gli interessa, come alla maggior parte degli altri soci del Club. Decide lui cosa fare del suo patrimonio, pensa sia giusto così. Nel 2000 sua madre è morta per un cancro al fegato, e lui non si rassegna ancora alla perdita, convinto com’è che in un paese dotato di migliori strutture sanitarie la madre sarebbe sopravvissuta. «Magari un giorno potrò permettermi di costruire un ospedale, una clinica per i malati di fegato».

LA STILISTA
Sophie mi ha scritto per sms: «Vediamoci alle 12, dormo fino a tardi». Quando arrivo indossa un giubbotto di pelle marrone, golf e mocassini rosa. Apre la porta del suo appartamento in cui sono al lavoro due operai.
Il complesso residenziale International Monarch Garden nella sua città natale,Yuyao, è costituito da ville in stile neoclassico parigino, immerse in un parco con fontane e palme. L’alloggio di Sophie, 350 mq misurati a occhio perché Sophie non sa essere più precisa, è su due livelli, ed è costato al padre un milione di dollari.Verrà mai ad abitarci? Alza le spalle: «Mio padre vuole che mi sposi. I genitori cinesi sono strani: quando vai a scuola non ti permettono di frequentare ragazzi, ma appena finisci l’università devi sbrigarti a trovare marito. A me sembra troppo presto».
Sua sorella a 32 anni ha famiglia. È lei che prenderà in mano l’azienda. Sophie ha frequentato le scuole statali a Yuyao, poi ha studiato economia aziendale in Cina e a Londra e, l’estate scorsa, un corso di filosofia a Berkeley.
Prima di rientrare in patria ha comunicato al padre di non avere intenzione di lavorare nell’industria chimica di famiglia, ma di volersi dedicare alla moda. «Yuyao è famosa per le pellicce e mio padre mi ha comprato una manifattura. Dopo qualche mese però mi sono resa conto che non riuscivo a dare spazio alla mia creatività». Il padre le ha comprato anche le due auto e l’appartamento nel residence di Hangzhou, ma non crede in lei, dice. «Da tempo ha un piano preciso: la mia esperienza nella moda fallirà, io tornerò a Yuyao, mi sposerò ed entrerò in ditta. Ma gli dimostrerò il contrario». Per Sophie non è vero che la moda in Cina non ha futuro. «Il problema è che finora ci siamo limitati a produrre per i marchi occidentali». Peng Liyuan, la moglie del presidente Xi Jinping, indossa solo capi cinesi, semplici ma molto preziosi. «Abbiamo bisogno di un Gucci cinese, di una Chanel cinese, io voglio arrivare a questo». Nel frattempo Sophie ha riscosso il suo primo successo: due partecipanti al famosissimo programma tv Fei Cheng Wu Rao hanno indossato in trasmissione un suo abito e un suo collier. «La mia strategia sarà questa, organizzare piccoli eventi invitando politici, banchieri. Per creare reti di contatti».

LA COPPIA DELLA TV
Feng Wei, l’amico di Andy, la domenica mattina sfreccia sulla sua Maserati per le strade di Hangzhou. Il giorno prima ha partecipato a un incontro organizzato dal Club dei giovani e belli con i titolari di due colossi internet cinesi, l’ex ministro israeliano dell’Economia e un docente della Harvard Business School. Qualche ora fa ha firmato un contratto da 25 milioni di euro: una ditta di Pechino investe in una produzione tv finanziata dalla sua società. È ancora carico di adrenalina. I dipendenti della Angel Capital, la società di investimento che gestisce con il suo socio, Xu Jiong, sono tutti in sede, anche se è domenica. Guardano Feng con ammirazione. Sull’immensa scrivania del suo ufficio ci sono tre libri in cinese: Il successo non è un caso di Li Jiacheng, A spasso per Wall Street di Burton Malkiel e Perle di saggezza ebraica per gli affari, autore anonimo.
«Saprebbe indicarmi un programma tv europeo che potremmo importare in Cina?», mi chiede Feng. «Sul serio, avete dei format che potrebbero funzionare qui da noi?». Xu e Feng hanno ottenuto dalla Merchants Bank una linea di credito per un miliardo di yuan, 136 milioni di euro. «Se cerco un partner in affari deve darmi garanzie», dice Feng. «Prendiamo il mio socio, Xu Jiong, vedo che casa ha, che auto ha, come si veste, ascolto quello che si dice di lui e so che ha dei contatti che potrebbero farmi comodo». «Mia moglie è maestra», dice Xu. «Non avrebbe bisogno di lavorare, ma sono felice che continui. La invitano alle degustazioni di vini, ai pomeriggi tra signore: contatti preziosissimi». «Se oggi andassi all’estero, con tutto il mio denaro in molti paesi sarei benestante, ma qui a Hangzhou non mi sento particolarmente ricco».
Molti cinesi che hanno fatto fortuna sono riusciti a portare il denaro all’estero per timore di non riuscire a reggere lo stress da successo, l’aria inquinata, gli alimenti contraffatti. L’80% di loro preferirebbe che i figli studiassero all’estero. «Perché dovrei andarmene?», dice invece Xu Jiong. «Io ho fiducia nel nostro paese. Ma se dovesse capitare qualcosa, una guerra contro il Giappone per esempio, so cosa farei: donerei i miei soldi all’esercito». (©Der Spiegel/NYTimes Syndication.Traduzionc di Emilia Benghi. Foto dell’Ag. INSTITUTE)